Se a volte la cortesia impone parole, solitudini interrotte, il fare necessario, ciò non significa nulla più che un fastidio leggero, un’insofferenza celata quel tanto da far dire: non ha il suo solito umore. L’autunno chiude nelle case, le parole si fanno rade e dense di significato, l’orecchio è attento, ma più alla pioggia sul tetto (che ben si fonde con lo scorrere dei pensieri) che alle urgenze, che tali non sono.
Coltivare il proprio hortus conclusus, ammettere poca vista sulle proprie cose piccole e preziose, finalmente colte nella loro perfezione, ascoltare ciò che si vuol sentire. Una sordità così selettiva da essere assenza. Eppure esserci. Anche nel condividere ciò che altri fanno, gli impegni forti delle vite, il senso di alcune passioni che giungono d’altrove (si può leggere l’animo altrui e gioirne, senza innamorarsene un poco?), e tornare alle proprie giornate, al proprio tempo, circoncluso per sé, mentre le mani fanno altro. Impastano farina e uova per un dolce, sistemano carte, scorrono una carezza, svolgono un bacio. L’inverno incipiente aiuta, come un camminare sul confine, e non è forse questa la gioia paurosa che mette il bimbo nel percorrere uno stretto cammino in equilibrio? La tavola sul vuoto percorsa con paura, il piacere dell’essere riusciti, non sarà mai compensato da altri che da sé. Così i piccoli piaceri, che mostra il sorriso accennato, sono la sostanza del rischio di vivere, e la dimensione delle cose che posso scambiare si farà sempre più piccola tanto più aumenta la condivisione. A chi potrò parlare senza vergogna, di questi miei tesori, frammenti di colore, sensazioni così intime da essere pezzi di sentire che soli hanno accesso all’anima?