tra le tre e le quattro

buon compleanno nonno Antonio

17 agosto 1917

25 maggio

la casa

28 giugno 1914, a casa…

Il 28 giugno 1914 è domenica. Mio nonno e la sua famiglia abitano a Karlsruhe. Il nonno e’ un giovane uomo, ha bei baffi neri e folti, capelli neri. Lo sguardo è fermo, deciso, con una tenerezza particolare negli occhi. Sua moglie è piccola, magra, dolce e bella, hanno due bambini, entrambi nati in Germania, uno è nato da poco, è mio padre, la sua sorellina ha due anni. E’ una famiglia felice, stanno bene economicamente, hanno una bella casa, il nonno ha un lavoro autonomo. Guardiamolo un po’ meglio. Ha da poco superato i trent’anni, ma ha molta vita sulle spalle, come accade al suo tempo, decisioni e indipendenza, tutto presto. Lui e i suoi fratelli sono emigrati pur avendo un lavoro e un piccolo patrimonio nel paese dove, da sempre, la famiglia ha vissuto. Con loro sono emigrate anche le sorelle. Sono passati per la Svizzera, fermandosi due anni assieme e poi si sono separati. Chi è rimasto in Svizzera, chi è andato in Francia, lui ha scelto di andare in Germania con la moglie, che l’ha seguito sin dal primo momento. Sono sposati da pochi anni. Lavora molto, il Toni, ma è contento di quel paese da poco unito in cui si è fermato. Pensa di stare il tempo necessario per accumulare un buon gruzzolo e poi tornare a gestire la locanda di famiglia, l’appalto dei tabacchi, rimettendo in ordine le case, i campi, e comprandone degli altri. Non è un contadino, nessuno lo è mai stato in famiglia, i terreni servono per la locanda e per l’osteria, per fare vino, un po’ di granturco, ortaggi e mandorle. Abitare sui colli non è facile in quei tempi, dopo l’unità d’ Italia, il Veneto si è ulteriormente impoverito, per questo sono emigrati.

Di Sarajevo non sa ancora nulla, lo saprà il giorno successivo. Immagino che ne avrà parlato con la nonna, accennando al fatto di sangue che riguarda un impero vicino, ma senza calcare la voce per non preoccuparla troppo. Le avrà detto che per loro non cambiava niente, che sarebbero rimasti nella loro casa di città, con i nuovi agi acquisiti e che queste vicende, loro, le hanno già vedute. Non si ricorda, la nonna, dell’uccisione di re Umberto a Monza, e dello zar in Russia? E cos’era accaduto? Nulla. E poi la Serbia, chissà dov’è. Un Paese di pecorai, come il Montenegro, il regno da cui viene la regina. Tutto lontano. L’Italia è alleata della Germania e dell’Austria, cosa può venirne a loro? Nulla. Hanno anche preso gli attentatori, quindi ci sarà il processo, la condanna e poi basta.

