Piccole notizie

Nella cura ci sono le piccole notizie dell’inizio del giorno: come ho dormito, l’impressione dei sogni, lo svegliarsi e la prima consapevolezza della giornata. Poi tutto accelera, l’essere verrà sostituito dal dover essere, ma di quel primo accogliersi ci sarebbe necessità di memoria di futuro, perché è vero che c’è un utile e un dovere collettivo però non è così primario come lo si dipinge. Una gigantesca menzogna circola per il mondo ovvero che gli uomini non abbiano prezzo mentre tutto dimostra il contrario. E lo cogliamo in ogni mancanza d’attenzione, in ogni competizione perduta, in ogni attesa senza soddisfazione. E allora disvelare a sè il proprio valore prescinde dall’attesa di un giudizio positivo, si esce dal lamento silente ed è la cura del vedere e del vedersi, l’ascolto di quella persona che abita in noi e che non può vivere solo nel sogno, che prevale.

parole magiche

I bar, o le caffetterie come pomposamente si chiamano ora, sono comunque incipit, pagine con larghi spazi bianchi. Scenografie di tavolini, fatica unta di caffè e tramezzini malfatti, di noia, di piedi gonfi e tempo lento. Troppo lento. Guardate gli occhi dei baristi veri, trincerati dietro a un banco per difendersi dal mondo: hanno visto tutto. Tutto quello che poteva emozionare, tutti i film lunghi che iniziavano all’alba e finivano a notte fonda, tutte le sbronze in divenire, insomma la vicenda umana quando mostra i panni sporchi e lieti, a loro resta l’attesa che finisca tirando giù la serranda.  Ma se osservate bene l’angolo della caffetteria, ovunque, ha almeno un tavolino con tre sedie. Di solito si siedono in due, nella terza sedia finisce una borsa, una giacca. Sono un lui e una lei, oppure due lui o due lei, ma è l’angolo in cui accade qualcosa che dura. Quando si siedono sembra venga innalzato un separé, e dopo poco inizierà una conversazione intima.  I bar sono spazi da riempire. Luoghi di fretta e incontri, luoghi per speranze e per addii. Non sono mai indifferenti, per questo il nostro barista che ha visto quasi tutto e allora non guarda più, capisce al volo. Gli amanti, le coppie clandestine, quelli che sono ancora titubanti ma vorrebbero, i timidi, gli arroganti, i perduti, i violenti, gli stanchi, i lasciati. Molti finiscono in quel tavolino d’angolo. Come adesso.

Lei ha due occhi bellissimi, lui un viso perplesso ma determinato. Le dita cercano un luogo alle parole, tormentano bustine di zucchero, orli di tazza, il tavolo. Le dita accarezzano nervose i silenzi, incespicano sul dire e il tacere.  C’è un lasciare e un trattenere in azione. Vincerà il lasciare. Il barista lo sa e non guarda, ma noi sì. Forse è meglio si lascino, quando si finisce in quel tavolino per un addio è già accaduto tutto, c’è stata una sequenza infinita di rotture e rappezzi, di desideri malcelati e insoddisfatti, c’è stata, soprattutto, una svolta. Silente prima e poi via via più netta e rumorosa. Di quel rumore dolente che non si vuole sentire, ma c’è. Quel rumore a cui ci si ribella, che si pensa di aggiustare con un po’ di nuovo e molto di vecchio, con quel riandare al prima, al ricordo, senza sapere che non serve a nulla se non a perdere la ragione, perché il passato una ragione la possiede, ma il presente è carente di ragione. Torniamo ai nostri due partendo dall’età. Lui è più vecchio di lei, più grande come si dice ora, lei è bella per difetto di alternativa, dev’essere bella per lui. Ma ha il dubbio che non basti, allora si sminuisce, si critica, subisce anche l’aspetto. Se fosse oggettiva si sentirebbe davvero bella, e sarebbe bellissima, vedrebbe il suo viso e non le rughe, sentirebbe il suo corpo aderente, il muoversi armonico che ha quando corre o quando si stira svegliandosi, ma non avverte questa sua superiorità. Lui ostenta sicurezza, per lui rompere significa liberarsi da una colpa che ha messo in disparte ma c’è, coltiva la speranza che finisca presto. Però vuol fare l’innamorato che deve chiudere, per cui spinge le cose in modo che sia lei a decidere. È una porcheria, lo sa, ma non desiste, pensa sia meglio. Altre volte ha ostentato un dovere perché gli è già accaduto di chiudere, di lasciare, e a quel dovere s’è appeso per dire di no. Ha fatto un guaio maggiore perché ha fatto sentire qualcuno meno importante della sua vita banale, si è dimostrato egoista. Solo che l’altra non ha capito e non l’ha subito odiato per questo, ma si è fatta coinvolgere, l’ha giustificato. Ascoltiamo qualche frase:

Lui: Mi mancherai. I giorni non saranno più gli stessi senza di te. 

