Parliamo tanto di me, che questo poi si fa guardando il mondo e illudendosi che il mondo ci guardi e abbia un qualche interesse per noi. La realtà, così come la percepiamo è nostra, immersa nelle emozioni, deviata dai pensieri e oscuramente percepiamo questo isolamento che poi motiva lo sforzo comunicativo. Abbiamo bisogno di confrontarci di continuo con ciò che percepiamo, sentiamo, guardiamo e non poterlo fare con il mondo, gettiamo messaggi in bottiglia sperando che qualcuno apra e ci legga. A questo serve scrivere parlando d’altro. E pure a dire la verità scrivendo, quella che ci pare la verità. La verità non si esibisce, si racconta, è un’approssimazione della comprensione, ma la verità di chi scrive onestamente, anche quando è ipotetica, è chirurgica. Almeno chirurgica a sé, perché capire di più è inseguire qualche demone, anatomizzarlo per capire com’è fatto, purché resti vivo ed aderente alla sua verità. Che poi è la stessa di chi scrive. La verità del guitto, invece, balla larga nei vestiti non sono suoi, mentre vuole farli apparire tali; e si capisce.
Bisogna dirla con semplicità, la verità, ma questo è il segreto dello scrittore di rango che la ammanta di semplicità di vesti e la lascia spogliare da chi conosce l’erotismo della verità.
La verità ha una sua malinconia, che supera di molto il racconto del proprio malessere, anzi il parlar d’altro è un modo per proporre diversamente la malinconia che è nelle cose. Si dirà che le cose non hanno emozioni, però le acquistano quando cessano di essere tali e acquistano significato per noi. Sono le cose che ci colpiscono quando smettono d’essere indifferenti, che offendono; in fondo la verità è una mediazione tra un sentire e un essere ed entrambe le condizioni sono vulnerabili dalle cose. Ma restiamo in ambiti domestici: la nostra verità, che è poi bisogno, non ha specchio nel bujo del non vedersi, del non sapere chi si ha davanti. Soprattutto se si scrive come si borbotta tra sé. Il fatto di non avere specchio nello sguardo, nell’espressione, fa trovare specchio nelle parole e qui, a volte, si potrebbe usare la perfetta ricetta dello scrittore, ovvero mistero, storia, erotismo q.b. Ma questa non è verità, è racconto, plot, eppure quanti tentativi maldestri di racconto auto specchiante slegato da chi scrive, si trovano.
Chi ha lembi di storia comune si capisce per ricordi conosciuti, sensazioni sperimentate e soprattutto per intuito. Aiuta il vissuto che si sovrappone, ma nei modi in cui questo accade. Questa condizione si può trasferire anche nella comunicazione epistolare, che è fatta di sintonie profonde, rivelazioni intime, ed è un percorso di conoscenza, una relazione. Invece scrivere al mondo, a chi non si vede né si conosce, razionalizza, semplifica. Una frase in testa è fatta di continuità piene di puntini multimediali e spiegarlo diventa una fatica immane. Allora si razionalizza, e si perde il succo della vita vera.
Non scrivo per essere capito subito, non da tutti almeno, ma per la sintonia. Mi basta.
E se poi la parola diventa cura, allora ci dev’essere, come nell’amore, una doppia disponibilità: quella di lasciarsi curare e di curare. La relazione epistolare non esaurisce certamente la necessità di conoscere l’altro, essere vicini è una scelta che usa più mezzi. Scriversi è una componente potente di un incontro, ma bisogna che sia un incontro. E c’è differenza tra vivere come superficie (con puntate al profondo) e l’essere. In fondo di questo vivere, di cui molto si parla, il limite è proprio la superficie e di come se ne parla. Se si fa lo sforzo del non tradire se stessi, è necessario scavare, allora agisce più il malessere, o il dolore, che la gioia, ma per comunicare la conoscenza che emerge, la nostra verità infedele, c’è bisogno di mostrarsi e questo implica una fiducia totale anche sull’essere fraintesi, perché il fraintendimento è il miglio posto dove nascondere ciò che siamo davvero.
Oh beh!
Questa canzone è per me la summa sublime di ciò che si può comunicare:
A volte penso che i carichi, presi con grande insensatezza (la generosità è tale), siano eccessivi. Lo sono perché projettano un’ombra sul mondo, sul tempo, su ciò che vedo. Ribellarsi per tutta la vita alla schiavitù delle cose, al loro ingerirsi nella vita, proprio per il senso del dovere che merita la funzione che si ricopre, significa rispettare le regole, ma non deve impedire di vivere.
Forse si cade in altre costrizioni; penso a me che coltivando le mie passioncelle, ho direzionato la nave tenendo equilibri che poco c’entravano con una visione usuale del presente, del mondo. L’essere fuori dagli schemi in realtà non pesa, è una scelta. E’ il folle che non sceglie la sua follia, ma la diversità non è un marchio d’infamia tra gli eguali, è una specialità, un seguire il demone, o il sogno che questo produce. Il problema, per non pochi, è proprio quello di avere un sogno, di alimentarlo, di svegliarsi, fare, e poi nuovamente sognare.