Venivano da anni prosperi e felici, erano persone normali e un po’ speciali, avevano coraggio: il futuro sarebbe stato positivo. Nei mesi successivi, già alla fine di luglio, le cose cominciarono, invece, a precipitare. All’inizio non capivano, L’Italia era ancora alleata ma non entrava in guerra. E gli italiani cominciarono a non essere più graditi. anche il lavoro era diventato più difficile, così, penso, che si fecero una ragione quando furono costretti a rimpatriare. Con due bambini piccoli, vendendo il vendibile, ritirando i risparmi. Partirono con le sole valigie, fatti salire su un treno che riattraversò la Svizzera. Questa volta non si fermarono, ma sarebbe stato meglio. Chissà cosa pensò mio nonno, probabilmente non aveva voglia di ricominciare subito e i marchi oro e le sterline erano abbastanza per tentare un’attività al paese. Poi, in realtà, non ricominciò nulla di definitivo e quei soldi consentirono a mia nonna di essere indipendente fino al 1920. Così tornarono e dopo pochi mesi, il nonno fu chiamato alle armi, per chiudere la sua vita in una dolina oltre il san Michele, nel ’17. Era una persona pacifica, non aveva voglia di guerra, ma qualcun altro l’aveva attirato in una trappola del presente. Quel presente che non ha futuro quando le cose vengono spinte troppo da chi non ci pensa, anzi lo vuole determinare il futuro mettendoci la volontà di onnipotenza. Mio nonno invece pensava, e sapeva, che il futuro si costruisce con la giusta lentezza, ma lui era solo maggioranza. Non contava poi così tanto. Così fu uno dei 12 milioni di morti soldati. E la bimba fu uno dei 5 milioni di morti civili, morì di spagnola nel ’19. La nonna fece il possibile, anzi molto di più. Non si curò del patrimonio, seguì i figli e poi mio padre. C’era un posto per il dolore e uno per la vita? Lei fuse tutto e conservò di mio nonno il ricordo di un uomo giovane, dolce e deciso. Ne parlava, e le poche volte che questo ricordo doloroso oltrepassava le labbra, era con grande tenerezza. Lei, che non si era più risposata, che aveva affrontato e ricostruito la vita dopo la dissoluzione di ciò che aveva e dei legami con i parenti. Da come l’ho conosciuta, e l’ho conosciuta e amata molto, non le importò mai delle cose perdute, non ne parlava, ma delle persone sì. Era attenta agli affetti rimasti e al nonno, del resto s’era liberata con noncuranza.

E’ il 28 giugno, è domenica, la famiglia è riunita per la cena. Dalle finestre aperte entra il caldo già estivo, le voci un po’ strane della strada, la brezza della sera. Forse mio padre piagnucola o forse dorme, la bimba gioca. Magari c’è un po’ di nostalgia, ma il futuro è pieno di tenerezza come il presente. Lontano è successo qualcosa che li riguarderà, però non lo sanno e non toglie I sorrisi. Anzi credo che mia nonna non abbia mai ben collegato le cose e forse è stato bene. Lasciamoli così in una piccola, grande felicità, in una domenica di giugno di cento nove anni fa.

camminare la vigilia

Ogni giorno correvo verso i giochi, anch’essi fatti di corse, cadute, polvere e rincorse. Ogni mattina camminavo, mia Nonna mi accompagnava a scuola e d’estate dove si poteva correre. Ai giardini o nelle piazze di sera, con lei, mano nella mano potevo andare ovunque.
La sua mano era bella, appena più grande della mia. Era fragile e tenace, regalava la sicurezza e ciò che mi era necessario.
Con mia Nonna ho imparato a camminare, ad amare il cammino come modalità del vedere e del sentire. Molte volte all’anno il camminare assieme diventava speciale e due di queste erano consegnate alla sua religiosità, le vigilie di Natale e di Pasqua che avevano itinerari fissati e duravano l’intero pomeriggio.
La vigilia di Natale si andava a vedere i presepi, la vigilia di Pasqua erano i Sepolcri i protagonisti. Mia nonna aveva abitato sempre dentro le mura cittadine, e le Chiese erano quelle storiche della città, con qualche digressione per luoghi che ho imparato ad amare con lei.
Le chiese erano grandi, spesso altissime ma tutte particolarmente buie, gli altari coperti di panni violacei sembravano tolti all’esistere, solo al centro della navata o in una cappella importante, era tracciata una grande croce a terra fatta di candele e fiori. Le persone si inginocchiavano, alcuni sostavano a lungo, altri un segno di croce e qualcosa mormorato a fior di labbra.
Mia Nonna sostava poco, guardava e io facevo lo stesso, confrontando mentalmente quello che vedevo con la cura di altri Sepolcri già visti. Non riuscivo a collegarli al racconto della Passione che avevo ascoltato il giovedì, le mie preghiere erano quelle di un bambino e in latino, imparate perché in quei luoghi si dovevano usare.
L’altare dove andava mia Nonna era quello della Madonna, lì si fermava e accendeva un cero. Le donne di casa avevano una particolare devozione per la Madonna, credo la sentissero una persona con cui si poteva parlare e che capiva sia i problemi da risolvere che la loro condizione. Una vicinanza che era confidenza, da Lei poteva venire consiglio e comprensione.
Ho visto, da adulto, che accadeva lo stesso in altre donne e non importava in cosa credessero ma il rapporto con la Madonna c’era ed era tanto più forte quanto più era appartato. Un bisogno di confidenza e una certezza di ascolto.