Non la guarda bene negli occhi, se lo deve imporre. Le mani si muovono e dicono altro. È imbarazzato, vorrebbe fosse già finito tutto, uscire da solo, sentire che qualcosa è alle spalle.

Lei: E allora perché ci lasciamo, proviamo ancora, è già accaduto, poi ci siamo capiti, abbiamo trovato soluzioni comuni. Noi ci amiamo, vero? Ci amiamo, no? … Allora perché non dovremmo risolvere tutto, l’amore ci aiuterà. 

Lei sa che la risposta alla domanda sull’amarsi è terribile, già il silenzio è eloquente e una qualsiasi frase non la rassicurerebbe perché adesso non valgono le sfumature dell’amore, ma i fatti che esso genera e allora si risponde da sola: ci amiamo, si dice. Lo vuole credere, vuole pensare che l’amore sia lo stesso per entrambi.

Lui: Lo sai che non è possibile, questa volta no. Non ce la faccio, non è come le altre volte, si è rotto qualcosa dentro, ho bisogno di capire. Non amerò mai un’altra donna come ho amato te, ma non possiamo continuare. Ci facciamo solo male.

Lei tace, vorrebbe dirgli che così per lei il male è assoluto, che con lui sparisce la speranza, che non riesce a pensare ad un altro uomo. Vorrebbe odiarlo, ma è paralizzata, non sente nulla, solo dolore. 

Qui si innesta un pensiero, lasciamo i nostri due ex innamorati e cerchiamo di capire cosa accade in un addio dalla parte di chi lascia, anche quando c’è molta buona fede. Ci sono due parole magiche che seguono gli addii : mi mancherai. Che poi è come dire: per sempre, che è vero quando lo si dice ma non in assoluto, perché il per sempre si costruisce con caparbietà e non sempre se ne vede la ragione. Forse bisognerebbe dire, col senno di poi :può essere che mi mancherai parecchio o tantissimo, che nulla sarà come prima, ma comunque il tempo attenuerà, non svanirai, mi interesserò a te ma non mi mancherai come adesso, nel momento dell’addio. Ma non lo pensiamo e non sarebbe bello dirlo anche pensandolo, le saggezze negative sono un po’ stronze proprio perché naturali e vere. A volte il discorso, consumate le parole definitive, scivola nella possibilità: la vita ci porta altrove, forse ci ritroveremo, diversi magari ci ameremo più di adesso, di sempre, ma fino a quel momento sarò altro e non mi mancherai più come ora. Mancheranno le cose che non sono state, ciò che si è consumato, ma anche questo si ridimensionerà nel tempo e troverà il suo posto bello di ricordo. Vorrei che fosse che non mi mancherai ed io non mancherò a te, non sarebbe forse un atto d’amore più bello e più vitale, non sarebbe forse augurarti il bene e togliere il fiele?  C’è una speranza che finisca così, sarebbe una bella liberazione per chi lascia avere anche la possibilità di riserva, sennò la stronzaggine mica ci sarebbe. Diciamo che quelli bravi ci riescono ma nella testa di lei dovrebbero formarsi queste parole: Eh no, mio caro, non funziona così e se tu mi manchi vorrei avere almeno lo stesso trattamento, ovvero mancarti fino all’infelicità, anzi un pochino di più.