Qualche giorno fa, scrivendo d’altro e ben più concreto, parlavo del sogno come generatore di passioni. Vale in politica come nella vita quotidiana, ma non sopravvaluto le passioni, hanno troppa letteratura che le ha svalutate. Mentre in questi tempi si usa molto la narrazione ovvero il raccontare una realtà che sembra plausibile ma non è neppure finzione, anche se modifica non poco le vite collettive. Le passioni soffrono della stessa sopravvalutazione dell’emozione che diventa il modo per sgravarsi di obbiettivi più ampi e faticosi. Ma pur ridotte, passioni, emozioni, hanno comunque bisogno di un flusso in cui manifestarsi, una sorta di recinto in cui possono esplicarsi, correre. E parlo di passioni che non sono la soddisfazione del desiderio, del giorno per giorno; no, parlo di ciò che si può mostrare senza timore, perché è in sé chiaro ciò che si dice, parla della diversità e della sua continuità ed è così che ha un ambito in cui confrontarsi. In fondo quando raccontiamo di noi, ci sono almeno due realtà che si uniscono, quella delle nostre urgenze interiori, quelle che ci fanno star bene o male, e quella delle urgenze esteriori, con la loro violenza e scarsa creanza.
Quando lascio che l’urgenza esteriore mi espropri da me, che non ho più equilibrio e cerco ciecamente la medietà, il confondermi nell’essere eguale perché questo è rifugio, è riposo. Ma non posso permettere che l’esterno ammazzi la capacità di sognare, di generare passione; non posso permetterlo perché ne morirei in ciò che ho di vero e quello che rimarrebbe sarebbe poca cosa: un codice di regole banali.
…Inseguire le intuizioni, è questo che faccio io. E’ così che ho organizzato la mia vita: inseguendo le intuizioni, comprese quelle che a tutta prima non so decifrare. Soprattutto quelle che a tutta prima non so decifrare.
J.M.Coetzee Slow man Einaudi 2005
Nel cielo azzurro si è inserita una nuvola che ha oscurato il sole, lo sguardo si è spostato verso l’alto e ha sostato. Indeciso se seguire un pensiero o perdersi in un particolare. Le decisioni si accumulano per aggiunta di materiale differente, concause, e per sottrazione. Una sorta di dilavamento del non necessario che porta a una conclusione. Difficile che vi sia la folgorante luce della comprensione profonda, del vedere la consequenzialità degli atti, essa viene sostituita dalla speranza che le cose si raddrizzeranno strada facendo, che tutto troverà un suo posto. E sarà così, ma se questo sia o meno ciò che si pensava inizialmente è difficile che accada. a questo serve l’intuito, l’imponderabile che mette insieme un fine con un inizio, ma parte dal primo e traccia una strada, genera una scelta. la razionalità si mette in mezzo, non ama l’imprevedibile, tanto meno nei sentimenti perché si arroga la presunzione di come andrà a finire. Senza intuizione non ci sarebbe che una sequela di amori ragionati, senza follia, solo convenienza sequenziale. Neppure i tradimenti ci sarebbero, e sarebbe esclusa quell’interpretazione che questi siano un’ espressione dell’amare e del futuro immaginato diverso, diverrebbero solo negazione e rottura di un patto infrangibile. Cocci che nessun kintsugi sarebbe in grado di riparare.
Ho immaginato di rompere una piastrella quadrata con un taglio verticale che già indica il suo destino e di incollarla su un supporto con la frattura non ricomposta, nel taglio converge la decisione, il tempo si è fermato, ha preso una sequenza e uno scandire nuovo. Da una parte e dall’altra c’è l’immutato scisso. L’istinto sana la frattura, la considera parte del decidere e la porta in sé come momento positivo, tutto si ricomporrà e si apre alla fiducia dell’essere e dell’esistere. Nulla è più ripiegato su se stesso, la spirale si svolge e genera una linea che sarà pronta a ridiventare spirale ma come momento del riflettere interiore, del tornare a guardare dal presente il passato mentre esso si muta in futuro.
Soffermarsi e ascoltare, il corpo ci parla attraverso circuiti neurale, trasmettitori chimici ed elettrici, energia che si trasforma e ricombina, ha il quadro di ciò che siamo e propone una scelta. E’ un dialogo, nulla è obbligato ma si è generata una possibilità che dovrebbe essere considerata. Non è ondivago l’intuito, ha una sapienza che si radica nel profondo e arriva al sauro che ciascuno conserva oltre il percepibile, quell’ondata di inconscio che ogni notte parla e si cancella attraverso i sogni. La sublime libertà del scegliere genera il rimpianto di ciò che si lascia, lo trasforma in altro desiderio e spinge in nuovo intuito. In noi il tempo della scelta, il kairos, diviene reale perché ogni treno genera il successivo, apre una porta nell’attimo in cui ne chiude un’altra. L’intuizione è una certezza lieve o dura, ha una sapienza che si è generata prima e durante il vivere, non sente l’età, non obbliga e soprattutto è speranza che ciò che muterà sia buono, dolce, confacente a noi e misericordioso.
Sento che dovrei spiegare, ma la nuvola si è spostata ed è tornata la luce piena, fuori c’è un mondo che non è quello che vorrei, ho solo la possibilità di seguire ciò che il corpo e la mente mi propongono per far coincidere il cammino con quello che avverto: una ricerca del bene e del benessere, che include me e dove vivo, ciò che percepisco e che mi solleva felicità istantanee con quello che spaventa, che è violenza, rifiuto di umanità. Per avere una risposta al vivere dev’essere considerata la scelta, l’amore, la gioia, la capacità di vedere l’orrore, di rifiutarlo, di sentire che sono io e lui assieme. Che la felicità e il benessere non è una colpa se essa non sottrae vita ad altri. Questo mi dice l’intuito, puoi star bene e far in modo che questo benessere trabocchi verso chi non ne ha. Come, lo scoprirai facendo scelte in te.
