apolidi in patria

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Alcuni di noi, io ad esempio, abbiamo una Patria, un paese che amiamo, una cultura comune. Sappiamo cose, magari non tutte così precise, e non tutti le stesse. Ci formiamo idee, un’analisi della realtà, pensiamo soluzioni. Di sicuro non abbiamo, da molto tempo, verità assolute e il relativo ci sembra un buon modo per accogliere differenza e ragionamento contrario, ma pretendiamo rispetto. Per i principi fondanti, ad esempio, che se tali non sono il palazzo sociale barcolla, non è più casa comune e a che serve un paese se non ha principi, rispetto e solidarietà? Ciò vale per noi e per chiunque. E nel rispetto sono comprese le regole che devono valere per tutti, prima tra tutte la verità dei comportamenti. Per questo e per altro, non ci piacciono i furbi, quelli che dicono una cosa e ne pensano un’altra, quelli che cercano di fregarti dicendo e ritrattando. E neppure gli arroganti ci piacciono perché usano la forza per imporre verità non vere. Non ci piacciono gli irresponsabili che dicono cose che non faranno, oppure fanno guai e li attribuiscono ad altri. Non ci piace chi la racconta pressapoco, chi imbonisce, chi prende in giro la speranza comune di star meglio.

Sappiamo che la colpa di ciò che accade non è sempre altrove, che un motivo per tutto non giustifica niente, e quindi facciamo autocritica. Spesso. L’onestà ci sembra una precondizione in ogni rapporto, e non è un fine. Bisogna essere onesti, anche con se stessi. Vediamo i nostri limiti, sappiamo che sono importanti, però abbiamo sogni grandi e piccoli, vecchi e nuovi. Sappiamo che il mondo è complesso, che bisogna semplificare le cose per capirlo, ma nessuno di noi banalizza la realtà e sappiamo che semplificare è difficile e non lo si fa a colpi di slogan e tanto meno con l’accetta. Pensiamo che ci sia un primato del capire e dell’intelligenza nel fare, e che quest’ultimo abbia bisogno, almeno, di essere pensato.

Siamo stanchi degli annunci, vogliamo partecipare e l’abbiamo sempre fatto. Oggi siamo coscienti che i problemi sono la pace subito in Ucraina e altrove, prima che deflagri il disastro. Vediamo il pianeta che degrada rapidamente e crea nuove povertà oltre al pericolo di annientare la specie. Cogliamo nella realtà la società che non rispetta i principi, che pochi sono molto voracità e generano diseguaglianza, affievolirsi della solidarietà, corruzione, malaffare. Pochi che interpretano la legalità e il rispetto delle regole solo a loro favore e tolgono a tutti parti importanti del bene comune. Essere umani, vivere assieme in libertà ed eguaglianza non sono parole devono valore ovunque e comunque.

Per noi le istituzioni non sono immutabili, ma sono il nostro patrimonio e baluardo democratico comune e quindi pensiamo si debba agire partendo dal rispetto del futuro e del presente nel modificarle, che ogni fascismo debba essere bandito dalla concezione individuale e collettiva, che ciò che è stato conquistato a duro prezzo di sangue e sofferenza, libertà e democrazia, eguaglianza ed equità, legalità e dignità umana siano fondamenta intangibili della casa comune.

Abbiamo un Paese che amiamo, una cultura e volontà comuni e non siamo pochi eredi di quella che non a caso si chiama lotta di Liberazionema, non abbiamo più una parte sociale e politica forte che riconosca che le fondamenta comuni vanno sempre difese. Temiamo di non avere più un partito in cui riconoscerci e pur essendo tanti, ci sentiamo soli in questa lotta dove resistere è la condizione per non sentirci apolidi in Patria.

my way

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Mi ricordo bene quando l’ansia di provare era forte, quando tutto era a disposizione e tutto meritava d’essere assaggiato. Allora il tempo non bastava mai e mi sembrava che essere coincidesse con esserci. E sentire fosse qualcosa di fugace come la felicità, anzi che sentire spesso coincidesse con l’essere felice. È durata molto a lungo questa sensazione e motivava un correre senza fine, tanto che, a volte, mi trovavo stremato da continue sensazioni. Il tempo era una creatura che vivera libera in me e non trovava soddisfazione, suggeriva che ciò che non provavo sarebbe stato definitivamente perduto.