Mia Nonna non aveva avuto una vita facile, ma l’ho sempre sentita serena e amorosa, con me in particolare, nei giorni della Pasqua qualche parente veniva a trovarci e lei ne era felice.
Ne parlavamo camminando, di solito era già arrivato a casa e il giorno dopo avremmo pranzato assieme, ma quel parlarci era fatto dalle mie domande e dalle sue risposte che spesso erano memorie. Tempi che risalivano verso l’inizio del secolo e oltre, storie di casa e poi di migrazione, di un abitare distanti, tra lingue sconosciute in bocca a persone come noi, solo che questi uomini e donne avevano il potere di accettare o rifiutare chi arrivava per abitare e lavorare. Un potere immenso perché essere rifiutato implica a una solitudine e un timore ancora più grande e allora serviva coraggio, silenzio e dignità e lei e il nonno ne avevano ben più che a sufficienza per farsi rispettare. Le chiese erano i luoghi comuni, la lingua era il latino, le immagini dei santi, della Madonna, del Cristo, le stesse, li si poteva andare senza timore. Mia Nonna l’ho conosciuta così sin da piccolo: coraggiosa e fiera della sua libertà, con una vita difficile che non faceva pesare su nessuno e che aveva trasformato in amore per mio Padre e per me.


Il nostro giro continuava nel pomeriggio della vigilia, che riempiva le strade. Le vetrine sfavillavano di carte colorate, di uova di cioccolata, di focacce piene di mandorle e anche chi vendeva abiti o scarpe per la nuova stagione aveva uova in vetrina. Noi entravamo ed uscivamo dalle grandi chiese, dall’oscurità alla luce, finché queste si equilibravano e si accendevano i primi lampioni. Allora era tempo di tornare, un dolcetto per me e le caramelle al latte e i pescetti di liquerizia da mettere in un cartoccio in tasca ed estrarre per gustarlo e succhiare piano.
La sera, a casa, avrebbero cotto e colorato le uova con il caffè o con altri misteriosi colori pastello, servivano per il mattino seguente e per chi veniva in visita. Da qualche parte un uovo con sorpresa mi aspettava per il pranzo del giorno dopo, la cena già aveva novità in tavola e i discorsi leggeri della festa, poi a letto, sentivo le donne di casa che andavano alla messa di mezzanotte. Ogni volta mi ripromettevo di attendere sveglio per chiedere cosa c’era di speciale da vegliare così a lungo, ma ogni volta m’addormentavo e mi svegliavo nella festa.

padri e papà

Alle 11 già si prendeva il numero e c’era la fila fuori della porta. Alle 12.30 era finito il dolce speciale per la festa del papà, una torta con ripieno di nocciole e cioccolato con un bel 19 sopra. E pure le focacce con le mandorle e la granella di zucchero, evocatrici di prati e scampagnate, erano finite. Oltre al profumo di zucchero che veniva dal laboratorio, restavano le commesse stanche e pochi altri dolci bellissimi, ma di ripiego. Insomma la razzia si era consumata e adesso nelle case, con le prime finestre socchiuse, ci si apprestava al pranzo con quel qualcosa in più che valeva a significare cose differenti. Alla fine, credo, fossero i bimbi a percepire qualcosa di festoso. I padri sorridevano, le madri apparecchiavano più o meno come al solito, ma in più c’era quell’evocare un ruolo, una particolarità che apparteneva ai maschi della famiglia. Eh, sì perché se uno non era padre, un padre l’aveva pur avuto e tra i nonni e i figli c’era un’intesa verso i nipoti che trasmetteva qualcosa che doveva pur continuare. Tutto questo era generato da una festa commerciale, che aiutava il pil cioccolatiero, e magari induceva a qualche dono tra compagni di vita, ma che aveva la sua maggiore rilevanza dal basso verso l’alto ovvero dalle figlie e figli verso quei padri più o meno anziani che erano ben inscritti nei codici delle vite vissute.