Domenica delle Palme, tutto il tracciato che porta dalla gloria all’esecrazione e ancora a diversa gloria. Il relativo del mondo si scioglie nell’assoluto della scelta di sé.
Li conosco i soddisfatti, gli lavevodettoio, gli acidosi da maalox, che con il sorriso dell’ovvietà bieca percorreranno circonferenze di chiacchere per tornar da capo. Chi aveva capito (cosa? come?) si vanta: proprio lui ha fatto cadere i potenti, ne ha visto per tempo i piedi di sabbia, ed ora è pronto per essere scelto. Nulla aveva fatto prima, nulla farà poi, una scelta perfetta, conveniente per chi vive non del proprio pensiero ma di quello altrui. La conservazione li sceglierà, chi non vuol cambiare punterà su di loro perché nulla cambi e la mediocrità eccellerà in ciò che è insostituibile, ovvero convincersi di interpretare ciò che davvero ciò che pensa la gente.
Se il voto non premia l’arroganza del decidere senza capire i bisogni ci sarà il lamento che la gente non capisce. Sic anzi sigh: chi dovrebbe capire si lamenta di non essere capito. Dove andremo se non in braccio ai negromanti che leggono passato e futuro allo stesso tempo, quelli che vivono in torri di compromesso e si informano, leggono più giornali, parlano tra loro e si convincono. Professionisti dell’esegesi, non camminano (scendono) tra le persone di cui parlano, si informano se il popolo ha fame, se è inappetente, se è satollo. Hanno contratto quella malattia che nella sinistra si conosce bene ed è afasia strutturale del capire politico, ovvero il problema è altro, non capite e comunque l’avevo detto.
Avete visto un impegno vero perché la destra non trionfi? Se davvero cadesse Meloni, cadrebbe il circo della lega e di forza Italia, perché si reggono non sul governo ma sul fatto di governare dando l’impressione di essere altrove, sul contrasto senza oppositori radicali. Per questo non cadrà davvero la Meloni, perché regge un sistema vuoto di proposte e pieno di problemi. Qualcuno si ricorda da quarant’anni a questa parte quale sia stata una proposta politica riformista complessiva che sia durata più di due anni? La più recente idea, l’Ulivo, che non era certo un mostro di radicalismo è di 30 anni fa. Ecco il male dentro, da estirpare. Sono nate parole nuove per descrivere un mondo nuovo, la guerra si affaccia all’Europa e ne nega la stessa ragion d’essere: era nata per non ripetere gli orrori della seconda guerra mondiale. Dovrebbe essere il trionfo della diplomazia e invece prevale il militarismo. la qualità degli uomini di stato è precipitata nel calderone del potere, trascinando con sé le idee di gestire il mondo e la sua crescita equa e sostenibile, ma se non possiamo aspettare che sia la destra a rialzare le bandiere dell’umanità cadute nel fango, il compito di leggere bisogni antichi e nuovi spetta alla sinistra. Ad essa la parola e il mea culpa perché cadendo un muro mille altri ne sono nati e la libertà non è cresciuta ma la stessa democrazia diventa democratura. Se il silenzio fosse comprensione e meditazione sulla via da intraprendere sarebbe una attesa ormai fuori di tolleranza ma giustificata ma questa assenza di risposte priva di un motivo la sofferenza, perché se c’è da soffrire, un motivo, una prospettiva futura ci deve pur essere.
Si può sbagliare ma bisogna che il livello di realtà irrompa nella politica, che trovi soluzioni e non accordi cercando il piccolo inutile potere. Tutto questo è diseducativo, rende possibile che divengano giganti i nani. E se cambierà, più per caso che per volontà, ricordiamo che quelli che diranno di aver sempre saputo, e guardavano. Guardavano e basta.
tra dottrina e diottrie, preferisco le seconde che permettono di vedere
… se si vuole restituire una dimensione, umana, comunitaria, ecologica, non tanto in senso ambientale quanto psicologico esistenziale, alla nostra vita, se si vuole sfuggire a quello che ho chiamato il “ modello paranoico” che ci costringe a consumare per produrre a livelli sempre più insostenibili, a competizioni sempre più stressanti e ci priva del vero valore dell’esistenza, il tempo, non c’è “bio”, “ecocompatibile”, “we”, “sviluppo sostenibile” che tengano, il solo modo di tornare a “un’economia di sussistenza”, vale a dire, sia pure in modo graduale, limitato e ragionato, a forme di autoproduzione e autoconsumo che passano necessariamente per un recupero della terra e un ridimensionamento drastico dell’apparato industriale, finanziario e virtuale… Massimo Fini ne “ il fatto quotidiano “ del 20-11-2010
Per un mio quasi coetaneo, benestante, realizzato e inquieto può essere facile dire “ torniamo ad un’economia di sussistenza”, in fondo l’aggettivo graduale non inficia né il tenore di vita, né le opportunità residue, e neppure le abitudini vengono sostanzialmente toccate. Le priorità di valori, le necessità si alterano con l’età e si invertono quando si esprimono salendo sulla scala delle possibilità economiche, vale a dire che a seconda di dove ci si trova nello spazio-tempo sociale si hanno bisogni differenti. Ma ciò non toglie che quanto diceva Massimo Fini mi trovi consenziente. Purché non sia un lusso occidentale: il n.i.m.b.y che sposta altrove le nostre difficoltà, senza rinunciare a nulla.