Qui ci si può aspettare una conclusione che arriva a una nuova consapevolezza, svolta e continua in altro modo la vita cambiando tutto ciò. In realtà questo sentire è mutato per suo conto e quando non lo so dire perché non mi sento di essere diverso, ossia lo sono ma non per qualche motivo che non sia la naturale evoluzione del mio percorso. Non sono particolarmente stanco di una vita che desidera e neppure ho smesso di sentire, anzi direi che ho raffinato questa capacità. Quello che è mutato è il rapporto con il tempo. Ho sempre pensato che c’era tempo e non poteva essere diversamente nella spinta a fare che non esauriva i desideri ed era incapace di escludere ciò che non era possibile in quel momento, però era un aver tempo ansioso mentre ora c’è calma e il tempo è cosa mia. Se mi guardo attorno, la mia vita è così, con le persone che hanno sempre da dirmi molto più di quanto dicano, con l’interesse per il profondo che fa coincidere quello che provo con quello che mi porto dietro. Non è una collezione di sensazioni, ma un cammino dell’essere a cui regalano molto alcune persone, altre in misura minore, con una graduatoria, non del sentire, ma del condividere. E condivido senza mettere limiti di tempo. Non uso volentieri gli avverbi di tempo assoluti, i mai, i sempre, forse perché so che, molto spesso, questi rassicurano chi li pronuncia. Rinuncio a questa sicurezza perché ho fiducia in ciò che accadrà, ormai mi conosco un po’ e so che il mio essere fedele a ciò che sento è una costante della mia vita. Anche nel mutare, nel pensare diversamente, ciò che conta non viene scartato e resta ben radicato per tenere solida la mia casa.

fragilità nuove

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Penso che la fragilità interiore, ed esteriore, aumenti. Che si copra, a volte, di aggressività, mentre in altre occasioni sia infermità che piega l’anima in sé e le impedisce di volare, di sorridere, anzi le fa sentire il peso di un mondo che s’abbuia.
Penso che tutto questo avvenga senza comunicare e che a cresca la solitudine, la difficoltà di avere una comunicazione profonda. Forse non è così ma è la sensazione che leggo nella violenza insita nelle immagini, apparentemente innocenti, nelle parole che vengono ritrattate o relativizzate e poi ripetute sino a non distinguere più la realtà. Non la verità che è un processo che si svela ma la realtà, ossia ciò che percepiscono i nostri sensi e la nostra mente interpreta. Nel digerire ogni cosa aumenta la fragilità e la violenza e non c’è bisogno di repressione ma di condivisione etica, di sentirsi nella stessa condizione precaria, di lottare per lo stesso cambiamento sociale. Leggevo oggi la percentuale di anidride carbonica in atmosfera, siamo a valori che superano di molto le 400 ppm, questo indica una irreversibilità progressiva del degrado ambientale che per noi sarà un dato statistico, per i nostri figli e nipoti, una realtà che renderà più fragili le esistenze.
A questo si somma una tensione crescente tra i popoli indotta dalle volontà di potenza, dalla mancanza della percezione che proprio le armi rendono più necessaria la tolleranza e la comprensione della differenza. Un mondo di eguali parte dalla giustizia e dall’equita per stabilire rapporti profondi tra modi diversi di sentire. Tutto questo evidenzia l’umano prima delle idee e rende compatibili le diversità, così si può stare assieme, meno fragili, diversi, sicuri che saremo orientati ad affrontare assieme i problemi di sussistenza della specie. Il contrario di questo è violenza, sull’ambiente, sugli uomini, sulla bellezza, sui deboli, sulla crescita comune interiore ed esteriore. Siamo diventati vecchia plastica, apparenza che si decompone e si disfa alla luce, questa è la fragilità che percepisco e siamo ancora a tempo per mutare, ma non è possibile farlo senza pagare un prezzo che non tocca le esistenze, anzi le rende migliori, è la volontà di dominio che deve pagare il prezzo, l’economia di rapina, la glorificazione della diseguaglianza. In cambio c’è vita e bellezza, rispetto, futuro, questa è l’alternativa che vedo dinanzi.

silenzi per fare la differenza

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Avremmo bisogno di una giornata di silenzio della cultura, della musica, del teatro, delle analisi e delle discussioni sulla realtà,. Privati dalla lettura, dal racconto, dalla filosofia, dei commenti su quanto è spirito, bellezza, occasione di pensiero. Tutto questo per un giorno intero, per far capire quanto conta la cultura nelle nostre vite. Sarebbe un silenzio terribile, infarcito di notiziari, di commenti su una realtà priva di analisi che non sia il proprio evolvere, un listino di borsa che non finisce ed è privo di sogni, di aspirazioni, di difficoltà. L’uomo sarebbe solo nella sua condizione di non poter comunicare il pensiero che devia, la bellezza che solo lui nota, il sentimento che cerca conferma in altro sentire. Una condizione di solitudine assoluta, perché anche chi non legge, non ascolta musica, non va a teatro o a vedere un museo è protetto dalla cultura che lo circonda e gli parla e il suo silenzio lo lascerebbe privo di ogni protezione da questo mondo che egli stesso ha reso muto. Una proposta difficile ma necessaria e rivoluzionaria per far capire quanto davvero conti la cultura per vivere, per far emergere la verità e la libertà, per sconfiggere il nero del relativo che toglie la luce e costruire una società più giusta.

il senso della cura

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Il senso della cura è in quel chiamare, pensare, scrivere: ci sono e ti penso.