Nel bene e nel male.

Forse proprio in questo ricapitolare ciò che c’era e ciò ch’era mancato si trovava il senso di quella paternità esercitata e ricevuta. Tutti noi siamo figli di un equilibrio di identità, o meglio del suo disequilibrio e la gratitudine portata ai padri è la stessa che portiamo alle madri. Però differente. Nel senso che dal padre ci si aspetta un bene sconfinato e una protezione che si aggiunga ed integri quella della madre. Ci si attende che ci sia quando non si ha voglia di parlare ma la sofferenza emerge. Lo si vorrebbe interlocutore e accogliente, non giudicante e portatore di risposte. Servirebbe sicuro, fermo, amorevole. Poi ciascuno nel fare il padre dà quello che ha, ci sono padri avari e padri inutilmente prodighi, né agli uni né agli altri viene chiesto dai figli, se non di essere capiti e amati. Anche chi ha le migliori intenzioni quasi sempre travasa ciò che gli è mancato, i suoi luoghi comuni, i concetti che hanno informato la sua vita. E sbaglia, ma per fortuna le capacità di autocorrezione dei figli sono molto elevate, e se non si risparmia loro la sofferenza del non essere capiti e accompagnati in quello che potrebbero esprimere, alla fine, anche attraverso la ribellione, l’equilibrio questi lo trovano.

Però oggi c’è un fenomeno che dilaga, quello dei padri che ci sono, ma lasciano alle madri il compito di reggere l’intero edificio familiare. Padri che abbandonano, che non pagano gli alimenti, che si pensano in una eterna giovinezza fatta più di sfarfallamenti che della costruzione di futuri comuni. Credo che di questo si parli troppo poco, che le madri dopo una separazione abbiano pesi ineguali ed eccessivi se il padre diventa evanescente. Il divorzio o la separazione sanciscono la fine di un rapporto tra adulti, ma non con i figli. E si dà per scontato che le cose si aggiustino con il diritto di famiglia o con i rapporti patrimoniali, invece dopo una rottura trovare un padre adeguato è un processo di educazione del maschio che nessuno gli ha insegnato. Si parla molto più, e con scandalo, delle paternità in coppie dello stesso sesso, dove i figli sono scelti e comunque partono con una grande dote d’amore, piuttosto che del fenomeno dei padri assenti. Nell’educazione del maschio dovrebbe esserci pure una educazione ai rapporti affettivi che comprenda la paternità, e di come esercitarla in tutte le situazioni che la vita mette in campo, invece si preferisce darla per scontata. Soprattutto non si dovrebbe lasciare ai figli il compito di sopperire a ciò che manca in termini educativi, di cercare altri padri, di fare da padre a chi li ha generati. Ma questi sono pensieri scontati, che peròe non cambiano le relazioni, non si impongono con norme, non sono educazione all’affettività e alla responsabilità.