La strada dell’alternativa a questo modello di vivere non può essere indolore, bisogna perdere in abitudini, rinunciare per avere. La mia esperienza di lavoro cercava di proporre una compatibilità incrementante nell’uso del territorio e una riduzione progressiva dell’impatto, ma nell’attuare il processo, non conoscevo la velocità del degrado complessivo e dovevo, per eccesso di variabili, assumere che alterando di meno comunque miglioravo l’ ambiente, mi restava il dubbio, che oltre alle parole, vendevo un sottointeso, un inganno. E il solo motivo per cui venivo creduto era nella parola compatibile. La mia proposta non alterava desideri, attese, abitudini, ma semplicemente le arricchiva della speranza di non essere in un treno lanciato verso una catastrofe. Ma anche una catastrofe non faceva paura, perché si pensava che qualcuno comunque ci avrebbe salvato. Questo è un pensiero generalista che coinvolge il rapporto tra presente e futuro ed esonda dall’ambiente, alla pace, al benessere, alla tutela collettiva, sono cose che vengono affidate a un potere che dovrebbe risolvere, provvedere mentre è proprio questo che conduce verso la catastrofe. C’è una presunta distinzione tra i più forti, i possessori della tecnologia, ma non tra i più deboli, quelli sono dati per perduti al benessere che conosciamo. Illusione, se non subentra la consapevolezza che il futuro è nelle nostre mani, se non verrà esercitato il potere del voto, dell’opinione pubblica, si salveranno i lontani, quelli che hanno poco o nulla perché resterà poco o nulla.
Tutti pensano sia meglio appartenere a questa parte del mondo ed è vero, purché si veda dove esso sta andando, sempre più velocemente e lo si fermi. Questo riguarda anche quelli che si danno da fare per avere un mondo migliore perché ciò che era urgente ora è indifferibile, ma non sembra. La quiete del 1914 e la ricchezza di speranze nelle sorti magnifiche del mondo, ci dovrebbe insegnare qualcosa. Solo quelli che davvero scendono negli inferi del disagio, della fatica, capiscono che il mondo è salvabile ma che deve mutare non per tecnologia ma per convinzione (che in questo caso significa rivoluzione economica). E se le cose procedono indisturbate, bisogna trovare la speranza altrove, chiederla a chi conosce il disagio profondo di chi vive la contraddizione tra l’essere uomo e non essere riconosciuto come tale.
Oltre al degrado del pianeta che già da solo dovrebbe mobilitare tutte le nostre risorse per incidere sulle scelte del potere, c’è la minaccia di una terza guerra mondiale, che pericolosamente le menti maneggiano come fosse cosa possibile e distante. Einstein dopo aver assistito alla sperimentazioni delle prime due bombe a fissione, disse che se quest’arma fosse diventata una possibilità concreta per risolvere le questioni tra gli uomini, la quarta guerra mondiale sarebbe stata combattuta con le pietre e i bastoni. Allora si era agli albori di un’era in cui il potenziale distruttivo è tale da lasciare vivi i virus, che vivi non sono ma sanno il fatto loro. Per il potere la carne da cannone non ha mai cessato di nascere e si riproduce ovunque, al ritmo necessario per il suo consumo da parte delle élites. Se si diviene consapevoli di tutto ciò, cosa se trae se non la percezione delle proprie contraddizioni ed inanità. E per sfuggire all’apatia o alla disperazione del fare, quale strada resta a disposizione?
Trascurando i cambiamenti repentini da catastrofe, resta la via del cambiamento delle coscienze, la consapevolezza del pericolo, il proporre, l’essere conseguenti e l’attuare stili diversi di vita. Rifiutare per resistere, non delegare la propria vita, praticare ciò che è compatibile con sé stessi, approfondire le analisi e le compatibilità con il vivere, ma resistere alle menzogne che modificano la percezione. Abbiamo bisogno di riscoprire la verità, di chiederla come condizione per delegare potere. Oggi la comunicazione manipola come mai prima, approva, rende compartecipi dei magnifici destini del comportamento prevalente, della moda dei consumi, della scienza orientata a trovare soluzioni a ciò che si altera in un percorso infinito di rottura e riparazione, propone immagini in cui la morte diviene un fenomeno distante, toglie la pietà e con essa l’umanità. Abbatte l’etica e con essa le difese perché sembra che quanto si decide e accade, non ci riguardi, ma non è così. Bisogna resistere ed essere conseguenti, maturare consapevolezze, essere progressivamente innervati di priorità diverse, di cultura che conosce l’altra faccia della realtà e non ne ha paura, ma cambia in conseguenza.
