Scendiamo per prati innevati, la luce è azzurra di freddo e di sera. Oltre il bosco, verso occidente, il tramonto arrossa le nubi e scrive la linea dei monti. Come nel ritorno dalla caccia di Jan Brueghel, torniamo, stagliati sulla neve che riflette un grigio chiarore. Le case sparse hanno i camini che fumano. La sera è meno triste se si ha un posto dove andare. Non distante c’è il ribollire delle luci della piccola città, il corso, la piazza, i negozi pieni di persone, i saluti, i discorsi vacui e leggeri. Bollicine nell’aria e nei bicchieri. Colori accesi e soprabiti imbottiti di piume. Scendiamo a lato, al limite delle luci e delle auto. Guardando verso Orione si dovrebbe vedere una cometa, ma è la luna, grande e piena a dominare il cielo. C’è un freddo che non si placa, ottunde i pensieri, per questo i sogni tornano indietro e ripercorrono gli infiniti ritorni. Quelli nostri e quelli che sono diventati nostri nel vedere, leggere, raccontare. Ciò che si ripercorre è avvenuto e non può più far male. Qual è la differenza tra calma e quiete? Noi, io, che scendo sento la quiete che si fa strada nel muoversi, come se ciò che si è vissuto, oltre il suo carico emotivo, avesse distolto una paura. Quella del futuro, così prossimo da essere nei passi che si succedono. Non siamo calmi, siamo quieti. Per consapevolezza e per obiettivi vicini. Semplici. Accendere un fuoco, fare gesti consapevoli, ascoltare. Dentro una corda ben tesa, a volte per simpatia, risuona. Come animali entriamo nella notte, spinti dal silenzio che ci avvolge, da un grido di rapace, dal piccolo frangere del ghiaccio sotto i passi. Torniamo da una caccia che non c’è più, e neppure nessun successo, non c’è una preda da spennare e arrostire, un vino che ci arrossisca le guance e alzi il tono della voce e le risate. Noi siamo preda se usciamo da questa quiete che ci guida dentro la notte. Senza di essa cadremmo in una solitudine senz’ argini, in un cercare orgoglioso nelle tasche perché qualcosa da mostrare ci definisca: un sigaro, un portachiavi, un fazzoletto, un telefono. Qualsiasi cosa per dire che siamo noi e invece non lo siamo più.
Ieri c’era il sole limpido e rosso del pomeriggio e un vento di piccole raffiche fredde. Tra l’una e l’altra, l’illusione che si fosse quietata la lama gelida di tramontana. Gli abeti si scuotevano, i larici vibravano perdendo gli ultimi aghi. Immagino, osservassero i mucchi di rametti secchi e di aghi, che erano stati lasciati attorno ai tronchi e ora si disperdevano in colonne e mulinelli.
Di questo inverno strano e parco di neve s’aggirano attorno i ricordi di ciò che si è stati, e nel farlo poi ci si sconsola, attoniti per il risultato, come se il nuovo non si nascondesse nel ripetersi delle abitudini e dei gesti ma mutato, imprevedibile e meraviglioso nel suo risultato. Così pensavo, pasticciando il noi degli affini, augurandomi e desiderando per chi mi è vicino, sia l’abitudine con le sue certezze d’identità come il nuovo che essa produce.
Intanto infornavo il pane.
La sera precedente, c’era ancora luce, guardando dalla finestra, avevo impastato la farina, l’acqua, il lievito.. A lungo e a mio modo, senza la meticolosa minuzia degli appassionati panificatori del web, pensando piuttosto al fare beneaugurante del gesto. Al coincidere tra parola e sostanza che risiede in ciò che poi diverrà intimamente nostro. E non solo nostro perché sarà diviso con altri, l’aggettivo buono lo distaccherà da qualcosa di consueto perché sarà sempre diverso e il nuovo e il buono coincideranno più con la novità che col ricordo.
Cuocere il pane il primo giorno dell’anno e mangiarne nei giorni che seguono appartiene a una continuità che sento beneaugurante. E anche come lo si pensa, con la parola che diviene fare materiale mi sembra un gesto significativo.
Nella laica modalità dello stare assieme a pranzo ci si sceglie, ma è già un dopo l’aver preparato la mente e il desiderio di condividere, quindi non è il fare, ma il desiderio che unisce. Il cibo lo seguirà sapido, soddisfacente il corpo, oltre il necessario. Così la convivialità diviene eccezione e si distacca dagli innumeri pranzi e cene consumati per abitudine, ed è condividere lo stare assieme.
Per analogia il fare il pane il primo giorno dell’anno è per me, un fatto simbolico, che precede ciò che poi avverrà, una sorta di auspicio dell’essere assieme.
Fare il pane è sperimentare il senso del miracolo che avviene nel combinare che trasforma le cose. Mobilitare i lieviti, farli agire con le farine, aspettare i tempi e le temperature che li fanno prosperare, e lasciare che si esprimano nella semplicità del soffice e del bianco dentro un involucro di profumata croccantezza oppure dare un sapore ulteriore con l’olio o i semi. Tutto ha una sua bellezza e ogni volta sorprende.
Per questo mi piace fare il pane e ancor più il primo giorno dell’anno, magari non verrà qualcosa di memorabile, non sarà qualcosa da confrontare con quello del fornaio ma è il fare che continua e si rinnova in gesti antichi, conservando memoria di sé e restando buono per più giorni.
Ci si innamora anche delle metafore per sentire la vita che è sempre nuova e non si dimentica di interpellarci mentre continua.