È nei piccoli gesti che si arrendono all’evidenza delle molte specie d’amore e che solo chi ne conosce la grafia sa interpretare e tenere cari. La cura è colmare un silenzio intuito, sorprendere con un gesto inatteso.
La cura è l’attesa e la sua risposta nell’esserci. La cura toglie il calcolo dai gesti, dalle cose, è un accucciarsi caldo, una carezza inventata e lieve, un sentire che nell’aria c’è il profumo della presenza.

La cura è togliere dalla solitudine quando questa fa male e lasciarla quando è necessità del ritrovarsi.

La cura non ha tempo, non ha ora, è fatta di codici segreti, di piccole abitudini che tengono assieme la luce e il buio, è un dire con parole giuste e sbagliate, un eccedere che coglie l’inespresso, un tenere per mano quando la mano ha freddo.

La cura è essere se stessi e porgerlo quando si può, è attendere che arrivi un segnale e capire che esso ha le difficoltà che ogni vita contiene. La cura siamo noi in ogni movimento verso un amore, in ogni attesa di esso, in ogni contingenza che non ci distoglie dalla certezza di ciò che conta. E che sappiamo ci sarà adesso, stasera, domattina, fin quando sarà bello che esso sia perché viene accolto e sentito e restituito.

Questo, e molto altro, è la cura.

Di te, di me resteranno i vuoti lasciati negli abbracci,

saranno loro a parlare con il tempo,

e nessuno si preoccuperà del pulviscolo d’amore che alimenta l’universo,

come non si cruccia troppo del gas di scarico delle auto,

ma guarda il semaforo o la coda d’auto che lo precede.

Il pensiero di noi si racchiude in naturali gentilezze,

in presenze che qualcuno ha notato:

una mano nella mano, un sorriso senza apparente oggetto,

il pensiero lieto che non fa rumore,

dobbiamo credere che questo levi un vento d’onde che rimane

e con altro amore si mescoli e confonda

per dar senso all’universo

che d’indifferenza per suo conto è pieno.

un mandala fatto di silenzi, di gesti, di parole

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Le parole giuste sono quelle che hai dentro, quelle che non dici per timore che vengano fraintese e quel tacere costretto è educazione appresa, inculcata senza possibilità di replica, non libertà d’essere.
Allora scegli di scrivere anziché parlare, ma le parole si piegano alla sintassi e diventano altre. Così generano insoddisfazione e non corrispondono a quelle che hai dentro. Sono irte di significati spuri e devono essere levigate, con pazienza, come fa il mare con la pietra e il legno, con le sue creature fino a ridurle in pulviscolo d’anima. Questo è il sentire del mare e tu il mare lo possiedi e ne hai la pazienza operosa. E se a volte sei stanco e tutto sembra inutile, parla dopo il silenzio che osserva. Taci e prendi appunti sulla carta, guarda il segno e la parola, rendila morbida nel tracciare, per non snaturare quel che provi. Questo sarà il tuo ormare un nuovo lessico per quando deciderai di parlare. Un dire che parla con i gesti, che fa quello che più t’assomiglia, anche in silenzio perché basta l’alzare di sopracciglia o il morbido posare della mano aperta, per dire ciò che è stato pensato.

Guarda i gesti gentili, consueti, del vestirsi con cura e leggerezza. Pensa che sono stati prima appresi e poi cambiati e fatti propri, sono parte di una meditazione, di un verseggiare muto che si modifica per sovrapposizione, sino al risultato. Un mandala composto su di sé per portarlo tra altri, o solo per sé, e come sempre da disfare e ricomporre all’infinito.

Scrivilo questo mantra aperto alla tua anima, fa che rappresenti te stesso e che aggiunga parole e gesti, secondo i giorni. Che sia un poema che non finisce e che reciti sottovoce quando la solitudine prende il posto della leggerezza.