I nostri due innamorati quasi ex, perché mica finisce subito, si sono alzati. Lui ha pagato, lei ha pianto con molta dignità, adesso stanno uscendo. Fanno pochi passi assieme, poi si separano. C’è stato un abbraccio, ma è meglio non indagare su quanta disperazione asimmetrica si porti dentro. Il barista ha alzato gli occhi, ha guardato, e poi si è voltato per fare un caffè. Lo beve lui stavolta.

http://[youtube%20http://www.youtube.com/watch?v=b0ZuslfEEYM%5D/

problemino

Che fare degli incompetenti, dei furbi, degli arruffoni, degli scansafatiche, dei disonesti, degli imbecilli, presi ciascuno nella sua peculiarità, e di cui tutti abbiamo nozione e non per sentito dire, perché sono attorno. Ovunque. E che fare dei meccanismi per cui non di rado, alcune di queste persone, arrivano a posti di responsabilità, presunta, perché quella vera non se la prendono? Insomma il problema è come fare in modo che esista una responsabilità personale, anche di chi li assume, li promuove, li giudica. Finora l’esercizio della pubblica opinione, anche quella avvertita, raziocinante, meno eticamente ottusa, si è esercitato sulla politica. Non che questa sia esente da responsabilità, anzi, le responsabilità sono proprio nella sua incapacità, passata e attuale al netto delle tante riforme spacciate per tali, di incidere sull’efficienza, sull’eliminazione della furbizia e del privilegio, sulla convenienza e sui poteri occulti. Che essendo occulti, questi ultimi, mica si mostrano, ma fanno e per fare hanno bisogno di una galassia di inefficienze, di controlli assenti, di controllori comprabili, di procedure farraginose e lavoratori svogliati, ecc. ecc. La politica è responsabile, ma chi governa o è all’opposizione, di più, perché dalla teoria e dalle promesse deve passare alla pratica. Quindi alla politica, seguendo il concetto di sussidiarietà, ovvero a partire da quella più vicina e non da quella più distante e irraggiungibile, va chiesto di provvedere. Però la cosa non si esaurisce qui. Cerco di esemplificare con un episodio recente. Ad una riunione di piccoli imprenditori, c’erano alti lai sull’inefficienza della politica, sui balzelli intollerabili della tassazione, sulla burocrazia e sui controlli e tutti, dico tutti, dicevano che bisognava cambiare, ovvero togliere controlli, togliere tassazione, rendere libero il mercato del lavoro, eliminare le contrattazioni sindacali, ecc. ecc. Tutto vero ma nessuno che chiedesse una maggiore efficienza della pubblica amministrazione, controlli reali sul lavoro nero, una lotta vera alla corruzione, un fisco equo che facesse pagare però le tasse a chi non le paga. Sommessamente è stato chiesto dov’erano quando andavano in comune a chiedere i condoni edilizi per l’edificazione abusiva dei capannoni in area verde, per necessità magari, ma abusivi. Dov’erano quando invece di investire nell’azienda costruivano appartamenti, investivano all’estero, esportavano capitali. Dov’erano quando il lavoro senza tutele era un elemento forte di controllo della produzione, con il nero, l’evasione dei contributi, la riduzione dei livelli di sicurezza perché costavano. Dov’erano quando invece di pagare le tasse aspettavano il condono tombale e intanto compravano le auto di lusso, le barche da 21 metri, le ville in collina. Erano in un altro Paese oppure in questo, e se il sistema era, ed è ancora, quello, che classe politica ne sarebbe uscita che consentisse il patto tra crescita e potere? Non ci sono state risposte sul merito, ma è stata rivendicata l’onestà dei presenti. Cosa che io credo, ma la realtà mi dice altro e allora credo che il problema del dov’erano verrà rimosso assieme all’invito di chi dice cose maleducate. 
Preciso, la società dei migliori non esiste e non è neppure possibile, e forse è meglio così perché sarebbe terribile nella sua ricchezza di giudici, però esiste un utile comune, qualcosa che più o meno suona così: non faremo il massimo però un accordo su quello che è mediamente equo e fa stare meglio si può trovare. E questo accordo è compito della politica oppure di chi sente che le cose così non vanno, io penso di entrambi, non di uno solo, di entrambi.