Non credo che il 19 marzo serva a questo, però tutti abbiamo avuto un padre che ha intersecato non poco le nostre vite. Sono tra i fortunati che lo hanno sentito tale, anche se quando sarebbe stata l’ora di parlare tra uomini non c’era più. Però c’è stato e c’è ancora, e tutti quei discorsi che non abbiamo potuto fare, li facciamo in silenzio. Oggi gli sarebbe piaciuto il dolce, avrebbe sorriso, e poi avremmo parlato di politica o di calcio, tra uomini. Ma non per la festa inventata per far vendere torte e regali, ma perché tra padri e figli ci si intende se si è compagni di viaggio e questo viaggio non finisce che con noi. Come il bene.

polvere come talco e ferro

Le scarpe hanno ancora la polvere del Carso. Rossa, fine come talco, si è fissata sulla punta che aveva sopportato la pioggia. Ricordano l’Africa questi luoghi dove tutto è antico e stravolto da una guerra che non si sarebbe dovuta combattere. E la roccia è un carbonato finissimo dilavato dalle piogge e rappreso in forre, cavità e pozzi, grotte scavate dall’acqua, doline. La terra si genera con questo minerale che si mischia con le parti organiche e diviene terreno arduo ma generoso di umori, con un vino, il terrano, che è minerale anch’esso. Ricco di tannino e da diluire con la carne da brace. Doline, verde fatto di quercioli e di miriadi di altre specie vegetali con rami forti e legno denso.

Percorrere un sentiero è mettere i passi nella storia di confine. Tomizza abitava a due passi da qui e davvero la vita eterna si sente in questi luoghi, eppure qui si è combattuto tanto aspramente e inutilmente che il terreno sembra rosso per il ferro che è disseminato ovunque ma soprattutto per il sangue di centinaia di migliaia di vite giovani stroncate. Contadini contro contadini, di tutta Europa che avrebbero potuto costruirla quella nazione unica, fatta di fatiche, di migrazioni interne, di terreni dissodati con fatica e di capolavori, di genio, di inventiva, di lingue che non si fondono se non nel canto. Avrebbero potuto costruirla cento e più anni fa, mettendo assieme i calli delle mani, le pance vuote, il rimpianto dei luoghi abbandonati, le pietre accatastate nei muretti a secco o cementati nella malta in case dai muri grossi come fortilizi e incentrate in un camino dove la vita si alimentava e resisteva alla bora, al freddo e alla neve che d’inverno non si cura delle previsioni del tempo. Avrebbero potuto costruirla nella differenza l’Europa, nell’apprendere la lingua dell’altro, come fanno i bambini per gioco, nel mescolare le tradizioni e le identità per tenersi le vecchie ed averne di nuove. Andare avanti così, con un piede che spinge la vanga tra sassi e terra rossa e l’altro pronto a camminare per andare e poi tornare in ciascuna piccola patria. Una nazione che sapesse la precarietà di cosa c’è sotto il terreno che sostiene la vite, da sapore al cavolo che poi verrà fatto fermentare, che distilla l’acqua come fa l’alambicco che gocciola alcool e sapore nelle grappe uguali e diverse dappertutto. Avrebbero potuto fare un’Europa di uomini e donne, usi alla fatica e alla bellezza, gente forte, orgogliosa di essere ciò che è, diffidente e pronta ad aiutare una povertà. Costruire una nazione dove secondo le leggi dell’abate Mendel, il colore degli occhi si sarebbe mescolato e poi sarebbe tornato a risplendere, i visi addolciti e ben segnati nei lineamenti, le mani e le altezze dei corpi sarebbero stati il ricordo , assieme alle lingue, ai mille diversi significati di ogni etimo, che quei luoghi erano un unico luogo di tante patrie e di tante genti, ma unite dallo stesso amore per la terra, per la bellezza, per lo spirito immortale che porta con sé ogni fluire di abitudine inveterata.

