Non interesserà poi molto quello che sto per dire, ma oggi un articolo su Repubblica avvalorava qualche mia intuizione (si intuisce ciò che non ha una base ragionata di dati) e i timori conseguenti sulla formazione di nuovi regimi illiberali e non democratici in occidente. Orban, il leader democraticamente eletto in Ungheria, e che in forza del consenso sta sopprimendo non poche libertà di dissenso, dice che il benessere degli Stati (e naturalmente sott’intende che questo coincida con quello dei cittadini) prescinde dalla democrazia liberale. Per cui ci possono essere governi illiberali, non democratici, financo non eletti, purché perseguano il benessere dello stato. L’Ungheria è un paese dell’Unione Europea e solo il calcolo politico e la debolezza politica dell’idea di Europa, hanno permesso che fossero più importanti l’euro e i parametri economici per far parte dell’Unione rispetto alla precondizione del rispetto dei diritti individuali e collettivi. Questo comporta che si possano dire e praticare teorie illiberali in Europa senza che vi sia alcuna sanzione e reprimenda. La democrazia non è un sistema perfetto, anzi il connubio democrazia/capitalismo ha elementi forti di perversione, ma da questo dire che si vive meglio in India o in Cina o in Turchia, ne passa. Di certo le democrazie capitalistiche non hanno risolto i problemi dei conflitti regionali negli ultimi 20 anni, spesso li hanno alimentati, ma la democrazia consente ai cittadini non solo di parlare e di dire ciò che pensano, ma di tramutarlo in indirizzo di governo. E la democrazia funziona come meccanismo che evolve il sistema anche quando le idee positive non sono maggioritarie, agendo con il controllo e con la proposta, per cui chi è minoranza può influire sulle decisioni. Per questo i segnali centralisti e forieri di poteri forti che ci sono in Europa e anche in Italia, sono gravi in quanto tolgono la possibilità che idee giuste possano farsi strada. Il fatto è che in questi anni, i governanti, i filosofi politici, gli economisti, non hanno ragionato molto sui limiti e sull’evoluzione necessaria per la democrazia, ma si sono crogiolati nei loro angoli di potere ben remunerato pensando che questo comunque fosse il migliore dei mondi possibili. Il problema è che hanno convinto anche i cittadini (parola bellissima che evoca responsabilità, coscienza e forza), che così si sono disinteressati dando per scontato che crescita economica e welfare fossero assiomi della politica e che la crescita economica fosse direttamente correlata all’esercizio dei diritti individuali e collettivi. Siccome non è così e Orban che comunista non è, indica in alcuni paesi l’esempio per cui le cose possono andar bene per i cittadini senza tanti orpelli democratici ( nei suoi esempi ci sono la Russia, la Turchia, l’Egitto, la Cina, ecc.) forse sarebbe bene che cominciassimo a preoccuparci. E preoccuparci significa capire ciò che accade ed agire di conseguenza. Se le cose hanno una storia, basti ricordare che Hitler fu eletto democraticamente, che Mussolini usò la maggioranza per modificare la legge elettorale e togliere, di fatto, il voto. Basti ricordare che le ragioni di rifiuto della democrazia di allora non erano dissimili da quelle odierne e che attraverso un benessere presunto si ignorò tutto quello che era contro i diritti individuali, non solo in Germania e in Italia, e le conseguenze furono immani.
Archivi categoria: predicheheheh
chi ha ucciso l’Unità ?
Ieri così titolava il giornale l’Unità, e dopo due pagine di cronaca, le altre erano bianche. Questa mattina, con un vago senso di necrofilia, ho cercato il giornale,ma alle 10 non si trovava più, era esaurito. Molti si saranno affrettati a prendere l’ultimo numero di un giornale che è stato parte della storia del Paese. Comunque la si pensi, dopo i 17 anni di clandestinità durante il fascismo, l’Unità è stato amico o avversario, ma mai indifferente. Su l’Unità si è formata parte non piccola del grande giornalismo politico italiano, e anche nella tradizione del giornalismo d’inchiesta ha avuto grandi meriti. Basti ricordare il Vajont e le mille inchieste scomode e controcorrente degli anni in cui si consumava il sacco urbanistico delle grandi città, nascevano dai problemi i diritti, si lottava per la salute sul lavoro. Era un giornale popolare ai tempi di Togliatti, che pretendeva ci fossero i numeri del lotto e lo sport bene in evidenza, ma è stato anche il veicolo di formazione politica di chi a malapena sapeva leggere. Per questo la chiarezza e la radicalità delle posizioni era necessaria. Poi sono cambiati gli anni, è morto l’approccio ideologico alla politica, le lotte sindacali e i diritti hanno trovato altri interpreti. Negli ultimi anni, il giornale, ha tentato di trovare una mediazione tra le diverse anime del Pd, credo che alla fine non sia stata la strada giusta. Magari sarebbe servita una discussione più radicale, un cercare di capire dov’era finita davvero l’anima radical popolare che aveva animato gli anni delle grandi conquiste sul lavoro e i diritti. Forse lì c’erano davvero le ragioni comuni della sinistra, ma chi può dirlo, altri giornali radicali c’erano e sono sempre stati in difficoltà.