Scrivi con tutto te stesso, con la parola, il gesto, l’abitudine consapevole, vesti la tua anima di te.

il poco, quasi niente, che per me è molto

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Sai, volevo fare altro, usare il mio tempo per costruirmi piano. Divagare. Stendermi sulla spiaggia nel tardo pomeriggio, quando la sabbia non è più così calda e la sera viene in fretta. Dopo l’acqua genera una luce fioca e ancora si vedono i pesciolini guizzare. Se entri nell’acqua ti girano attorno alle gambe, fiduciosi. Mi sarebbe piaciuto scalare più montagne, leggere molti libri che erano utili solo a me. Perdere tempo senza sentir colpa e amare di più le persone che m’hanno riempito d’amore. Mi sarebbe piaciuta l’inutilità operosa, quella che porta fuori la stranezza e la fa restare al passo come i cani addestrati bene. A Caccioppoli venne l’idea di portare a spasso un gallo e lo fece, perché il regime fascista considerava poco virili gli uomini che uscivano con un cane. Ma lui, il grande matematico, la stranezza l’aveva sempre con sé, solo che era come una ferita che non rimarginava e gli toglieva qualcosa che forse nemmeno lui sapeva.

A me fa aggio la memoria, le sensazioni, gli errori che hanno più evidenza delle cose buone fatte, la stessa melancholia che s’acquieta nel ricordo dei luoghi, nei sentimenti suscitati, negli amori.
Può essere strano chi è silente anche quando parla, chi ha familiarità con i luoghi che per lui riacquistano evidenza, per i sensi che rammentano, per chi ricorda e il passato torna ad essere il preparatore del futuro, una caldaia che ribolle molecole alla ricerca della loro combinazione e quindi del senso delle cose, dell’attenzione, dell’attrarre le proprie passioni a riva come in una pesca fortunata.


Da molto scrivo, ancora da più tempo leggo e cammino. Mi piacerebbe, ma solo un poco, esser letto fino alla comprensione però è più importante guardarsi attorno, attuare, toccare ciò che è scabroso e con pazienza diventa liscio. È più importante trovare ciò che è migliore di quello che si pensato e scritto, esercitare i sensi per dar forma alle cose, ai fatti che accadono. Tener nel giusto conto l’esperienza sino al limite del nuovo e come negli origami dar forma a ciò che pare altro e che per molti è solo carta.

Così si sono accumulate miriadi di rappresentazioni in forma di parola, sulla carta, in questi metaluoghi, su ciò che s’è poi disperso allegramente in onde elettromagnetiche e quanti di luce. Ma era solo voce e ogni parola, col tempo, cercava di precisare significato. C’è da esser contenti se con fatica ci si assomiglia. Almeno in parte, a volte piccola, a volte grande, perché ogni raccontare porta con sé un approssimarsi e un’attesa e trova un gemello, solo se si è oltremodo fortunati . Ma in fondo basta e avanza il comprendere e l’interlocuzione che prosegue un discorso.

Alcuni animali parlano alla luna oppure borbottano alle cose, per loro, i fatti sono narrati nel compiersi. Un delfino non racconta il nuoto e mentre vive l’esperienza la muta in emozione, nel timore del predatore oppure nel piacere di sentire l’acqua che gli scivola sul corpo e accelera la velocità sino a un balzo di gioia nell’aria. Quel balzo è la sua gioia e la nostra meraviglia, per noi resta un’emozione della singolarità, per lui un piacere senza tempo che si ripeterà secondo voglia. È più immerso il delfino nell’universo e nel suo scorrere, di noi che mettiamo un tempo alle cose. Cose che nulla sono se non un insieme probabilistico che si può scegliere se vivere e nutrire di sentimento oppure far solo accadere.


Uno degli scrittori di rete che sempre leggo volentieri, narra l’esperienza mescolando volontà, ricordo e presente, con un linguaggio che dà vita alle cose e mette in scena scogli, reti, vino e ciò che a tutti accade, ma filtrato nella sua sensibilità che aggiunge senso mutando i tempi e i significati comuni. La sua poesia è fatta di ricordo e di presente che premono sulla porta del futuro. E non è una semplice porta ma una barriera di legno spesso, scavato dalle intemperie che hanno scritto le loro storie da decifrare. Una porta rafforzata da borchie di ferro rugginoso, chiusa da grosse serrature, inventate da fabbri sapienti, allora aprire il varco significa scivolare nel nuovo che ha il sapore dell’antico vissuto e del pesce fresco appena cotto.
E il pesce e il vino portano a barche tirate a secco, dove la prua ha un antico colore che non si vergogna di mostrare a quello nuovo, così com’è, scrostato dal vento, dalle piogge, dal mare solcato, e tutto diviene protagonista e conosce la battuta e il tempo, allora la rappresentazione e il ricordo possono compiersi.