Le case sono basse, senza la pretesa di sfidare il cielo, utili alla vita quotidiana, custodi di calore, affetti, pensieri, assieme al grano, all’orzo, agli animali e le verdure che sono una appendice del sapere che si trasmette piallando un’asse, sagomando una trave con l’ascia, costruendo un mobile con il noce vecchio, ché quello nuovo ha ammucchiato frutti carnosi in sacchi sufficienti per i dolci invernali. E poi mele da inverno, nocciole, mandorle, rami di cumino da far penzolare dai travi, fagioli e piselli secchi per zuppe forti da mescolare con le verze dell’orto. Case, la terra difficile, le doline, i sentieri che ora si percorrono per il piacere di essere sempre nel verde, mentre da non molto lontano arriva il salmastro del mare che a volte la bora scava e getta in aria come stesse giocando sulla sua spiaggia, dove gli uomini non osano andare. Case basse, chiese senza grandi pretese, un crocefisso, pochi santi e la devozione, forte anch’essa, che chiede serenità e lavoro pacifico da accumulare negli anni.

Poteva essere Europa, anzitempo e invece, guidati da ordini incomprensibili, contadini hanno condiviso la terra e il sangue con altri contadini. Qui si legge la differenza tra città e campagna, tra le diverse fatiche e il diverso pensare le vite. Gli ideali sono spesso così radicati da restare al limite della diffidenza se c’è l’antica legge per cui lo straniero non è veramente tale perché prima è uomo. Ma dove questi pensieri semplici diventano potere, possesso, necessità senza limite, allora tutto si frange e la terra si spoglia d’alberi e si riempie di lampi e di morte. Le pietre costruiscono trincee, i muri delle case vengono sbriciolati e pongono la vita eterna dei luoghi e delle persone in tane da intridere di sangue. Ordini urlati, reticolati, scoppi di granate e neppure il mare si sentiva più.

Poteva essere Europa, ora è un luogo bello in cui le persone ricordano nei cippi, nei cimiteri, nel rumore che fa la vanga quando incontra una grossa scheggia di ferro nell’orto, e si semina comunque, cresce la verdura l’insalata, i cavoli e i fagioli. Passano persone che camminano dove c’è stata una battaglia immane, ma non si vede nulla, dove sono morte 80.000 persone in pochi giorni. Solo verde, doline, quercioli e erba alta che il vento muove credendo sia il mare. Cammino e ho voglia di piangere, non lo so perché oppure lo so ma non è il caso di dirlo ad alta voce perché quel nodo che s’aggroviglia è il futuro.

Poteva essere Europa. Potrebbe essere Europa.

dopo il 25 aprile

Posted on willyco.blog 25 aprile 2021

Spesso parlava di quegli anni che mescolavano polvere, eroi e vili. Parlava di freddo senza tregua e di notti brevissime costellate di fughe e fatiche. Parlava e taceva, perché ciò che emergeva non era solo una gioventù consumata tra guerre, precarietà, richiami e coercizione, ma anche idee da esprimere a mezza voce, ceffoni presi e accettati, paure e vita con sogni normali in un ambiente che li contraddiceva. Poi c’era stata la liberazione, la fatica delle macerie da recuperare in qualcosa che serviva e ancora l’abbandono di ciò che non era più esigibile. Realista a tal punto da contare sul presente per avere un futuro. E ascoltare le voci forti degli oratori che venivano per il referendum, le elezioni. Tutte cose su cui non aveva dubbi, come la ricorrenza del 25 aprile, che era una consolazione per ciò che non era avvenuto, per le promesse mancate, per il tempo che passava senza migliorare le condizioni di chi aveva lottato e di cui si parlava tornando verso casa. Per sperare e per vivere la vita di chi amava e sua con i giusti sogni. Una casa in subaffitto visto che l’altra era un mucchio di sassi, malta e mattoni sbriciolati. Una casa che bisognava riscaldare d’inverno e tenere pulita, una casa in cui doveva esserci profumo di cibo a mezzogiorno e sera e il caffè la mattina. Per questo andava distante, rinunciava, sperava e faceva un altro figlio. Perché la speranza era in ciò che credeva possibile e il possibile passava attraverso le sue mani, la sua fatica, le sue idee che ora poteva dire ad alta voce. Qualche domenica pomeriggio, ma erano rare occasioni, nella sede del partito si ballava. Era un palazzo storico della città vecchia, la strada dell’antico decumano, lui non lo sapeva e forse poco gli importava considerate le troppe città viste, il mondo assaggiato per forza. Andava con sottobraccio la sua donna, il vestito buono di lana inglese e il bambino tenuto per mano con la promessa di un gelato o di un dolce per dopo. Era domenica o il 25 aprile, comunque era festa e il lunedì o qualsiasi altro giorno avrebbe avuto altri abiti, molta fatica e spesso una distanza poco sopportabile da casa. Nulla di eroico, malinconie serali per chi ritorna e attesa, più difficile era stato prima. Nella guerra. A lungo, E prima per tutta la dittatura, per il tempo in cui non si poteva essere chi si era e anche la vicinanza con un sovversivo riconosciuto era un sospetto permanente. La fonte di domande, il vincolo di essere reticente per lui, così chiaro e semplice nel dire ciò che pensava. Ora era difficile, tante illusioni si erano perdute assieme a una giovinezza mancata. Come tanti altri. Ma c’era il presente e si poteva dire ciò che non andava bene e questo apriva la porta al futuro. Stessa fatica di prima, però diversa e nuova. E quei figli avrebbero avuto la libertà che a lui era mancata.