Resistere significa avere i giovani dalla propria parte, senza la maggioranza dei giovani non si cambia e non si vince la paura che tutto sia determinato. Ma i giovani sono la parte più difficile da convincere perché devono ancora consumare, temono di perdere possibilità in una concezione del mondo che appare “pauperista”, meno ricca di opportunità di star bene, di avere. Restare in un ragionamento riduzionista è castrante, riconduce a gruppi piccoli, religiosi, mentre serve una laicità del crescere differente che evidenzi un modo nuovo di crescita, che si alimenti di selezione nel consumo e non tolga possibilità, anzi aggiunga incessantemente e con evidenza, qualità al vivere. Non è facile, anzi, il vedere la propria necessità diventare norma, toglie la capacità di cogliere i problemi, le difficoltà del mutare abitudini, le implicazioni di un modello che si basa su una libertà di scelta apparente, ma sostanziale. Rinunciare all’auto per andare a lavorare a piedi a 3 km di distanza non è una grande fatica, ma se il lavoro fosse a 30 km, con i mezzi pubblici insufficienti alle necessità? E per le donne che hanno sempre un lavoro doppio tra reddito e accudimento, sempre di corsa, come possono fare? E ancora in una società basata sulla sussistenza ci sarebbe lavoro per tutti, e con quali garanzie? L’industria ha permesso la formazione di una contrattualità che ha generato la conquista dello stato sociale da parte dei lavoratori, l’agricoltura non era in grado di farlo. Il commercio mette in relazione il mondo, ma ha bisogno di una moneta comune non del baratto. Immaginate un mondo in cui gran parte delle cose che fate, avete e usate, non abbiano più significato comune, un mondo artigiano in cui la tecnologia non ha serialità, una tecnologia resa solo funzionale, quasi domestica. Il progresso che rallenta perché non servono in continuazione nuove “release” di software o di hardware. Immaginate un mondo con il manifatturiero ridotto, un mercato basato praticamente sull’uso e non sul possesso. Immaginate che questo commercio svuoti le scelte nelle vetrine e nelle bancarelle. Immaginatelo questo mondo che colloca le persone e le cose al centro del loro significato quotidiano, perché deve esistere una via aurea per combinarlo con il mondo senza critica in cui viviamo. E questo mondo fatto di consumi e di sfrenato consumo di energia, si alimenta con tutto ciò che trova, con l’ambiente anzitutto, ma esonda nella guerra perché essa diviene l’affare di chi fornisce armi e poi ricostruisce. Il più grande affare della storia dell’umanità può concludersi con la scomparsa della civiltà e del genere umano ma per chi idolatra potere e rischio, c’è sempre il pensiero che gli altri soccomberanno. Per questo oggi ambiente, guerra, si intrecciano in un nodo che definisce non il benessere futuro ma la sopravvivenza della specie. Per conservare ciò che abbiamo ricevuto a partire dalla bellezza, per modificare le abitudini e per scoprire le nostre felicità, per diffondere benessere, abbiamo bisogno di cambiare la concezione del potere che consuma uomini e pianeta, abbiamo bisogna che la pace non sia un ideale ma la realtà dei rapporti tra gli uomini. Essere vivi e liberi, non prigionieri della volontà di potenza, delegare e pretendere saggezza nel governo. Se qualche centinaio di trattori hanno imposto la possibilità di continuare a usare i pesticidi e di avvelenare ulteriormente l’ambiente, se anziché toccare le catene commerciali che sviliscono il frutto del lavoro agricolo, si sono tolte le tasse per i redditi alla produzione, allora è possibile che le persone possano cambiare in meglio il mondo e allontanare la minaccia di una distruzione della specie umana. Basta chiedersi se davvero vogliamo un futuro in questo mondo e cosa siamo disponibili a pagare per averlo.
Avevamo arricchito i silenzi con piccole frasi: come va, prendi un te, con zucchero o senza? L’aria si increspava e la vibrazione si spegneva piano, frangendosi su una riva che non si vedeva. Le risposte erano rispettose degli equilibri e quali questi fossero, non era né esplicito né implicito. Troppa fatica e tumultuare di cuore per lasciare che affiorassero le ragioni vere di un sospendere indefinito. Qualcosa attendeva di formarsi in quella chiarezza perfetta che ha la consapevolezza, parente solare dell’intuito e per questo in grado di vedere con nettezza le cose. Come accadeva a fine inverno sui tetti in montagna, la neve si scioglieva in ricami impossibili, poi di colpo precipitava, matura di primavera e di scelte, ristorando una pianta ed essendo primavera. Forse tutto dipendeva da un tempo che non aveva fretta, che rifletteva prima di scorrere via, ed era diverso da altri tempi, perché sapeva attendere e silenziosamente maturava, cercando le sue ragioni in profondità impervie e nuove.
Altrove, nel tempo gaio in cui tutto importava, molto era disperante con la stessa natura della felicità e della leggerezza di pensiero. Era schiuma di presente e virtù di molti, ma non di coloro che scavavano nelle passioni, che le scorticavano come le parole. Questi graffiavano l’anima sino a trovarne l’inconsistente, che è pur sempre un vicolo del labirinto, e solo porta per un altrove in perenne attesa di scoperta.
In quel tempo, per abitudine comune, l’addio era leggero, un prolungamento del tempo che ormai aveva preso altra attenzione. Certo si soffriva e non era facile ma era nella natura delle cose e chi aveva esperienza di notti consumate nell’attesa dell’alba, di un peso da portare verso una stazione, oppure di un’auto o di un passo che s’allontanava verso un dove impreciso, ascoltava e taceva. Questo era nel denso ribollire dell’interrotto, del non consumato e non era proprio dell’esausto andare, o strascicar parole che a nulla servivano se non a non dire.