la gioiosa fatica dell’incerta direzione

Quando emergeranno le conseguenze nessuno di quelli che aveva sostenuto ciò che le ha generate riconoscerà l’errore fatto. Questa certezza mi fa pensare di essere sempre dalla parte sbagliata, di non vincere mai davvero e questo mi rincuora, mi dice che è sempre l’evidenza a cambiare le cose oltre a quello che posso fare. Un senso di onnipotenza che se va, un essere minoranza congeniale al dubbio, al non avere fedi trascendenti. I dogmi, i proclami, rassicurano chi avrà sempre ragione, vincono più che convincere e al loro rovesciarsi diranno che è la storia, la logica, a determinare le conseguenze. Ma questa è una storia diversa da quella in cui confido, perché una fede sotto sotto ce l’ho ed è nell’uomo, nella somma positiva che genera la sua voglia di vivere. La stessa voglia che prima gli fa credere alle chiacchiere che non includono la realtà ma una sua visione di comodo e poi lo spingono a disfarsene. E così mi fido di ciò che accadrà, dell’ evidenza che fa combattere le battaglie che si pensano giuste, che non rincorre un consenso di potere, e alla fine, quando si sbaglia, è pure contenta e fa riconoscere il proprio errore. È questo vedersi in movimento, nella gioiosa fatica dell’incerta direzione contraria che fa sentire vivi e dentro al mondo. Quello che ci approssima e quello che è.

http://https://www.youtube.com/watch?v=BRA8cTxdJEE

la luce era dietro

La luce era dietro la sedia. Una sedia comoda, abbastanza alta da raccogliere la schiena, una sedia per scrittura e lavoro più che per una lettura che prevedesse la sospensione dello scorrere le righe, il distogliere dello sguardo, il pensiero che toglieva oggetto allo sguardo trasferendolo all’interno. La sedia era collocata in modo da potersi agevolmente girare verso un interlocutore, quindi una sedia per conversare oltre che per lavorare, e in questa posizione, di interlocutore per l’appunto, vedevo il viso controluce, i capelli pettinati con una cura sbarazzina, e non ne capivo il colore proprio per la forte luce che mi abbagliava. Anche i lineamenti avevano una dolcezza e bellezza intuita più che verificata perché il tratto sfumava, e con esso l’età, la stessa condizione sociale, tutto era finito dietro la luce forte e piena. Mi rifacevo alle parole, al tono della voce, ai concetti e alla calma che li accompagnava. Mi veniva da interrompere per assentire, per condividere, per aggiungere la sensazione di benessere che provavo in un processo di comunicazione che si gonfiava morbido e avvolgeva entrambi. O almeno a me così pareva. 

http://https://www.youtube.com/watch?v=MiWppAPj6Jk

sei maggio

Erano le nove di sera, più o meno, e ci fu la scossa. Lunga come solo l’interminabile e il definitivo sanno essere. E con essa la paura, lo stupore, la ricerca scomposta di una soluzione. Poi in strada. Ma noi eravamo, seppure vicini, lontani e il disastro era altrove. La memoria diventa personale, poco interessante, resta la sensazione che questi fatti siano uno spartiacque nelle vite, nella coscienza collettiva. Ci fu in Friuli, un nascere di un metodo friulano nell’affrontare i disastri che non fu replicato in Italia. Eppure ci furono altri terremoti importanti, come altri ve n’erano stati prima. Paghiamo ancora, non le vittime, ma le mancate ricostruzioni di città andando indietro fino al terremoto di Messina. Non è un panegirico sulla capacità e sulla determinazione degli abitanti di un territorio che non volle essere ricostruito altrove, neppure un acritico dire che tutto andò bene. Fu la manifestazione di una identità, di un appartenere e sentire come veri i valori del luogo, degli affetti, delle relazioni. La cosa era possibile perché quei luoghi e quelle persone sapevano cos’era la diaspora e la piccola patria del cuore, sapevano che il com’era e dov’era non erano valori estetici, ma sostanza per non essere sradicati. Andarono molti soldi nel Friuli Venezia Giulia, meno però che in altre occasioni consimili, solo che in questo caso le cose si fecero e ci fu una rinascita produttiva che dura ancora. Fu anche l’occasione per rimettere in ordine il patrimonio, per rendere più bello e accogliente quello che già era un punto di possibile attrazione. Di questo vorrei ricordare che tutti fecero la loro parte, da chi abitava e aveva lutti a chi era volontario e cercava di dare una mano. Prima le case e poi le chiese, anche i preti erano popolo, anche monsignor Battisti, vescovo di Udine, tra Andreotti, capo del governo e i comitati dei terremotati, scelse i secondi. Questo per dire che se il potere si mette al servizio dell’uomo, lo ascolta, ne ricava una forza incredibile nel fare. Genera un noi. Dopo quarant’anni ricordare non riguarda i vecchi, ma proprio quella generazione che nacque allora: il passato non è tutto da buttare, ci sono state cose grandi e uomini grandi e non servono per costruire i calendari o intitolare le piazze, ma per imparare a fare il futuro.

