auto recensione

Leggo abbastanza addietro e trovo una scrittura puntuta, asciutta. A tratti nervosa. Ricca di insoluti. Un pensiero che borbotta tra sé e poi esce per incontinenza. Più sotto, sento il raffrenarsi perché dire troppo non conviene mai. Spesso le chiusure si sospendono, lasciano i compiti per casa, le soluzioni aperte. E cosa c’è di meglio di una chiusura che apre?

Gli aggettivi non ridondano, c’è una ricerca delle parole nella memoria, non nel vocabolario, si sente che esse portano ad altro e affascinano. Mancano, o sono rare, le similitudini e quindi è attenuata la voglia di trarre un insegnamento generale dal particolare. L’aforisma però è presente, la sua asciuttezza ammalia lo scrivere. È pur sempre un po’ moralistico, ma ha la funzione di mettere in ordine le idee e aiuta chi si contrappone: a nettezza si risponde con nettezza.

Complessivamente è il giorno a fare da padrone: ciò che accade urge e trabocca. C’è un piacere nell’urgenza, ovvero quello del consumare perché il tempo lineare non concede ripetizioni. Emerge la necessità di avere più tempi a disposizione, e lasciare che ognuno possa dare ciò che può. Sono scritti notturni o diurni, formazione che è salita, con gioie e fatiche inattese. Insoddisfazione, che implica necessità di soddisfare. Perfezione e innocenza per andare oltre alla realtà, così imperfetta e complicata di colpe non sue. Autoironia e consapevolezza dei limiti messi in una tensione febbrile, vissuta molto più dentro che nelle parole che anzitutto parlano al sé. Priorità, per fortuna, alterate rispetto a ciò che conviene ed è utile. La ricerca di un equilibrio non è pace, ma oltre. E in questo oltre c’è il futuro.

6/6

Hai vissuto in lungo e in largo e la prendi un po’ distante. Per questo la fai lunga che non si capisce dove finirai. E ti pare di considerare tutto, comprese le ragioni che non son tue, ma a vivere di rabbie non si capisce nulla. E allora capisci e allarghi il braccio per comprendere in un abbraccio. C’è spazio e tempo al mondo, ma non ci credi che lasciato far da solo il tempo sia galantuomo, nel tuo gesto largo c’è bisogno di un cuore che ti raccolga. E in quel battere forte quand’è l’ ora c’è quello che vorresti subito: un po’ più dei desideri, un poco meno della pazienza. Poi nel ritmare lento, trovi il guardare senza fretta, lo spazio per ascoltare e poi capire.

C’è tutto quel che serve: gli amici, le ore che si fan dolci, il vino e il cibo buono, le chiacchiere, le voci sovrapposte, le risate. Ti vien da sorridere perché 6/6, è un pieno di vita che ti porti addosso e non sapevi d’avere tanto affetto fuori che aspettava, anche se è voglia di baldoria che si mescola agli affetti, ma in questo groppo di giorni che abbiamo condiviso, è rimasto quello a cui non si dà nome, e tiene e lascia, filo che ci cuce le vite addosso.

Che povero il tempo che non può fare a meno di noi per la bellezza, di lui ci sarebbe solo traccia di disfacimento e invece in questa notte balla per cerchi larghi. Con noi. Anche se manca sempre qualcuno che vorresti e che l’innocenza tiene legato al cuore, lo metti in un sorriso come un tango in una piazza vuota. Il brindisi è all’aria, al cuore, a noi e a ciò che non si consuma.

il grafo della fine dell’infanzia

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In fondo erano poche strade, anche se a me parevano tante, il grafo dei miei percorsi l’avevo in testa, con relative priorità e gradi di piacere, ma allora non sapevo cos’era un grafo ed erano solo strade e luoghi di congiunzione tra necessità e libertà. Avevo 11 anni, quasi 12, come il millequattro quasi  millecinque di non ci resta che piangere. Casa, campo da pallacanestro, patronato, scuola, i giardini di certe case in rovina, case di amici, il Prato e gli zii, i giardini dell’arena e le piazze. Percorsi con i calzoni corti, di corsa, da solo, in compagnia, nel sole delle estati afose di città, piano, sotto i portici, d’inverno. Alcuni pensieri ancora li ricordo, erano di attesa di cose buone, di futuro. E poi quella nuova scuola. Tetra come sanno essere i conventi strapazzati dagli usi civili, ricca di superfetazioni, laboratori, cemento e aule ricavate in spazi che un tempo dovevano essere belli. Una scuola professionale, perché questo aveva pensato per me il maestro, ed era stato pure ascoltato; che stupidaggine vista la mia manualità e la fantasia solitaria e galoppante. Comunque era un’ altra scuola e a me bastava per uscire dall’infanzia. Non più l’elementare vociante dei bambini, dei grembiuli e dei fiocchi, dei nonni in attesa, delle dita sporche d’inchiostro. Non più le aule che odoravano di vecchio e di legno, i finestroni altissimi che si riempivano di pioggia, le tende pesanti, nocciola di sporco e di canapa, gli alberi visti mentre desideravo esser fuori e lontano una voce spiegava, spiegava e io sognavo di tagliare un ramo del tasso che vedevo per farne un arco (come Robin Hood), non più lo stesso maestro, gli stessi compagni, gli stessi percorsi: tutto nuovo, strade nuove, occhi nuovi per un’età che cresceva troppo piano e troppo in fretta rispetto ai pensieri e al corpo che s’inerpicava nell’età prepubere. L’età informe e indecisa, la terra di nessuno in cui sarebbe accaduto molto, troppo, e capito nulla o quasi. l’età delle trasformazioni in cui scoprivo la libertà, la possibilità d’essere solo e felice. Eppure in quel vivere mi sembrava di non imparare nulla di confrontabile con il prima ed erano pochi i ricordi che restavano dei giorni, delle cose, quasi a negare l’età precedente, perché il ricordare è faccenda personale, un riposarsi nel passato, cosa davvero poco interessante quando si cresce o si esce da un’età e si entra trionfanti e timorosi nella successiva.