Il mattino aveva portato luce e stanchezza. accade dopo una notte in cui si dorme poco. Da tempo si ripetevano sogni pieni di simboli e di ricordi, ma tutto in altri contesti che alla fine si troncavano nella ricerca di una soluzione già data. Un vincolo, insomma, che ripeteva ciò che nel giorno o in tempi precedenti era stato lasciato a mezzo, come accade a quelle case abitate che lasciano pilastri in cemento e ferri protesi verso un piano che non nascerà mai e che il cielo arrugginisce per pietà. L’aria li dissolve mentre il sole solleva il cartone catramato che funge da tetto e che doveva essere pavimento. Tutto si sparge secondo i capricci dei refoli d’aria come i sogni degli uomini o degli animali che s’agitano e muovono il corpo in modi apparentemente scomposti prima del risveglio. E’ il giorno che ripone i nodi della notte e lascia quel fondo di polvere sugli occhi che ancora inseguono un pensiero. Le vite diventano sconcluse come le case, per mancanza di fondi, per eccesso di vincoli, per una errata valutazione di sé. In fondo ciò che è accaduto non ha percepito appieno la necessità e il possibile e non ha trovato una via che li separasse dai vincoli che tutto ciò che stava attorno poneva.
Ognuno di noi ha esperienza di se stesso, conosce i limiti che qualcuno gli ha dato. alcuni ne condivide, altri sono piccole prigioni in cui è stato costretto e di cui non si è liberato. Neppure quando con orgoglio e coscienza ha interiormente urlato, è riuscito ad annullare del tutto il peso e il significato di quel pensiero imposto, di quella strada obbligata, di quel fare o non fare che gli è stato chiesto, pena una colpa nel trasgredire. C’è un modo che tutti attuiamo per queste prigionie non risolte: dimenticare, rimuovere, ma siamo in libertà vigilata e le cose torneranno a galla nei sogni e nella coscienza. Allora si ripeterà una eterna scelta che ci chiede se c’è qualcosa che quel ricordo dice per oggi e la tendenza sarà nuovamente di respingere e occultare in qualche meandro della mente dove non ci sono interrogativi, dove nulla sembra far male.
A questo guardarsi e constatare la differenza tra desiderio e realtà, sfuggono i luoghi comuni, le abitudini acquisite, le regole accettate come norma innata, la morale media del sociale. Questa è l’acqua in cui nuota il pesce, noi, e quanto sia inquinata non ci è dato discernere, ma possiamo usare il ridicolo e lo svelamento per depurarla. Mi chiedo se esista una società che non inquina le menti, che rende più facile alle persone assomigliare a se stesse nel profondo, che lascia liberi davvero di costruirsi una vita con tratti di felicità e costanti di serenità. In fondo questo è quello che le religioni contemplative, i filosofi, le scienze della psiche e le filosofie del benessere, propongono con caratteristiche non dissimili. Ma ci sono anche strutture di pensiero masochiste che nel constatare la presenza del male e della poca libertà negli uomini, pensano che tutto debba essere rimandato a un futuro immanente e allora accentuano le norme e propongono il dolore attuale e la costrizione contronatura in cambio di una vita ultraterrena felice. Restano i geografi della psiche, non scevri da un’idea del mondo e degli uomini, praticanti il relativo mascherato da assoluto che cercano di rimettere in sesto le menti offrendo un equilibrio tra norma ed essere, facendo prevalere il secondo. i migliori indicano un rapporto con gli altri e con il mondo che percorra una strada di pace interiore.
Se guardo nel passato c’è stato un tempo in cui l’apparenza e la sostanza non coincidevano. Frutto di molte direttive a crescere in un certo modo e di un distinguere tra giusto e ingiusto nato nel conformarsi più che nella sostanza delle cose. Questo seminava rovine interiori, generava fantasmi, toglieva la percezione del necessario nascondendolo sotto il superfluo. Forse da lì nascono sogni di adesso e molto di quello, che per pietà, si è rimosso. Allora pensavo che l’inutile, proprio per la sua libertà dal venale e per la sua inermità nell’incidere nei rapporti, fosse una scelta. Occupava spazio e aveva un’ intrinseca qualità di non pesare nel farsi vedere per ciò che era, ma era solo una piccola parte della libertà e se generava un equilibrio era qualcosa di non esaustivo e troppo intimo, per essere condiviso senza banalizzarlo.
Ho capito allora che un sentiero era cercare la bellezza disseminata ovunque, oltre l’autore, oltre l’abilità. E dove non c’era bellezza bisognava diffidare perché lì si annidava una distorsione dell’umano vedere il mondo. Cercare questo sentiero era impegno, fatica, disciplina e negazione, affermazione, esaltazione, gioia immotivata, distacco, scoperta, ma era un ritrovare sintonia tra dentro e fuori.
La bellezza è un portolano, non una carta geografica tracciata da menti che hanno una rappresentazione codificata, ma un percorso, una sensibilità ricordata e ormai indelebile, che trasmette scogli, secche, sentore di prossimo vento, odore di terra. Quella terra nuova è la ricerca, iniziata con lo staccarsi dalla sponda, era scrivere il proprio racconto, la storia, in un senso o nell’altro.