M’avvenne, durante l’ascolto d’un concerto, che la bravura del solista superasse la mia capacità di gioia interiore. Non sapevo come farla uscire costretto dall’immobilità del sedere, come si conviene nei concerti dove al più s’accarezza il mento o si stringono le mani. Eravamo distanti dalla conclusione del pezzo e volevo continuasse all’infinito ma anche che finisse perché la bellezza aveva bisogno di occupare tutto lo spazio sensibile. In questi casi, come nell’amore bisogna allargare l’anima, accogliere e non mettere difese e così ho lasciato entrare la musica come mai l’avevo sentita e lasciare che andasse dove voleva sino ad essere io stesso musica.
Lo stesso accade quando si vede un dipinto che ci illumina o si legge chi riesce a leggere il nostro animo senza conoscerci o, ancora, quando si mettono nel giusto ordine i significati e nasce ciò che assomiglia al sentire.
Questo fa pensare che la percezione profonda, la bellezza, siano un evento che raramente si può condividere, ma che è qualcosa che appartiene a chi la comprende e non oppone resistenza alla sua natura. O poco o tanto ci sarà ciò che viene generato e sarà dalla disponibilità ad accogliere che il tempo perderà significato e l’uno diverrà parte d’una continuità.

camminare la vigilia

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Ogni giorno correvo verso i giochi, anch’essi fatti di corse, cadute, polvere e rincorse. Ogni mattina camminavo, mia Nonna mi accompagnava a scuola e d’estate dove si poteva correre. Ai giardini o nelle piazze di sera, con lei, mano nella mano potevo andare ovunque.
La sua mano era bella, appena più grande della mia. Era fragile e tenace, regalava la sicurezza e ciò che mi era necessario.
Con mia Nonna ho imparato a camminare, ad amare il cammino come modalità del vedere e del sentire. Molte volte all’anno il camminare assieme diventava speciale e due di queste erano consegnate alla sua religiosità, le vigilie di Natale e di Pasqua che avevano itinerari fissati e duravano l’intero pomeriggio.
La vigilia di Natale si andava a vedere i presepi, la vigilia di Pasqua erano i Sepolcri i protagonisti. Mia nonna aveva abitato sempre dentro le mura cittadine, e le Chiese erano quelle storiche della città, con qualche digressione per luoghi che ho imparato ad amare con lei.
Le chiese erano grandi, spesso altissime ma tutte particolarmente buie, gli altari coperti di panni violacei sembravano tolti all’esistere, solo al centro della navata o in una cappella importante, era tracciata una grande croce a terra fatta di candele e fiori. Le persone si inginocchiavano, alcuni sostavano a lungo, altri un segno di croce e qualcosa mormorato a fior di labbra.
Mia Nonna sostava poco, guardava e io facevo lo stesso, confrontando mentalmente quello che vedevo con la cura di altri Sepolcri già visti. Non riuscivo a collegarli al racconto della Passione che avevo ascoltato il giovedì, le mie preghiere erano quelle di un bambino e in latino, imparate perché in quei luoghi si dovevano usare.
L’altare dove andava mia Nonna era quello della Madonna, lì si fermava e accendeva un cero. Le donne di casa avevano una particolare devozione per la Madonna, credo la sentissero una persona con cui si poteva parlare e che capiva sia i problemi da risolvere che la loro condizione. Una vicinanza che era confidenza, da Lei poteva venire consiglio e comprensione.
Ho visto, da adulto, che accadeva lo stesso in altre donne e non importava in cosa credessero ma il rapporto con la Madonna c’era ed era tanto più forte quanto più era appartato. Un bisogno di confidenza e una certezza di ascolto.


Mia Nonna non aveva avuto una vita facile, ma l’ho sempre sentita serena e amorosa, con me in particolare, nei giorni della Pasqua qualche parente veniva a trovarci e lei ne era felice.
Ne parlavamo camminando, di solito era già arrivato a casa e il giorno dopo avremmo pranzato assieme, ma quel parlarci era fatto dalle mie domande e dalle sue risposte che spesso erano memorie. Tempi che risalivano verso l’inizio del secolo e oltre, storie di casa e poi di migrazione, di un abitare distanti, tra lingue sconosciute in bocca a persone come noi, solo che questi uomini e donne avevano il potere di accettare o rifiutare chi arrivava per abitare e lavorare. Un potere immenso perché essere rifiutato implica a una solitudine e un timore ancora più grande e allora serviva coraggio, silenzio e dignità e lei e il nonno ne avevano ben più che a sufficienza per farsi rispettare. Le chiese erano i luoghi comuni, la lingua era il latino, le immagini dei santi, della Madonna, del Cristo, le stesse, li si poteva andare senza timore. Mia Nonna l’ho conosciuta così sin da piccolo: coraggiosa e fiera della sua libertà, con una vita difficile che non faceva pesare su nessuno e che aveva trasformato in amore per mio Padre e per me.