lavoro e libertà

Tra le tante cose inutili che penso e quelle, per fortuna molto meno numerose, in cui credo c’è una correlazione forte di concetti, una specie di sillogismo tra lavoro e libertà. Li penso collegati da un sentimento del sé a cui tengo molto: la dignità. Non c’è libertà senza lavoro e se questo è privo delka libertà di proporsi, dire, contrsttare, allora subentra la dipendenza e la costrizione. In questo che per il pensiero al governo è volterrianamente il migliore dei mondi possibili, la vera rivoluzione è nel proporre il diritto al lavoro come esercizio di dignità e libertà individuale.

Ho ripensato a una canzone di Rino Gaetano, Aida, e l’ho sentita come la storia di donne che conosco, che con fatica rivendicano la dignità di essere che è la storia della libertà in questo paese, ma il tema può essere tranquillamente privato del genere perchè le storie nelle difficoltà s’assomigliano.

Per passare dalla privazione di libertà -e cioè dal fascismo- fino alla libertà è stata necessaria una guerra di liberazione. Oggi non siamo in quella condizione ma l’esercizio della dignità di essere viene precluso a non poche donne e uomini e allora sarebbe utile riflettere su chi erano e cosa pensavano del lavoro e del suo ruolo, le donne e gli uomini che cadevano davanti ai plotoni di esecuzione, nelle città e in montagna. Pensavano che da questo sarebbe nata il riscatto e la dignità di un popolo. Il benessere, certo, ma non solo quello, c’era l’idea che lavorare, essere indipendenti e utili fosse una condizione vitale, un diritto.

La mia generazione, che venne dopo quelle della guerra, interpretò questa necessità con la stabilità del posto fisso, più per reazione all’indigenza e alla miseria che era la condizione da cui uscire che per mancanza di fantasia. Era difficile anche allora pensare di avere una famiglia e non sapere se l’avresti mantenuta, per cui le lotte si riferivano a quella condizione in cui precario significava a rischio di povertà. Oggi ci sono le stesse domande in un contesto apparentemente diverso. Solo che qualche anno fa, si sapeva che il lavoro era un diritto e la libertà si difendeva in piazza. Oggi la soluzione non è il posto fisso e in piazza non ci va nessuno. Obnubilamento? Poca coscienza che i diritti e la libertà non sono conquiste permanenti? Oppure come riferisce una recente ricerca molti baratterebbero la libertà in cambio della tranquillità economica, del posto fisso e sicuro. Chi si preoccupa, infatti, di un futuro incerto quando il presente di certezze non ne ha nessuna. Ripensare nuovamente il nesso tra lavoro e libertà diventa allora essenziale e non posso pensare di chiudermi nella mia sicurezza, la libertà non è un lusso da ricchi ma una necessità collettiva. Il presupposto per cui il mio pane sicuro non diventi inutile e raffermo.

ala

Spesso la vita m’appare come un colpo d’ala. Poi seguito da un altro e avanti ancora, all’infinito, per restare in volo.

Talvolta sento l’inquietudine dell’uccello di mare quando da troppo tempo non vede terra, ma passa se il cuore ha il coraggio di fermare l’ala e s’affida a sé per galleggiare nell’aria.

Così nel pensiero nasce un bisogno rassicurante di geometrie

http://https://www.youtube.com/watch?v=QBfemDC0nIo

 

e rileggo parole di John Donne:

Il bene dobbiamo amare, e dobbiamo odiare il male,

perché il male è male, e il bene è bene, sempre,

ma ci sono cose indifferenti,

che non possiamo odiare, né amare,

ma prima una e poi un’altra provare,

a seconda di dove il capriccio va.  

Questo mi pare sia il senso del dono delle ali e dell’utile volare.

 

 

 

 

tempo grosso

Ruote dentate, bilancieri, spirali, ancorette, tutto che ruota, pulsa e muove, però con una dimensione inusitata. L’ orologiaio ha trasferito attraverso la passione e una stampante 3d le complicazioni della meccanica degli orologi in una macchina grande e funzionante.

