









Forse un improvviso freddo oppure un sogno fastidioso che non vuole finire, così si aprono gli occhi in un buio che non è mai tale. Ci sono piccole spie luminose, un allarme che occhieggia, eppure il buio scivola dentro. Il cuore è tranquillo, non i pensieri che sembrano enumerare le paure. Restare a letto è una pena se il sonno non arriva, meglio alzarsi, leggere un poco, guardare fuori dalla finestra verso oriente in cerca della luce. Nelle case ci sono luci accese. Qualcuna. Chi starà vegliando? Viene da pensare a qualche difficoltà, oppure a insonnie feroci. Tra le tre e le quattro è l’ora di chi vive di eccezioni. Quando prendevo spesso aerei diretti ad est era l’ora in cui un taxi mi attendeva per portarmi all’aeroporto oppure per riportarmi a casa. Il profumo del primo caffè era parte del rito di alzare il bavero e stringere la valigia, poi la porta da chiudere e le scale da scendere piano mentre la casa dormiva. Non c’erano i pensieri del risveglio insonne, era un lasciare temporaneo verso un luogo attendeva, con una giornata che già prendeva forma.
C’è sempre fresco di notte. Dalla finestra aperta entrano rumori e profumi di fiori estenuati dalla lunga estate. Si stanno preparando per l’ultima fioritura le rose, l’ibisco è impavido e nel buio si vede il punteggiare di fiori bianchi e viola. Divago per quietare i timori, per non ascoltare. Cos’è la quiete, il posare tranquillo che si abbandona alla fiducia? Non vedere quello che si accumula attorno. Guardo le nuvole tra le stelle, variazioni tra il nero e il blu, nella luce della casa di fronte si è acceso un televisore, lampeggia una luce bluastra. La frequenza di refresh indica che non è un apparecchio recente, si può intuire l’età di chi guarda. Prendo un libro e una coperta, mi siedo in poltrona e la luce illumina la pagina. Divago, raccolgo un pensiero, proseguo guardando verso le cose che conosco.
Il tempo passa, sono completamente sveglio. Condividevo con mia Nonna questo modo strano di trattare il sonno, sempre tardi, a volte poco. Come allora potrei uscire, fare fotografie di notte alle piazze vuote e ai lampioni. Lo facevo fino al primo bar delle cinque e mezza. Poi parlare con il barista che scaldava la macchina per il caffè, attendere il vassoio delle brioches calde di pasticceria. C’era un panificio che non chiudeva mai, serranda mezza alzata e profumo di pane e di focaccia calda, ci si arrivava con bisogni diversi. Chi in preda alla fame chimica, chi reduce da qualche festa che si era spenta anzitempo e mutata in malinconia, chi non voleva tornare a casa, chi andava a lavorare. Mille ragioni per una consolazione nell’alba che già era sole e luce, poi si sarebbe tornati da qualche parte con quel sapore che era tregua nel tempo proprio. Hanno chiuso da anni quel posto, avrebbe dovuto finanziarlo il comune. Era un presidio sociale, un luogo per raccogliere le vite diverse.
Torno a guardare verso oriente, sembra che il chiarore inizi a farsi strada. La luce rasserena, mantiene le promesse, potrei aspettare il sorgere del sole e fotografare la basilica che si arrossa di luce. L’ho fatto troppe volte. Meglio leggere un po’ a letto, prima del primo tram, prima del vociare smorzato che porta con sé il giorno. Verrà anche il sonno e i sogni del mattino, quelli che si ricordano e ci ricordano chi siamo.