Il nostro giro continuava nel pomeriggio della vigilia, che riempiva le strade. Le vetrine sfavillavano di carte colorate, di uova di cioccolata, di focacce piene di mandorle e anche chi vendeva abiti o scarpe per la nuova stagione aveva uova in vetrina. Noi entravamo ed uscivamo dalle grandi chiese, dall’oscurità alla luce, finché queste si equilibravano e si accendevano i primi lampioni. Allora era tempo di tornare, un dolcetto per me e le caramelle al latte e i pescetti di liquerizia da mettere in un cartoccio in tasca ed estrarre per gustarlo e succhiare piano.
La sera, a casa, avrebbero cotto e colorato le uova con il caffè o con altri misteriosi colori pastello, servivano per il mattino seguente e per chi veniva in visita. Da qualche parte un uovo con sorpresa mi aspettava per il pranzo del giorno dopo, la cena già aveva novità in tavola e i discorsi leggeri della festa, poi a letto, sentivo le donne di casa che andavano alla messa di mezzanotte. Ogni volta mi ripromettevo di attendere sveglio per chiedere cosa c’era di speciale da vegliare così a lungo, ma ogni volta m’addormentavo e mi svegliavo nella festa.

cose più grandi di noi

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Per Pasqua c’erano preparativi che iniziavano settimane prima. L’imbiancatura delle stanze era una costante che toglieva il fumo sparso dell’inverno e odorava di calce su cui poi con dei misteriosi rulli gommati, venivano sovrapposti disegni in colore. Questo trattamento era riservato alla stanza in cui sarebbero arrivati gli ospiti del pranzo di Pasqua, le altre stanze restavano in tinta unica, ma diversa perché il bianco restava in una sola e le altre erano pastello. La cerimonia della ri pittura coinvolgeva tutti i presenti, ed era uno stendere di lenzuola lise, di giornali vecchi, di stracci pronti all’uso per togliere le macchie appena formate. Quest’ultimo lavoro era riservato a me che trovavo piccole chiazze anche degli anni precedenti sui battiscopa o dietro ai mobili. Le finestre aperte portavano il profumo del canale e del prugno in fiore, mia madre si apprestava al lavoro ulteriore che avrebbe seguito la pittura, passare i pavimenti con gommalacca e mordente sciolti nell’alcool, cosa che avrebbe impedito il camminare per mezza giornata nella stanza e avrebbe conservato l’odore pungente per almeno tre o quattro giorni. Una vera catena di montaggio, dove per ultima, a sera, sarebbe rimasta la cucina ad asciugare e meditare nella notte.

Tre giorni di lavori intensi, con la difficoltà del soffitto e l’abilità del gocciolare il meno possibile, poi con una casa che sembrava nuova soprattutto per i profumi di pulito, cominciava l’impasto delle focacce di Pasqua, che poi erano sempre le stesse: la focaccia Margherita, forse in onore della Regina come la pizza, ma certamente più profumata e fragrante. Della Regina intendo. Di focacce ne venivano fatte per consumo e per regalo, da un minimo di quattro in su, la disponibilità di uova fresche era assicurata dal pollaio della nonna in campagna o dal lattaio, bisognava comperare la fecola e lo zucchero e l’aroma di vaniglia. Non ho ancora capito perché la fecola veniva messa in cartocci di carta leggera e poi avvolta di nuovo in carta marrone mentre lo zucchero veniva messo direttamente su una carta azzurra, color carta da zucchero. Per l’appunto. Pensavo che le carte avessero un rapporto strano con le cose e che avrebbero potuto far impazzire la montatura degli albumi che dovevano essere rigorosamente a neve oppure non sciogliersi nel tuorlo e mancare la creazione di quel caldo giallo che era un sole in miniatura e una delizia da leccare dalla terrina (piadena per i veneti) prima che venisse aggiunta la fecola e gli albumi montati a neve. Orbene, queste focacce infornate una alla volta e cotte nel forno della stufa, si accumulavano nella stanza imbiancata più fresca, quella da letto, e mescolavano il profumo di zucchero, vaniglia e calcina in un bouquet unico, perché era il sapore della casa e della festa.

Ci avvicinavamo alla Pasqua, i riti nella grande chiesa ricostruita dopo il bombardamento devastante del 1944, erano solenni e sobri, il parroco non puntava sulle apparenze ma era la sostanza dei significati che gli interessava. Le immagini sarebbero state coperte il venerdì dopo la feria quinta in cena Domini con la reposizione e il giorno successivo sarebbe stato dedicato alla meditazione e al silenzio per prepararsi a qualcosa che per noi era festa, ma non era solo quello. Per i ragazzini silenzio e meditazione erano attività difficili, il patronato era chiuso, andavamo ai giardini dell’ Arena, ma c’era un imbarazzo che entrava nelle libertà e nelle abitudini di gioco. Non si chiedeva nulla eppure il contrasto tra la primavera, le rondini e le fioriture con il pudore che sembrava pervadere i discorsi anche degli adulti, doveva significare qualcosa di profondo. I bambini vivono le cose, i misteri, l’inconosciuto fa parte del sentire e dell’apprendere e sanno quando fare domande o insistere, sanno che ci sono cose che matureranno pian piano nei significati. Ci sono cose più grandi di noi, lo si impara allora e non si smette mai di cercare di capire.