Le difficoltà de l’Unità non sono recenti. Ci sono stati passaggi di mano della proprietà, difficoltà editoriali, eppure la qualità del giornale è sempre stata culturalmente elevata. Ma anche la cultura non ha grande avvenire in un Paese che guarda o alle difficoltà o al profitto. La mirabile sintesi del pensiero “liberale” proposta dall’allora ministro Tremonti, ovvero che con la cultura non si mangia, definisce un’epoca. Anche di cultura politica. Può vivere oggi un giornale di sinistra, di analisi sociale e culturale in Italia? Un giornale che accolga il dissenso come parte di un processo creativo, che veda nell’intelligenza la matrice del futuro, che discuta di politica senza padroni o padrini, che parli un linguaggio semplice e al tempo stesso ponga dei dubbi, che crei la necessità di capire di più? Un giornale siffatto può avere un mercato? Non lo so. Se questo giornale ci fosse mi abbonerei, ma non lo vedo attorno e neppure lo prevedo, perché non c’è un vero interesse per le cose che riguardano politica, cultura, inchieste, approfondimenti, paga molto di più il gossip. Quelle cose di cui parlo costano fatica per chi legge e coraggio per chi scrive, condizioni entrambe difficili per un prodotto commerciale. Così per chi, come me, ha diffuso l’Unità, ha fatto le feste per sostenerlo, l’ha sempre pensato come una parte della propria storia, è un giorno triste. Sono certo che il giornale riprenderà a vivere. Magari dopo il fallimento. Adesso si fallisce più facilmente d’un tempo, per non pagare i conti. Anche la mia generazione nei momenti di tristezza, quando si guarda attorno, pensa di aver fallito e non fa nulla. Cose di reduci, che non hanno più un giornale da esibire. E del resto anch’io lo compravo saltuariamente, più semplice internet oppure Repubblica o il Manifesto. Oggi è andato a ruba con i coccodrilli dei giornali che parlano di perdita, di giorno in cui le idee perdono una voce. Anche gli avversari di sempre lo dicono. E’ curioso che nel momento in cui Renzi ripristina le feste de l’Unità mancherà il soggetto. Forse anche questa è una metafora della politica e nessun fantasma si aggira più per l’Europa. Da domani della testata e del giornale non si sa cosa sarà. Ma io so chi ha ucciso l’Unità: l’indifferenza.
è banale mettere questa canzone, per chi l’ha cantata molto è scontata, per chi non l’ha vissuta è niente. Ma il reducismo è banale, tutto ciò che non ha eredi è banale. E non è una considerazione negativa, ma un tema di riflessione sull’incapacità di trasmettere e quindi di cambiare davvero.
non disturbate il manovratore
Ma Renzi si è chiesto perché, con una figuraccia non dappoco in borsa, gli investitori istituzionali, le banche, i fondi, non hanno comprato FinCantieri?