È un tempo grosso, paffuto, amichevole. Non si può portare al polso, e ticchetta con allegra incongruenza. Pur essendo preciso, sconvolge la nozione della precisione, del rapporto tra vita e tempo e come per gli astrari medievali, l’ora non è importante, conta la propria posizione nell’universo e riguardo al proprio tempo. Non credo che l’orologiaio abbia fatto tutti questi pensieri, s’è ingegnato a fare una cosa bella, che dimostra ed esemplifica un funzionare armonico. Il tempo e il suo pensiero, non riguarda l’oggetto in sé, però magistralmente questo lo scompone in una relazione tra scorrere e funzionare. Il tempo di quel grosso orologio non è fatto solo di funzionamenti ma di scorrere e quindi di essere.

Emerge la nostra relazione con il tempo: qual è il nostro tempo? Capisco che gli appuntamenti contano perché sono utili, che la precisione diviene un’ancora di salvezza per sciogliere l’essenza delle cose. Abbiamo bisogno di ritmi, scadenze, abitudini per non pensare alle domande fondamentali. Per non vedere ciò che accade attorno. C’è un tempo del devo che portiamo al polso, spesso coincide con il posso e ha internamente una irrevocabilità. Cogliere l’occasione per principio è sentire la morte, il disfarsi della possibilità. Quindi il tempo che ho al polso mi è poco amico, mi dice in continuazione ciò che perdo. La sua inesorabilità è la stessa della sabbia che scorreva nella clessidra e che si raccoglieva desolata al fondo: è scorsa. Come il giorno, le stagioni, gli anni, il passato. Invece il tempo grosso che vedo ruotare indica il funzionare, la sua regolarità è crescita inesauribile.

Capisco che è importante la relazione tra dove sono e la mia posizione nell’universo e che questo implica il vedere e il vedermi per capire il presente e il futuro. Altrimenti farei coincidere la soddisfazione con l’occasione che si spegne. Lasciare che quell’attimo possa anche fuggire e mettere al suo il kairos, l’occasione che si ripete purché io sia in grado di vederla.

In questi giorni si celebrano due ricorrenze che riguardano due autori fondamentali per la storia dell’occidente e del mondo moderno: Shakespeare e Cervantes. Di loro è stato detto che hanno rappresentato la sofferenza, i sogni, la gloria e la speranza di un’epoca che entrava in crisi e ne coglievano l’esemplarità e la contraddizione. Ebbene penso che ogni vita cosciente, che conosce il suo tempo, il luogo e la realtà, viva la crisi di un’epoca. Penso che interpretare la crisi sia leggere il proprio tempo e quindi avere un passato, vivere il presente, perseguire un’idea di futuro.

Sapere dove si è e cosa si vede.

Quei grossi meccanismi che ruotano e ritmicamente si muovono sono la conseguenza d’un anarchico sogno di conquista del proprio tempo. Il loro scorrere culla riflessioni sul sé e il mondo:  materia del risveglio, non preparazione della notte.

dell’innocenza mai posseduta, il nero

IMG_1544

 

 

Nel rigoroso candore del nero,
che tutto assorbe e ordina,
c’è lo stato perplesso di chi osserva,
la sua infantile inermità.
Se tutto poi fosse ruotato sulla necessità
d’una rottura,
una liberazione, come oggi si direbbe,                                                                                                                                                                       scoprendo che non c’era nulla che impedisse il nero,
oppure il bianco,
oppure qualsivoglia sfumatura di piacere e voglia,
se tutto questo fosse il senso d’una ribellione,
molto insegnerebbe il contemplare la paura,
il rifiuto dell’irrequietezza,
il disordine apparente ch’essa conduce alla coscienza.
Allora la serenità a lungo così agognata avrebbe un senso,
e renderebbe meno certe le direzioni dei passi,
l’attendere e il sacrificare pezzi innumeri di sé importanti,
per un ordine che è resa,
e disperato desiderio d’un cavalier che liberi.
Ma da chi e cosa lo sappiamo
non c’è nulla di scientifico nella sofferenza di non essere appieno,
non c’è nulla di risolutivo nel traboccare un bicchiere con purchessia,
a noi tocca liberarci
e cogliere ciò che contiene il nero.