La parola scritta e la calligrafia sono importanti per me, porto attenzione anche a come le singole lettere si esprimono, al loro andamento nella pagina. Cerco di intuire cosa ci sia dietro il muoversi di quella mano che ha tracciato con intenzione di lettura e di comunicazione. Ma di lui, del Nonno, non è rimasto nulla. Di certo scrisse più volte, in molte occasioni. Chi è distante scrive, e lui fu spesso distante, e a quei tempi non c’era altro mezzo. Però si è perduto tutto. Credo sia accaduto in quei tre anni bui, nati alla fine del 1917, dove tutto fu precario o forse dopo, negli innumerevoli passaggi di casa, migrazioni, che comunque carte, mobili, cose, si persero o furono guastate.
C’è una fotografia, da cui venne ricavato il suo ritratto che lo mostra in un gruppo di fanti con le baionette innestate. I fucili, così bardati, sono alti come loro, un po’ ridicoli a vederli ora, ma c’è un ordine, come in una foto di classe. Di sicuro il fotografo di reggimento li dispose secondo un’ iconografia consolidata che doveva fornire più idee a chi vedeva: l’ordine e la forza, la solidarietà del gruppo, la familiarità, la certezza di un ritorno. Una sorta di famiglia al fronte che doveva rassicurare chi era a casa. Non so cosa pensò mia Nonna nel vedere la fotografia, di certo sperava e attendeva, aveva i bambini piccoli di cui occuparsi, doveva tenere assieme e sostenere la famiglia dopo il rimpatrio affrettato dalla Germania, mantenere una casa propria che non la vedesse ospite. Con la fotografia di sicuro giunse uno scritto, ma questo non si trova nel retro, così penso che la Nonna tenne più cara l’immagine, delle parole.
Il 233° reggimento fanteria “Lario” fu formato nel gennaio del 1917, il ruolino del battaglione fornisce ampie notizie sui periodi al fronte, sulle località di combattimento, sulle perdite subite. Il battaglione prima del definitivo scioglimento dopo la fine della guerra nel ’18, venne più volte ricostituito, segno che le perdite in combattimento erano tali da metterne in discussione l’operatività e l’esistenza. Un battaglione di morti che si rinnovavano. A maggio 1917 in tre giorni perdeva 1806 effettivi e 30 ufficiali, a luglio nuovamente perdeva moltissimi uomini e ad agosto in due giorni tra il 18 e il 20, le perdite erano di 1594 uomini e 67 ufficiali. Moltissimi, gran parte, sono i dispersi, cioè i non identificati. Il Nonno, muore e viene identificato il 19 agosto. Ho cercato la località: dolina delle bottiglie, riportata sia sullo stato matricolare che sui bollettini di reggimento. Con molta difficoltà, di recente, sono riuscito a trovarne traccia geografica, ora è oltre il confine, in Slovenia, non molto oltre la zona di Redipuglia e colle di Sant’Elia. Se sarà possibile andremo a cercarla, noi, i discendenti, come ho fatto altre volte. Spesso è stata una delusione: una dolina è una depressione, una buca più o meno grande, nel terreno pietroso e carsico. Il paesaggio è mutato, solo perché ricco di vigneti che hanno fatto la fortuna di qualche cantina. Terre poco abitate, come allora, prive di attrattive che giustifichino le terribili carneficine che furono perpetrate in quei luoghi. Spesso i villaggi sono abbandonati e le poche case rimaste hanno muri di sasso che si ergono a contenere tetti sfondati e alberi nati all’interno.
Di quest’uomo, mio Nonno, resta il nome su un sacrario, mancano le testimonianze scritte. Perché mi soffermo su queste? Perché ho pensato spesso alla memoria orale, a ciò che mi raccontava mia Nonna, che era molto poco di quello che accadde in quegli anni. Un riserbo sdegnato circondava le vicende delle famiglie dei maschi, tutti morti nella prima guerra mondiale, con il poco edificante epilogo che ne seguì in termini di divisioni di proprietà, tutele. La sua indipendenza e libertà le impedivano di dire. Era andata così, aveva provveduto a sé e ai figli. Ma a me interessava il rapporto tra lei e il Nonno, e dalle parole pudiche emergeva un amore forte, una devozione alla memoria, collegata alla tangibilità, all’immagine, e all’uomo. L’uomo nel suo provvedere e nell’esserci, c’era stato e Lei era innamorata di quell’uomo. Finché aveva potuto c’era stata la cura, l’espressione dell’amore.
Dal ritratto che ho, si vede un bell’uomo, giovane, con folti baffi, il viso deciso e dolce. In quel viso ho ritrovato tratti di mio Padre. Mi mancano i suoi pensieri, posso immaginare una sofferenza mantenuta propria e un rassicurare chi era a casa. Ne sono sicuro, ma avrei voluto leggere le parole perdute. Noi che viviamo nell’epoca in cui le memorie digitali conservano tutto e quindi lo rendono di fatto inaccessibile, la memoria diventa un rumore di fondo, e nuovamente dobbiamo affidarci al tangibile: le parole, i sentimenti, i gesti concreti. Il significato è in ciò che si fa o che si vorrebbe fortemente fare, per questo le calligrafie sono segni di qualcosa che avviene ed avverrà. Annuncio e traccia. Mi manca la traccia che era sottesa, come ci fosse un indefinibile precluso. E forse è giusto così, si ama per intuito e si vive l’amore per gesti: c’erano entrambi. Riguardavano loro, i Nonni.
La parola scritta di chi ha visto e patito orrori, spesso non c’è stata, che pure la penna si rifiutava. Mio nonno mai scrisse delle campagne d’Africa, nemmeno mai nulla disse se non “ho visto cose brutte”
Di certo vide cose che non avrebbe raccontato, non ebbe il tempo di vivere e questo fu un dolore che non si spense.