Una risposta a questo che sembra un fatto collaterale, dà invece misura della realtà: il denaro non ha bisogno di troppe parole e la fiducia ha sempre tempi molto brevi. Si nutre sostanzialmente di giudizi, spesso di pregiudizi, ma soprattutto non abbocca. FinCantieri costruisce navi e se non è in grado di essere un leader certo e imprescindibile, diventa un investimento a rischio. Questo vale anche per l’Italia che vuole la fiducia di chi mette soldi propri o altrui per guadagnarci, i segnali da dare dovranno essere inequivocabili, certi. Spregiudizianti direi con un neologismo cinico ma reale. Insomma si deve far capire qual’è il piano della crescita. Ed è questo il punto dolente: manca un piano industriale dell’Italia. Del ministro dello sviluppo economico, autorevole rappresentante di Confindustria, si sono perse le tracce, non è presente autorevolmente in nessuna delle crisi che stanno costellando il sistema produttivo, ma ancor più non è presente nell’indicare quali saranno i provvedimenti urgenti per lo sviluppo. Al suo posto parlano i ministri del lavoro, delle infrastrutture e sopratutto il Presidente del Consiglio. Già parlano. Un tempo si esponeva sui tram quel cartello per non disturbare chi aveva l’intelligenza del condurre, ma erano le rotaie a dare la direzione e il problema era il traffico, i passanti e l’orario, non il punto d’arrivo. adesso non è chiaro neppure quello e i “capitani coraggiosi” che coraggiosi non erano, hanno scelto altre rotte. Per questo si parla molto e d’altro, di riforme costituzionali, di senato e assetti burocratico-amministrativi. Cose importanti, ma che non interessano agli investitori, tanto che questi scelgono chi predare e si portano via i pezzi migliori perché il resto non gli interessa. Il risultato è che il Paese impoverisce di tassazione chi è a reddito fisso, le imprese che non delocalizzano e nel contempo perde i suoi asset importanti, la capacità di essere davvero competitivo e di avere un made senza alternative per i consumatori. Certo restano alcune eccellenze, ma come i santi e gli eroi sono fari nella notte. Il resto è un bisbigliare d’altro che non aiuta e i fatti collaterali come FinCantieri indicano qual’è la fiducia che in questo momento viene attribuita dall’economia reale all’Italia. E’ difficile, ma lo si sapeva. Lo sapeva Renzi quando si è proposto come traghettatore e salvatore, ora bisogna attaccare sul serio l’inefficienza del Paese, l’evasione e il parassitismo. E lì le parole non basteranno, serviranno le mani.
la parola umiltà non ha più senso
Credo sia l’età ma provo una insofferenza crescente per i modi in cui evolve il mondo delle relazioni sociali. Parto dalla politica, forse perché da molto ci sono immerso e l’altra sera mentre ascoltavo gli interventi di analisi sulle ultime elezioni e mi chiedevo cosa stia mutando nei rapporti di potere. Badate bene che parlo dei modi della politica, ma questo riguarda tutto, anche i sentimenti, che pure sono una cittadella ben difesa epperò consegnano persone sempre più inermi ad arroganze criptate nell’eguaglianza fittizia di genere. Ne riparleremo, intanto parlo dei modi della politica e di nuove arroganze, di fiducie dettate dalla disperazione, di comportamenti omologhi premianti.
Nell’analisi di una sconfitta, la parola umiltà esonda, diventa un chiedere scusa senza dirlo, non una disponibilità ad ascoltare. Ti ho già detto che sono umile, che vuoi ancora? E se questo accade quando si perde, comunque tutto si innesta in un contesto di vittoria. Altrove il successo è stato pieno, adeguatevi. Lo conosco quel trattare con sufficienza le persone, si vinca o si perda, l’ho conosciuto in tanti politici e politica di sinistra, tale o presunta. E lo vedo ora che i giudizi si sprecano, che le antipatie, il rifiuto dell’ascolto, l’opinione forte e senza appello sono esplicite. A supponenza poi corrisponderà supponenza. E così anche i giovani che sono entrati in politica, si imbevono di sicurezze e modi sprezzanti, usano il chi? per dire che non si è nessuno e applaudono il vincitore. Si convincono in fretta, non esercitano spirito critico perché è una perdita di tempo. Ma che saranno queste vite senza dubbi? Guardo i ministri e le ministre, sono nuovi e giovani, belli e non usurati dalla politica (ancora), ostentano sicurezze più giovani di loro, dicono parole così nette che chi non si riconosce è fuori. Sembra che non gli importi l’antipatia che accompagna l’eccesso di sicurezza, ma piuttosto il tracciare confini invalicabili. E’ strano che la tanto avvertita nuova politica non se ne accorga e che nessuno, ripeto nessuno, si affidi all’argomentazione, al ragionamento. Convincere attraverso il discutere è fuori tempo, adesso vale l’imporre.