Eppoi c’era una nuova casa, perché in quell’anno traslocammo, nuovi pensieri e nuovi luoghi di gioco. Ambienti più grandi da odorare, un sole diverso che irrompeva da finestre disposte secondo nuovi orientamenti, odore di calcina e di lacca, pavimenti di legno a lunghe tavole, il terrazzo veneziano nel soggiorno, una televisione, un frigorifero, un giardino, un muro alto che separava da un convento pieno di ragazze che cantavano canzonette, una terrazzetta, due scalini di legno su cui mi sedevo guardando il Santo, con le sue cupole e l’angelo con la tromba che si muoveva con il vento e la soffitta e i mobili in cui nascondere fumetti e un tumulto dentro con la scoperta della malinconia. Forse mezzo chilometro, ma il mondo era davvero cambiato. Io ero davvero cambiato.

E continua…

e che c’è da capire?

La domenica delle palme, forse più della Pasqua, evoca molto anche a chi non è credente. E’ molto umana, evidenzia la fugacità dei trionfi, l’osannare vacuo e interessato della folla, l’applaudire che si trasforma in dileggio. E’ l’anticipo del “crucifige” e chi è osannato dovrebbe ricordarselo. Basterebbe questo per riconoscere che molto di umano c’è nel religioso, e non solo il mezzo, ma l’insegnamento sulla relatività dell’uomo. Se l’uomo non si riconosce in sé, se non rifiuta la folla, se non si guarda dentro per trovare le ragioni che lo spingono e lo giustificano nei suoi atti, cercherà altro e soprattutto assoluzioni che non lo salveranno da sé, basteranno forse ad altri, ma gli altri sono quelli del trionfo delle palme.

Forse un agnostico non dovrebbe farsi troppe domande su ciò che vede, ma piuttosto badare a ciò che sente. Chi ha una fede è meno solo, ma non basta e non è per sempre. A volte chi non ha una fede se la costruisce, ne cerca la giustificazione in sé non nella razionalità, come fosse un salvagente lanciato nella notte: gli serve per galleggiare.

Chi non ha una fede sperimenta la solitudine e pensa non ci siano sbocchi se non nell’altro, nel sentirlo, affrontando con lui l’oscurità che emerge dentro. E’ la sola speranza che ha, ed è così flebile che la deve difendere da ogni evidenza contraria con una fede laica nell’uomo che spesso neppure la religione trova. Qualche anno fa mi trovavo la notte di Pasqua a Regensburg. Nevicava come in questi giorni, non avevo voglia di andare a dormire e mi ero messo a camminare per la città, anche se era tardi. Alla fine, mancava poco all’albergo e a mezzanotte, il freddo mi spinse nella cattedrale. La scena che mi si parò davanti mi stupì molto: la chiesa era zeppa di persone e totalmente al buio, solo verso l’abside c’era il cero pasquale acceso. L’officiante parlava salmodiando, ma da solo, al buio. C’era una sospensione tra le persone, un silenzio di attesa. Tutti sembravano solo respirare e ascoltare. E tutti guardavano verso l’altare che s’intuiva attorno alla voce. Guardavo attorno, con gli occhi che si stavano abituando al buio, quando all’improvviso esplose un halleluya e scoccando come una fiammata, dall’abside verso la navata, la luce invase la chiesa. Bianca e fortissima come divorasse l’oscurità. Il coro intonò un inno di giubilo. Adesso i volti attorno erano sorridenti e cantavano. Devo dire che l’emozione fu forte, forse troppo e dopo poco uscii. Avevo bisogno di restare solo.

Di solito a questo punto si scrive: quella notte capii… invece io non capii niente di più di quello che già sapevo, ovvero che c’è chi ha fede in qualcosa che non può toccare, eppure lo sente, e chi non ce l’ha, ma non per questo è sola razionalità. Però entrambi sono uomini e se condividono la spiritualità si possono parlare di cose immateriali che conoscono. Se non mettono in mezzo i dogmi, se guardano alle cose che possono fare assieme rispettandosi, si accorgono che possono fare tutto quello che è importante davvero. Poi se vogliono, uno metterà un limite e l’altro lo rispetterà, ma quel limite è cosa loro.

Star bene, rifiutare ciò che non appartiene, e tenere tutto il resto. Io credo (parola difficile per un non credente) che se ci si riconosce, allora anche l’osannare vacuo si perderà, la distanza si farà breve in ciò che conta. Non serviranno trionfalismi, solo l’idea che ciò che si fa è giusto e fa bene.