Lo penso anche ora, e se i sogni mi smentiscono so che si si possono perdere spazi di libertà, ma la bellezza, una rotta la fornirà sempre. E cosa sia bellezza, ognuno lo determina per sé ogni giorno. Stanotte prenderò con me il profumo di legna, una strada percorsa parlando, una cortesia ritrovata, il particolare d’un quadro, lo scrivere una lettera, la certezza di ciò che davvero resta.
Quasi mai è facile andare, ma a questo poi servirà un portolano, che prima è immaginazione, congettura, spinta a mettersi per strada e poi, camminando, diventerà utile per staccarsi da ciò che è terminato. Servirà a metter distanza da chi è prigioniero delle proprie rabbie, a liberarsi da ciò che trattiene con la promessa del ripetuto, dell’abitudine.
Quasi mai è facile andare, eppure senza farlo non si procede e il ricordo di noi ci divorerebbe.
“Il libro che gli serviva aveva cento capitoli, uno per anno – era la storia del ventunesimo secolo. … Un’occhiata all’indice poteva forse bastargli. Saremmo riusciti a dirottare la catastrofe del riscaldamento globale? La trama della storia prevedeva il verificarsi di un conflitto sino-americano? L’ondata di nazionalismi razzisti nel mondo avrebbe ceduto il passo a qualcosa di più generoso, di più costruttivo? Era possibile invertire l’andamento crescente del numero di specie in via di estinzione? La società aperta avrebbe trovato modi nuovi e più giusti per trionfare? L’intelligenza artificiale ci avrebbe resi saggi, folli o irrilevanti? Ce l’avremmo fatta a far passare il secolo senza scambio di testate nucleari? Per come la vedeva lui, anche solo uscire vivi dalla fine del ventunesimo secolo, dalla fine del libro, sarebbe stato un enorme successo.”
Ian Mc Ewan – Lezioni -Einaudi 2023
Fuori, il cielo dall’azzurro glaciale del primo mattino era diventato grigio, come rattrappito dal freddo, poi con il sole pieno, senza dar nell’occhio, s’era stirato in un nuovo azzurro. Un gatto al risveglio.
Guardava gli uccelli becchettare tra l’erba, indeciso su ciò che fosse utile adesso. L’ansia, che poi era irrequietezza e incapacità di afferrare una tranquilla visione del tempo, dell’importanza delle cose e del loro attendere nel compiersi, si era sciolta nella lettura delle ultime pagine del libro. Un finale positivo aiuta l’umore, si disse, riordina le cose e la loro importanza.
Vedere la propria dimensione e avere pensieri più grandi, metteva energia, scartava la visione delle difficoltà e induceva a tentare.
Siamo idee, immagini, desideri, che si portano davanti alla grandezza di un orizzonte che è già infinito anche se lo nasconde. Pensò a quando in montagna la cima sembrava lontanissima e invece non solo la si sarebbe raggiunta, ma il ritorno, ebbri di stanchezza sarebbe avvenuto nella luce calda del pomeriggio che entrava nella sera.
Così al limite dell’acqua, preso dall’orlo dell’onda e dal suo divagare, alzare lo sguardo era perdersi e insieme trovare una diversa dimensione raccolta. Il calore diventava brezza, profumo d’erbe alle spalle e odore di salso davanti. I gesti dei pescatori vicino alle barche erano la dimensione di un tempo che si ripeteva e l’osteria del paese era il luogo dove rompere i silenzi protratti nel lungo dialogare interiore.
Una dimensione al limite e l’estrarre dall’infinito quotidiano accadere, l’essenza di ciò che era importante a sé e agli altri, con quella scala dei valori che costringeva la mente a ricordare il dove e il dito a percorrere l’atlante. Poteva sbattere le ali una farfalla in Tasmania e nel bicchiere di vino, ancora a mezzo, vedere i suoi cerchi muoversi. Oppure era il tuono che rotolava giù dal cielo e costringeva a rapide ricerche di riparo, a crearli, ma qualunque cosa fosse, c’era una gerarchia d’importanza nelle vite dove il desiderato dialogava con la necessità e l’accadere era insieme caso e spinta di volontà. In tutto questo essere oggetto e parte c’erano grandi spazi di libertà da riempire d’affetto, d’amore, d’impegno e di quieto essere in pace con sé. Per il nuovo che veniva e dal passato che mutava, confondendo entrambi la mente e l’agire ben oltre l’accadere.
Siamo memoria nel presente, pensò, e intuizione di ciò che ci riguarderà: una tavola in cui inscrivere lettere e colori che rimandavano ad altro e pian piano trovavano quiete e posto.
Esiste un orlo del tempo, una fretta che diventa creazione perché genera pensieri che dovrebbero essere continuati e allora attinge a risorse sconosciute, le allinea, cerca di mandarle a mente, le rimanda con il senso della perdita che non sarà colmata perché nulla si ripete davvero nei nostri circuiti di senso, ma intanto altro, interrompe e porta via. Resta un alone che ricorda, sarà dissolto dalla creazione, che è furore e nostalgia.
La ricerca di dominare ciò che è un protendersi nell’ignoto e trarne un immediato senso è solo un capo del refe tessuto d’ illusione: è il filo che tenendo assieme genera il senso e il nuovo.