Tempo perso si dice, valgono i numeri e la velocità. Ci sono quelli che frenano e quelli che corrono, anche la cultura, il sapere diventa a senso unico (i passatisti e i futuristi, si chiamavano così allora). Dove si corra non si capisce bene, ma l’importante è dare l’impressione che tutto si muova. Una espressione molto in voga è : il Paese si è rimesso in moto. E’ importante, dà fiducia, ma qualcuno che lo guidi davvero, che conosca il motore, spero ci sia e forse è meglio non disturbarlo. Però è brutto stare tutti zitti, e non piace essere messi tra i conservatori se si sollevano obiezioni e ragioni. Ci sono cose di cui non si parla, privilegi, caste immuni, temi come l’evasione fiscale o il problema dell’eccesso di ricchezza in pochi che sembrano argomenti da stampa estera più che elementi di cambiamento reale. Da tempo in economia circola l’idea che il vero problema del mondo sia l’ineguaglianza e che un modo per affrontarla sia la redistribuzione degli eccessi di ricchezza. I troppo ricchi sequestrano il denaro e le risorse e impediscono lo sviluppo. Non è una teoria marxista, ma è un pezzo di pensiero liberale e occidentale che sta riflettendo sul tema e propone soluzioni che ripercorrono quelle già adottate dopo la fine della seconda guerra mondiale quando si redistribuì una parte della ricchezza prodotta attraverso la tassazione e creando, di fatto, la classe media. Mi rendo conto che sono discorsi noiosi, ma se non ci si riflette almeno un poco, come si potranno valutare le cose che ci accadono. Cito solo un’ovvietà, l’enorme tassazione italiana finisce in gran parte per pagare il debito, quindi non assicura la possibilità di crescita che viene totalmente affidata al privato. E l’imprenditore cosa potrà fare se non cercare il profitto? Sembra un dilemma senza soluzioni, ma le indicazioni non mancano per trovare una nuova via alla crescita partendo dai privilegi insostenibili, dai monopoli di stato che bloccano la concorrenza reale, dalle inutilità che non vengono messe in discussione. Tutti noi abbiamo elenchi di sprechi in testa, solo che sembrano riguardare un altro Paese non il nostro. E le parole che si rincorrono non sono: soluzione, equità, obiettivo, ma velocità, cambiamento, giudizio. Con queste parole il ragionamento viene dopo l’azione, come in un esperimento in vitro: si guarda quel che accade dopo i cambiamenti ed eventualmente si corregge il risultato. Ecco la ragione di tanta reiterata supponenza, che sfocia nel fastidio, un lasciateci lavorare che esclude chi non condivide.
Certo, e questo è enormemente positivo, sta cambiando la visione di molti luoghi comuni, gli attori di un tempo devono farsi domande, meritarsi la scena. Per troppo tempo si è vissuto di liturgie che non avevano una divinità per questo la novità mi sembrerebbe la discussione, il confronto e poi la decisione con un tempo prefissato. Un sollevarsi di intelligenza finalizzata che faccia decollare la consapevolezza di partecipare a un progetto comune, ma questo non elimina il dibattito, anzi utilizza l’intelligenza altrui per far meglio. Redistribuire l’intelligenza sarebbe la prima grande operazione di equità, ovvero non pensare di possederla in esclusiva e farne un bene comune.
resterà poco se non lo vogliamo davvero
Resterà poco di noi dopo il diluvio di vita, di passioni, di dolori, di gioie sciolte nel quotidiano, smarrite nelle scelte. Abbiamo usato parole così sghembe da far scoppiare ilarità subito dimenticate. I nostri passi hanno preso a calci foglie e sono corsi sulla spiaggia, fatto cose insulse o piccoli eroismi, abbiamo amato senza che ce l’avessero insegnato. E a volte, stupiti, ci siamo soffermati davanti a tramonti colossali, compiuto viaggi assurdi, fatto sciocchezze e rincorso felicità, questo prima del digitale e di racchiudere ciò che eravamo in foto tutte eguali. Abbiamo costruito, dilapidato, sporcato pagine d’inchiostro, imbrattato tele, passato le dita su superfici lisce, prima scabre, e rimpiangendo il bianco, la grana, il lavoro non perfetto, abbiamo sorriso. E quante carezze e baci sono rimasti senza memoria, quante banchine di stazioni, sale di aeroporti, auto prese al volo, partenze difficili, ritorni ancora più difficili perché il cappello dalla testa era scivolato in mano. Quanto di tutto questo è davvero nulla, oppure semplicemente vita? Resterà poco se le esperienze si sono succedute senza mai fermare lo sguardo, se non ci siamo mai detti che il momento era così pieno di futuro da essere per sempre. Rincorrere l’esperienza è cacciare la paura della morte, ma chi più del ricordo la confina davvero dove deve stare? Per questo dovremmo scrivere, dipingere, fare oggetti, oppure raccontare molto di noi a chi ci è vicino.