giorni mai eguali

Il garofano, il tulipano, i tralci, l’azzurro ovunque, il profumo di maggio dalla finestra aperta, ma questo era il sogno di stanotte. Oggi il cielo era grigio. si attende la neve, intanto è arrivata una pioggia sporca che bagna appena le crepe del cemento, riga l’asfalto e aspetta che si aprano gli ombrelli perché le persone si stringano un poco.

Una festa non genera né conserva l’amore che non c’è, allora bisogna cercarlo se esiste in noi, se le mani che mostriamo sono adatte alle carezze. Davanti alla porta dei nostri pensieri c’è qualcuno che attende? Ecco, il senso di tanto cercare, di tante sicurezze, è quell’amore di cui non è lecito parlare e che ci conosce. Noi siamo noti a lui, non è vero il contrario e ciò che portiamo attorno come una conquista reciproca è l’incontro che la forte determinazione del caso ci ha regalato. Ma eravamo predisposti, attendevamo entrambi che ci fosse qualcosa di nuovo, un generatore di palpiti, di occhi aperti nel buio, di indecisioni, di entusiasmi sconosciuti.

Dare forma a tutto questo, farne un progetto di vita e riempirlo di errori, di deviazioni, di slanci e di storia, restando noi diversi. Incredibilmente e definitivamente diversi è una avventatezza che solo ciò che non risponde a regole può dare. Forse esiste uno spirito dei Valentini, di ciò che è evoluto e che non è ricordo, non è vita stata, ma un corpo che è cambiato per esso, per quell’amore che non si chiede e si propone, lui, alla vita: prendere o lasciare. Quello abbiamo, se vogliamo, se apriamo la porta .

Che faremmo senza il romanticismo? Essere comunisti un tempo, era romantico. Si poteva sacrificare molto senza pensare all’utile personale. In quest’epoca i comunisti non ci sono più e muoiono i romanticismi, si concentra sull’io, sull’affermazione di esso, la vita. Eppure l’amore resiste e di diffonde, incurante di quello che accade, a mutare le vite. E la vita è quella che tu hai donato a me, senza l’amore sarei stato uno sbandato tra le pile accumulate dei libri senza ordine, spinto in mezzo a persone animate da sentimenti diversi, a chiedermi qual è il filo ed io chi sono. Poi è accaduto qualcosa di diverso dall’atteso, così ne è nato un ordine/disordine. Ciò che portavi hanno spinto le parti comuni a mettere assieme un ordine profondo e segreto. Nell’amore ci sono segreti in troviamo il nostro senso profondo e parti che non mostriamo se non in una intimità assoluta. Potrebbe bastare per segnare definitivamente le pagine di un’agenda e invece, scrive, ah come scrive e vuole scrivere quest’amore che non esaurisce il sentire.