Così esiste una calma che non è noia, né bonaccia, è l’intromettersi di pensieri che salgono e sconfiggono il rettiliano che vorrebbe tutto e subito. Riportano, i pensieri, in una sospensione del capire della superficie, persino l’intuizione sospendono. Ed è un dialogo tra il dentro e fuori che nei momenti di mirabile equilibrio è meditazione. Nulla urge, nulla va perduto, tutto è labile per sua natura e come il capire si deposita e permette di pensare senza farlo. Vedersi.
In quell’attività dell’anima, ch’è guardarsi nello specchio oltre ciò che ad altri può essere utile, vedo segni del tempo, un lampeggiare d’occhi, tratti che riconosco, e allora indugio nei pensieri, che resistenti, han modellato solchi, tracciato mappe: percorsi ch’io seguo e ricordo. Ma anche il nuovo vedo e non sempre è facile o benevolo, è ciò che trattengo che mi ha segnato? E come lasciare ch’esso si liberi e corrisponda non a ciò che è stato ma a ciò che vorrebbe essere?
Chi mi vede, scivola su tutto questo, chissà che cerca, mentre anch’io mostro la vanità d’esser un po’ sopra il ripiegar la schiena, e tengo per me, e per pochi altri davvero, il senso di quelle strade che costante indago. Di tanti anni, ed errori, m’è riuscito il riconoscermi (il ricordo è così mutevole e creativo), mentre a dire ciò ch’è accaduto, solo i segni restano oggettivi.
Forse è questo che rende contento il sapere che una mano ancora lasci impronte di calore sulla mia. Andare, mentre mi guardo, andare in scelta o solitaria compagnia, andare restando qui, in cerca di me stesso.
Scendeva per il bosco. Non c’era neve, solo sassi, qualche pozza ghiacciata, erba bruna. Dagli alberi pendevano foglie cotte dal gelo, piccoli rami ghiacciati, il muschio avvolgeva i tronchi a nord, verde brillante, insensibile alla stagione. Dopo il bivio che portava al paese, avevano tracciato un sentiero nuovo, largo e limitato da filo spinato lucido, recente. Un tempo quel sentiero era limitato da alberi, in gran parte faggi e qualche abete nero, non si vedevano più e il sentiero era servito per trasportarli a valle ed evitare gli sconfinamenti nelle proprietà da parte dei perditempo che camminavano anziché lavorare. In una piccola radura c’era un roccolo ormai semidistrutto dalla stagione. I rami di abete e i tralci di faggio pendevano e non mascheravano più nulla mentre uccelli si posavano sul tetto sconnesso. Sorrise. Alla fine natura omnia vincit, già da qualche anno i lupi erano tornati nei boschi e transitavano in piccoli branchi nella corona di altopiani che corre dall’Adige a Tagliamento e poi proseguivano nelle alpi carniche e giulie. Forse erano venuti da lì, sloveni i croati, ma di certo si erano trovati bene perché crescevano di numero e d’inverno si spingevano tra le stalle o nelle ultime case. Attaccavano un asino o un vitello, quando non si cibavano dei piccoli animali da corsa e da tana del bosco, poi sparivano, sollevando le proteste degli allevatori, albergatori, cacciatori che oltre al rimborso regionale volevano un diritto di caccia e se possibile di eradicazione, ma tra le proteste degli animalisti e i rinvii, il tema non doveva essere così urgente perché passava di stagione in stagione.
Scendendo per il sentiero, pensava ai cacciatori di Brueghel, al loro paesaggio livido, dove la neve contrastava gli ultimi bagliori di luce e impediva alla notte di avvolgere i pendii. La notte era regina del bosco, innevato e ricco di trappole, ma i cacciatori ne erano fuori e con i cani formavano un corteo che scendeva verso case calde, camini fumanti, polente che cuocevano nei paioli. Le prede da spiedo avrebbero spento il selvatico appese al trave vicino alla porta, festa per altri giorni ma intanto, c’era una allegria stanca, impacciata nei muscoli. Qualcosa da mostrare e da dimostrare. Pensava all’anno trascorso, il più caldo nella labile memoria umana, che già disorientava le piante e gli animali, in questo mese avrebbe dovuto stare molto più attento a non scivolare e invece c’erano solo piccoli tratti ghiacciati e qualche sasso infido. Mi servirà un ginocchio nuovo. Pensava. Quello che aveva faceva male a ogni passo ma di quel dolore che è puntura acuta che subito si spegne e non si somma sino a rendere impossibile procedere. Sarebbe stato peggio con la neve, ma sarebbe stato bellissimo vedere che copriva tutto, che ingentiliva il taglio dissennato del bosco ormai ricco di varchi e sarebbero scomparse le lordure dei turisti senza sesto, sarebbero rimaste solo le sue impronte e prima quelle degli animali. Le più gentili degli uccelli da nido, quelle dei cani, delle lepri, delle volpi, di qualche capriolo o addirittura di un cervo che scappato dal Cansiglio, cercava nuovo pascolo. Sarebbe stato più difficile camminare, ma avrebbe reso compatibili le case nuove che continuavano a costruire e si allineavano pretenziose di legni e di poggioli vista bosco, pronte ad essere acquistate e poi arredate e abitate per poco tempo. Come un capriccio, destinate a passare di mano in mano e poi a decadere come accade per carenza di manutenzione e di amore.
Natura omnia vincit, bastava aspettare e intanto scendere guardando dove mettere gli scarponi.