Di te non conosco che l’adesso, e conoscere è parola davvero pretenziosa, sono attento, ecco, indago per interesse vero, ti faccio ridere, a volte, perché vedo cose che tu non vedi, ma del tuo essere d’un tempo non so nulla o quasi. E com’era l’amore nuovo che hai avuto allora, i palpiti te li ricordi e le tue tenerezze tra silenzi complici e parole sono tutte poi sfumate? Cosa fu il tuo mettere al mondo una vita, dei pensieri e delle paure che n’ è poi stato? Dei tuoi innamoramenti, delle gioie e delle disperazioni cosa resterà, se neppure lo ricordi a te?
Usano un termine che non adopero volentieri, dopo che pubblicitari, politici, persino manager e attori, l’hanno sporcato di non senso: narrazione. Però non ho sinonimi e la narrazione parla di qualcosa che avviene dentro e fuori, che è veduto, ma che non c’è davvero. Non ancora. E’ un mondo possibile, il passato che trasmuta in futuro, poco reale adesso, ma concreto e a portata di mano, e questo spiega la meraviglia che accompagna l’ascolto, il fatto che possa prender vita perché è stato. Qual’è la tua narrazione, intrisa di realtà, che non racconti?
Forse preferivi l’esperienza, la vita reale, ti dicevi che tutto passava in fretta. E’ passato e cos’è rimasto in te? Me lo chiedo perché non ne ho misura, vedo il presente solamente, mentre pezzi lunghi della tua vita, scompaiono anche a te. Com’erano i tuoi trent’anni? e i venti?
Cosa eravamo allora, distanti nelle nostre vite. L’epica dei giorni di furore e le quieti immani. L’abitudine ancora molle da plasmare e gli scarti repentini dell’umore, le tristezze che dilagavano e le alzate d’orgoglio incerto: manca molto all’appello. Racconta di te che resti traccia della vita, bella a te anzitutto. Racconta senza nostalgia d’aver vissuto, racconta e i giorni che verranno saranno nuovi, racconta senza fretta, prenditi tempo e risali assieme a chi ti ascolta. Ci sei tu nella tua vita assieme al mondo. Ricordi come si chiudevano i pensieri d’assoluto? dopo di noi il diluvio ed era così bello pensarlo allora, invece il diluvio non c’ha portati via. E neppure siamo naufragati, siamo finiti molto in là, ma ciò che c’è stato in mezzo non è stato un caso. Per questo ci serve ancora e ci servirà, non è stato un caso e se resta poco di noi il mondo perderà qualcosa. E’ l’era dell’oblio, non l’avevamo mai conosciuta prima, ma restiamo ribelli ancora: ricordiamo per avere futuro.
grandi navi
In porto a Venezia, stamattina, c’era due grandi navi. E almeno altre tre più piccole. Grandi navi è un eufemismo perché già le piccole sono grandi: 7 ponti, migliaia di passeggeri e uomini di equipaggio. Le grandi sono grattacieli coricati in mare. Per chi le ha viste non c’è bisogno di sottolinearne l’assurdità in bacino di san Marco, per gli altri basti dire che quel bacino, il canale della Giudecca, furono creati, palazzi compresi, per le navi di legno della repubblica, dove anche le più grandi erano gusci di noce al confronto.