ritorno all’Etna, o quasi

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La mattina portò con sé la luce, così forte che gonfiava le tende. Sotto casa c’erano voci che contrattavano verdura fresca da un carretto, poco oltre la spiaggia e già gli strilli dei bimbi per la voglia di fare il bagno. A noi portò la colazione, la consapevolezza di dover recuperare la Flavia, e l’assoluta ignoranza di dove fosse. Avevamo perduto un ‘auto in allegria e in allegria l’avremmo ritrovata insieme a quel votaBianco scritto sul muro. L’auto era lì che ci aspettava, bastava partire. Ne venne una contrattazione a bocca piena di pane e burro e caffelatte: noi saremmo andati a recuperare l’auto perché eravamo i detentori della memoria e le ragazze con i bimbi sarebbero andate al mare. Non ci aspettassero per pranzo perché oltre a trovarla la si sarebbe dovuta riparare: saremmo stati insieme a cena. Devo dire che forse la logica, forse l’autorevolezza nel porre le argomentazioni, forse la giornata bellissima e il mare blu, insomma non ci fu resistenza, sia le ragazze che i bimbi sembravano felici della proposta. Così partimmo verso Catania, in due navigatori, la peggiore combinazione per trovare qualcosa che esista dal tempo delle esplorazioni. I navigatori possono essere due, ma non assieme, il secondo deve trovare il primo e dirgli la frase magica: Mr. Livingstone I suppose… E così l’universo si ricompone. No, noi partimmo in due ed eravamo ricchi di ricordi e certezze. Mr. Livingstone se era per noi starebbe ancora aspettando. Superata Catania puntammo su Mascalucia, il nome suonava bene e ci avevamo pure cantato una canzone, la sera prima.

Quello che di notte era certo, di giorno diventava incerto, l’unica costante era quel VotaBianco che era dipinto ovunque ci fosse un muro. Qui ci assalì un dubbio, ovvero che quel riferimento era fallace e mentre puntavamo verso Nicolosi, ci tornò a mente la corsa ciclistica. Quella era stata l’origine dei nostri labirintici percorsi e dovevamo trovare tracce di quella gara. Qualche manifesto c’era e indicava un circuito che passava per Nicolosi. Riconoscemmo il punto di deviazione, non eravamo entrati in Nicolosi, ma eravamo stati deviati, ci eravamo persi fino a che un signore ci aveva indicato la provinciale e l’indicazione per Trecastagni. Questa era la nostra meta perché di là eravamo andati in due auto e tornati con una.

Continuammo discutendo a ogni incrocio e a ogni VotaBianco scritto in caratteri adeguati, trovando le giuste mediazioni, arrivammo a Monterosso. Non so quanto grande sia ora Monterosso, ma allora era un paese che all’apparenza sembrava allungarsi su due strade parallele, noi percorremmo una via Roma, girammo in fondo al paese e ci trovammo sulla parallela, forse una via Garibaldi. Posso ricordare i nomi perché tutta Italia, eccettuata la Val D’Aosta e l’Alto Adige, ha una via centrale che si chiama via Roma e una strada o una piazza parallela che è intitolata a Garibaldi. Arrivati in fondo a via Garibaldi svoltammo a destra e ci ritrovammo in via Roma. Praticamente avevamo fatto un giro di pista che potevamo ripetere quante volte volevamo senza trovare nulla. Anche in questo caso ci soccorse un samaritano siciliano. Una delle cose che raramente fanno gli uomini che hanno una meta, è chiedere informazioni. Forse è un poca di presunzione (un uomo vero non si perde mai), forse è timidezza, comunque il nostro benefattore seduto fuori di un bar, ci fece un cenno e noi ci fermammo. Sembra una scena manzoniana, la sventurata rispose e si risolve la cosa, no, in questo caso la narrazione che era complicata quanto la domanda, non c’era un Egidio che proponeva un piacevole intermezzo e una Geltrude che poteva accettare o meno, qui c’erano due giovani padri di famiglia che erano riusciti a perdere un auto sull’Etna e la cosa sembrava così assurda che chiedere se aveva visto una Flavia berlina abbandonata sembrava da allocchi.