Attorno a me in porto, c’erano i turisti che sbarcavano. Sudati sotto il sole, alcuni al riparo delle pagode di tela bianca, altri un po’ dispersi, tutti molto attoniti. E’ il turismo che prevede due giorni di sosta, che dorme in nave, che affolla i monumenti, che consuma chincaglieria e cappuccini, che passa da un luogo all’altro senza soluzione di continuità. Dovrei anche dire che risparmia una Venezia che amo, che segue sempre gli stessi itinerari e che è facile evitarlo. Però le persone che ho attorno non sanno ancora come sarà davvero la loro giornata, sono arrivate e attendono di seguire gli accompagnatori. Rispetto ai viaggiatori d’un tempo sono operai della vacanza, ma non è un pensiero snob, si godono un mondo che viene preconfezionato per loro, che ha tempi rigidi e allegrie programmate. Questa mattina c’era uno spettacolo in più non previsto, guardavano una corale che attendeva di cantare a un convegno. Erano estasiati dai cappelli di paglia, i pantaloni bianchi, le magliette rosse e bianche a righe. Ecco la Venezia che si porteranno dentro, e sarà un’ esperienza grande, memorabile, ma non è la Venezia vera. Ma quella Venezia è riservata a chi la ama davvero, a chi la frequenta perché può oppure perché, come un’amata, non può farne a meno. Però dal porto la Venezia delle cartoline ancora non si vede, ci sono piazzali, macchine e gru, docks e magazzini. Tutto ha grandi dimensioni, solo che sparisce soverchiato dalle navi. E’ male tutto ciò? Per Venezia sì, perché qui tutto è fragile e basta un nonnulla perché sparisca un pezzo d’arte. Bisogna pur dire che i veneziani, molto affezionati alla Repubblica e alla città, non sono mai andati molto per il sottile, se serviva, si abbatteva o si interrava. Del resto non fu Francesco Morosini che non ci pensò due volte a cannoneggiare l’Acropoli durante l’assedio di Atene. E comunque, guerre a parte, già alla fine dell’800 si pensava di portare il treno in piazza san Marco. Diciamo che dopo la Serenissima e le Magistrature che curavano equilibri e salute della città, e di chi la abitava, ci sono stati un paio di secoli di progressivo obnubilamento. Non si capiva bene dove si stava andando, pur essendoci molta determinazione. E il culmine iniziò dopo la prima guerra mondiale con l’industrializzazione della città, quando tutto cominciò a diventare troppo grande e insostenibile per un territorio che visto dall’alto è piccolo e talmente denso da non consentire più alcuna speculazione. Per fortuna questo spirito che vedeva nella crescita industriale una salvezza della città, in buona parte è mutato. E’ rimasto l’attaccamento a Venezia man mano che questa si spopolava e se una parte grande di essa vive sul turismo di massa, la necessità di un equilibrio tra il vivere in mezzo alla bellezza e lo scempio per il maggiore utilizzo di essa, è avvertito in modo forte e inusuale. Anche da chi non vi abita. Le grandi navi sono percepite come una violenza, forse per la loro dimensione e pericolo potenziale, più che per gli effetti reali. Il moto ondoso di migliaia di barche fa più danno ogni giorno, però queste sono la vita della città, le altre sono un intromettersi violento. E’ uno scontro feroce tra il porto e chi pensa e sente che non vi sia possibilità di compromesso, che non solo i palazzi, ma anche l’acqua ha bisogno di cura, che una città ormai ridotta a 60.000 abitanti non deve cercare all’esterno il proprio sviluppo, ma trovare ragioni forti di crescita sostenibile con quello che c’è. Diciamo la verità, Venezia non si può visitare in una giornata, la città è così ricca e priva di difese che è facilissimo razziarla, ma così non si ha l’anima, che esige pazienza per essere conquistata. E se questo si capisce allora tutto diventa più lento, anche il turismo. Ecco che l’immagine da diffondere nel mondo per Venezia dovrebbe essere quella di un viaggiare lento, di un tempo d’amore tra l’uomo e ciò che vede, cammina, sente. Ma per far questo servono atti coraggiosi, cultura e identità. E il prossimo sindaco dovrebbe dire subito cosa pensa sulle grandi navi, sullo sviluppo, sulla crescita residenziale, che dev’essere popolare se si vuole avere un popolo. Anche sul porto dovrebbe dire cosa pensa. E decidere la dimensione e l’uso del porto attuale, ma da subito operare per spostare fuori laguna ciò che è, anche solo potenzialmente, pericoloso. Perché così com’è non ci sarà mai una soluzione, ma solo un vivere di interessi forti che con la città hanno poco a spartire.
Questo avrei voluto raccontare a quei turisti che si accalcavano sotto le pagode bianche e aspettavano al sole, e gli avrei anche proposto un tragitto nuovo per arrivare a san Marco, prendendo qualcuno per mano e facendogli fare le Fondamenta nuove, oppure Castello, o ancora la parte così vicina e così sconosciuta, di santa Marta. Li avrei fatti attraversare il canale per vedere le Zattere, il merletto dei palazzi che si vede solo ad altezza d’acqua guardando dalla Giudecca, proseguendo fino a san Giorgio. E nel chiostro bellissimo, gli avrei raccontato che Venezia non muore se il mondo vuole che non muoia, che l’amore ha bisogno di tempi lenti e frenesie lontane, che le passioni si consumano con gli occhi e con il sentire. Gli avrei detto delle nefandezze passate e in corso, perché questa è una storia d’uomini e non di dei, che tutto quello che hanno attorno perirà ma che noi siamo fortunati perché ne possiamo godere, a condizione che non si pensi sia nostro. Ecco così che l’amore dura, quando si pensa che non sia solo nostro, quando c’è rispetto e attenzione. Questo e altro gli avrei detto portandoli fuori a vedere il bacino di san Marco. Quello che non si vede dalle navi, quello che non si saluta con la mano, ma si porta con sé. Sempre.
ww.youtube.com/watch?v=_IiFb5xNGT4]
del prendersela con qualcuno
Se non si capisce con chi possiamo prendercela, perché trasferire il problema su di noi? E’ possibile non prendersela con nessuno, e quindi neppure con noi stessi?
Se qualcosa accade è perché l’intelligenza applicata non è un muscolo che si esercita contro sé stessi. Casomai bisogna adeguarsi, oppure essere così forti da cambiare le regole. Faccio un esempio: in politica il compromesso è un’arte che permette a diverse visioni di interagire e coesistere, altrimenti avremmo, nella migliore delle ipotesi, la dittatura della maggioranza. Ma il compromesso, nella sua forma onesta di comprensione delle ragioni dell’altro, non è tutto, esistono tutta una serie di norme disdicevoli che portano ad una prevalenza dell’ astuzia nella politica, ovvero come posso guadagnare potere e spazio, mantenerlo, farlo fruttare a spese degli altri? Non parlo dei cittadini, parlo di come si costruisce un consigliere, un assessore, un sindaco, un deputato e via cantando. C’è un’ambizione personale (in sé positiva) che va molto oltre l’enunciazione del servizio alla comunità, ma non è l’ambizione disdicevole, piuttosto l’astuzia che altera il fine per cui si aspira a governare. Così ci sono regole non scrtte ed eticamente disdicevoli, la convenienza attiva l’intrigo, viene naturale il rafforzamento delle elitès, fino all’espulsione della dissidenza pericolosa. Queste regole prescindono dalla maggioranza, dalla democrazia e per scalzarle bisogna avere la forza di rovesciarle, anzitutto, ma servirà poi una forza ben più grande per mantenere le nuove regole e far sì che non sia vero che tutto cambia perché tutto deve restare eguale.
E se una persona decide di fare politica deve sapere che esistono queste regole sotterranee, deve relazionarsi con esse, e decidere da che parte stare. Se si sceglie la direzione della propria coscienza, si accetta che a volte andrà bene, ma più spesso malamente. Per questo nella politica, come nella vita, bisognerebbe capire contro chi davvero dovremmo prendercela e quali erano i nostri obbiettivi e le regole che abbiamo rispettato. Se decido di essere furbo e qualcun altro è più furbo di me perché dovrei dolermi? E ancora, se quanto faccio è coerente con me, se non prevale, non diventa prassi non dipende forse dal fatto che devo dimostrare ad altri che questa è la strada per star bene, che questo è un modo alternativo con regole diverse, di vivere. Ecco, nell’autocritica e nella critica dovrebbe emergere il progetto e i suoi strumenti, non solo il risultato.
sesso e libertà
I tre giornali locali trattano tutti di violenza, sulle cose, sul patrimonio, sulle persone e il Gazzettino sceglie quella che può colpire la fantasia. Non ho nulla da obbiettare, neppure alla velata pruderie sempre connessa a queste cose. Ma allora cosa mi ha sollevato quel moto di ripulsa quando l’ho vista? Credo dipenda dal fatto che non ho particolari giudizi sul tema e che sesso e libertà per me dovrebbero accompagnarsi, con l’unico limite della libertà altrui, ovvero fare sesso in autobus com’è successo qualche mese fa da parte di un trio alticcio, non è libertà ma violenza nei confronti di chi è nell’autobus. Nel caso della locandina, non c’è violazione della libertà di orgia, ma il fatto che una persona sia costretta a parteciparvi. Forse ci siamo persi qualcosa per strada nella liberazione sessuale: le persone.
le libertà s’usurano
Il proprietario del bar, ieri, si è messo a ridere quando gli ho chiesto, se oggi era aperto.