Spiegammo, chiedemmo, e il samaritano disse sì, proprio come Geltrude. L’auto era appena fuori paese e già dalla mattina al bar ci si era chiesto di chi fosse un’auto targata con una città del Veneto, abbandonata. Sorrisi, sospiri di sollievo, possiamo offrire un caffè, una limonata, un cannolo? Il samaritano offrì lui ristoro e così iniziammo a parlare, la narrazione del guasto, l’abbandono dell’auto, il ritorno a Brucoli, le famiglie al mare, insomma un breve riassunto delle due giornate. E ora come fare a riparare il guasto? Caso volle che il nostro benefattore fosse un elettrauto e che si sarebbe incaricato lui della riparazione, ma prima bisognava capire il danno.

Era mezzogiorno passato e ci invitò a pranzo. Le solite ritrosie, non deve, non può, ci basta un panino, eccetera. Resistemmo tre, forse quattro minuti e poi ci avviammo insieme verso casa sua. La mia auto venne parcheggiata in cortile e facendo conoscenza con moglie e figli, mangiammo la pasta con le melanzane più buona che ricordi, seguita da secondo e contorni che sembrava fossero per il dì di festa. Una ospitalità memorabile per noi, usuale per il padrone di casa. Dopo pranzo andammo a ritrovare la Flavia che era appena fuori paese, davanti al muro con il votaBianco ( ma poi questo Bianco, l’hanno eletto?) e appena visto il motore e ascoltato l’avviamento, il nostro samaritano elettrauto fece la diagnosi: qualcuno aveva manomesso il collegamento tra spinterogeno e candele e forse anche la batteria non era indenne. Due ore ed era a posto. Portò l’auto in officina sotto casa e noi seguivamo. A questo punto ci disse che potevamo passare l’indomani mattina, lui andava a riposare perché il giorno precedente aveva diretto una gara ciclistica, era il presidente del comitato organizzatore, e si era stancato un po’. A pranzo avevamo parlato delle deviazioni subite, ma avevamo anche lodato l’organizzazione, quella che era carente era la segnaletica verticale e su questo eravamo tutti d’accordo, ma spettava alla provincia e quindi chissà quando mai si sarebbe adeguata. Criticare le colpe altrui induce alla fratellanza e con grandi assensi si era passati ad altro. Il nord, il lavoro, cosa facevamo, quanti bimbi, le notizie che fanno conversazione e affratellano. Poi il mio amico lavorava in Sicilia, Ah sì e dove? Allo stabilimento Anic, chissà quante richieste di assunzione. Eh sì, molte, le ultime le aveva selezionate la settimana prima ma non aveva assunto tutti. Chissà come ci sono rimasti male quelli scartati, disse la signora. Già, ma non erano proprio adatti, e lì era subentrato un silenzio prima di passare ad altro.

Siamo rimasti al riposino del samaritano elettrauto, noi ci offrimmo di attendere al bar, ma anche quello chiudeva per le prime ore del pomeriggio, ci venne offerto di stare il divano e in poltrona, ma ci pareva troppo. Così, accertato che per sera l’auto sarebbe stata pronta, ci dividemmo, il mio amico restava ad attendere la riparazione e io tornavo a Brucoli e mi occupavo della cena (ultimo pensiero dopo quello che avevamo mangiato).

Con questo accordo, dopo molti ringraziamenti e con una gratitudine evidente, cominciai il ritorno. Dopo Trecastagni trovai un albero che faceva onore al nome del paese e parcheggiai all’ombra, dormii un paio d’ore e rinfrancato potevo tornare. La sera ci riunimmo tutti, la riparazione era costata pochissimo, i racconti affascinavano i bimbi che volevano tutte le cose buone che avevamo mangiato, se non quella sera, di sicuro l’indomani. Dalle finestre aperte veniva una corrente d’aria tiepida che odorava di salso, di erbe aromatiche e di cespugli che cedevano alla notte essenze per profumarla. Voci nella strada e in spiaggia, risate e qualche accordo di chitarra. Mi sembrava ci fosse una pace fatta di tranquille avventure, del profumo della pelle che aveva preso molto sole, dei giochi da tavolo in cui tutti vincevano, ma i bimbi di più. Si era conclusa un’avventura che il caso aveva resa bella e memorabile, la si sarebbe potuta raccontare insieme, dabbenaggine compresa, per sorridere d’inverno con altri amici. Quello che non si sarebbe potuto rendere era la sensazione che ciascuno aveva provato sull’Etna o meglio sul Mongibello, dal Gebel arabo che significa monte, ripetuto due volte, ad attestarne la primazia e l’unicità. A me era rimasto il mistero e la forza della terra che ignorava gli uomini, eppure parlava con loro e se non capivo, mi insegnava a rimettere a posto le dimensioni. Bastava e avanzava per guardare diversamente il mondo.