Festeggio la liberazione, mi ha detto, e pure sabato e domenica, e vado al mare. Ho un gran rispetto della mia libertà e pure della liberazione. E rideva.
Gli ho risposto che quella libertà c’era anche durante il fascismo, anzi …
Non parlavamo della stessa liberazione e neppure della stessa libertà. La sua è di fare quello che il portafoglio gli permette, magari con qualche spericolatezza, difficile a chi vive di stipendio. Bisognerebbe chiedere ai suoi dipendenti se condividono la stessa libertà. Forse è per questo che la politica non gli interessa molto, se non per conservare questa possibilità di agire al limite. Ed è quella che lui chiama libertà economica, e ne vorrebbe tanta perché non gli basta mai: meno vincoli ci sono e più è contento. Le altre libertà, quelle di cui gli parlo, lo riguardano poco, non gli sembrano così preziose, né tangibili per la sua vita. Si vede che lo annoio, ma non è cattivo, neppure ha in spregio la libertà, solo che è al più una parola e si limita ad usare quella che gli serve, lasciando arrugginire le altre libertà e senza pagarne il costo. Come facciamo più o meno tutti, senza chiederci se le libertà si usurano. In realtà è proprio così, le libertà bisogna usarle, esercitarle, come si diceva un tempo, ma questi sono discorsi da professoroni, come ha detto, facendo molto ridere il presidente del consiglio. La velocità, il transitorio, che poi è transeunte, cioè finisce presto, non ha tempo per le libertà vecchie. Quelle di parola, critica, religione, riflessione. Adesso servono libertà veloci, usa e getta, libertà che consentano di non capire dove si va a finire e soprattutto che siano prive di responsabilità. Invece le libertà vecchie sono intrise di responsabilità. Sono le libertà dei padri che pur nate fresche di giornata dopo una notte infinita, si proponevano di dare sapore alla vita, di renderla un noi anziché un predominio dell’io. Oggi ci si cura poco della mancanza di gusto delle libertà, al più si dà colpa alla politica che le ha sciupate disseminandole di scandali. Ma quelle non erano libertà, erano soprusi e noi ce le siamo lasciate sottrarre, sino a dire che in fondo non contavano poi tanto. La libertà ha un sapore e non serve una dittatura per sentirlo, basta chiederci perché stiamo assieme e cosa ci tiene assieme, anche quando siamo soli, e allora si vedrà che quello che toglie libertà attraverso il sopruso, ci riguarda, ci rende meno liberi. Non di andare al mare ma di vivere davvero.
frammento sul tempo
… dovresti considerare se ciò che si vive sia un luogo utile alla vita, alla propria crescita. Il tempo s’assottiglia con gli anni, non è più sangue grosso privo di riflessione, che tumulta, spuma, e si perde inconsistente in mille luci di momento. Il tempo ora è lama affilata, che rade, seziona, classifica, e ci segue e ci precede per suo conto. Sembra poco il tempo eppure non sappiamo spesso che farne. Ci fa paura e con il nostro mordere il presente lo vorremmo ubriacare, ma alla fine ci accorgiamo d’aver contemplato ombelichi bene annodati di cui resta ben poca sostanza per sentirci più quieti.
Potremmo vederlo davvero, il tempo, in noi stessi, e darne giusta misura se ci peritassimo di vederci allo specchio, però questa è operazione che esige libertà dall’assomigliare e pazienza nel capire. Ci si accontenta troppo spesso d’un complimento che ci porta distante da ciò che si vive davvero, ha il difetto che dura poco e c’è già bisogno d’un altro e poi ancora, in continuazione, per non vederci davvero. Chissà perché non vogliamo vederci e dove sia maturato questo giudizio così negativo che ci fa cercare in noi qualcun d’altro. E tutto questo non fa capire se si sta bene dove si è, e se questo ci sia utile a vivere. Mi piacerebbe una tarantella del tempo dove si mescola gioia, attesa e ironia e il modo di vivere fosse parte di tutto questo. Nella tarantella c’è la maschera e il reale, ed entrambe sono la stessa persona, …

![IMG_8035[1]](https://willyco.blog/wp-content/uploads/2014/06/img_80351.jpg?w=584)

![IMG_6758[1]](https://willyco.blog/wp-content/uploads/2014/04/img_67581.jpg?w=584)