Quasi tutti hanno gli occhi chiusi o altrove. La macchina fotografica è entrata nella casa, già ha modificato i rapporti tra l’apparire e l’essere. Atteggiarsi è più importante per dare misura dell’essere consoni al ruolo. Ognuna di queste persone ha una vita propria diversa. Siamo in Spagna, prima della grande guerra. L’interno è quello di una casa borghese, già si è superato il limite dell’affetto ottocentesco, il lei appartiene più ai genitori che ai figli. Il giovinotto segna il distacco pur mantenendo il legame. La posa, la camicia con il colletto rigido , il panciotto dal taglio elegante, lo fanno più adulto e un po’ zerbinotto. Ha già avuto le sue esperienze, i suoi amici lo attendono al caffè, è in apprendistato per il vivere. In Spagna ci sono i casini, i circoli dei borghesi, dei nobili, della caccia e via dicendo, ma fa fatica ad espandersi il cabaret, soprattutto in provincia. La ragazza si affida alla casa, ai genitori, le troveranno un marito, ma i suoi occhi diretti, gli unici che guardano l’obbiettivo, fanno presupporre un’ingenuità, mista a coraggio. Forse il marito lo proporrà lei, anzi il pensiero è già presente. Si esce di casa presto, per maritarsi e per riprodurre l’agiatezza da cui si proviene. Lo status è un contenitore in cui le vite si sviluppano, un incubatore. Sopra l’ottomana, simmetrici ci sono i ritratti dei nonni, probabilmente entrambi morti, sono numi tutelari del ricordo di ciò che si è. I genitori sono intorno ai quarantanni, forse più giovani considerata l’età dei ragazzi, ma già molto maturi entrambi, infagottati negli abiti che diventano corazza verso gli altri e verso se stessi. I mobili, la tappezzeria, l’ampiezza della stanza e le suppellettili, testimoniano una condizione agiata. Adesso possiamo chiederci quali pensieri si aggirano nelle teste, quanto il fotografo abbia celato nel mestiere e quanto abbia lasciato trasparire nelle pose, nella noncuranza del marito sul bracciolo, nel comporre un ritratto rassicurante, che si avvicina più a quella del pittore che a quello di chi ruba lo sguardo e il lampo di pensiero. C’è un’apparente calma e unità, ma avverto una tensione che diverge, ogni persona ha un obbiettivo proprio. Quella che sembra con meno futuro, ovvero con un presente solido da riprodurre, è la madre. E’ ancora nell’altro secolo e la figlia cerca in lei l’affetto, non lo specchio. I due uomini si stanno rincorrendo, il padre tiene a bada, ha un buon controllo della situazione familiare, il figlio avrà le libertà che lui deciderà. Complessivamente l’affetto circola, non sono assieme per caso, la fotografia deve testimoniare un’unità, un come eravamo che sia esemplare. Se ci riesca o meno poi ognuno è libero di pensarlo. Mi interessano i pensieri, li sento tutti diversi, l’unità è il vincolo familiare, ma le vite divaricano.
C’è un tempo in cui le promesse, le fanfaluche, le stesse parole vengono a noia, nel senso che non fanno più nessun effetto. Pensate se fosse festa tutto l’anno, dopo una settimana non si saprebbe più che fare, così emerge un bisogno di normalità che investe presente e futuro. Forse è la stanchezza di una realtà che è mistificazione e porta tutto sul presente e nel personale. Forse abbiamo cancellato troppo facilmente la sindemia da covid in un’ansia di scordare che ha abrogato i problemi che erano emersi con le paure del contagio e le convulse e parziali risposte che l’hanno accompagnato. Forse è la guerra in Ucraina e l’immane eccidio di Gaza che sembrano non riguardare e si riducono a un continuo rifornire e usare armi senza pensare che ci sono centinaia di migliaia di morti e nessuna trattativa per la pace. Forse sono i riti della politica che si ripetono, l’ eterno barcamenarsi del PD, le trasformazioni del M5S, il tramonto di Salvini che oltre a lagnarsi non dimostra alcun talento, la Meloni che diventa un gigante della destra che ama la famiglia, la sua, la fine patetica del berlusconismo, ecc ecc. Tutto annegato tra panettoni e povertà estreme. Ci si abitua a tutto e non è bene, perché il peggio dilaga. Ma anche questo è un lamento e non produce nulla, non cambia la realtà, che dipende troppo spesso da una lettera di assunzione o di licenziamento, che non muta la perenne perdita di speranza sull’Italia che riguarda i giovani e quelli che a 50 anni devono inventarsi un lavoro. C’è una progressiva disperazione che accompagna la povertà crescente, è un regalo della meritocrazia e del familismo che ha potere e denaro e quando non lo ha, prende a calci chi sta peggio. Ma chi si merita davvero di essere povero, di avere fame, di non avere cura né solidarietà? Invece pian piano si fa strada l’idea che chi non arriva ad avere successo ne porti anche la colpa e che il nemico sia chi ha ancora meno e accetta di tutto per non morire di fame. Di dignità si parla sempre meno, il lavoro come mezzo per avere realizzazione e vita dignitosa non esiste quasi più, ma si frammenta in piccole schegge di appartenenza sociale e poi di rifiuto reiterato della realtà. Nella meritocrazia c’è la competizione non la dignità che rende uguali in partenza e durante la corsa. Ci si accontenta duellando col vuoto di senso, di futuro, di presente, di patria. Casa or è dove si vive e fare lo sguattero a Londra o raccogliere mele in Australia dà una dimensione terribile dell’abbandono, della perdita di credibilità di un Paese verso i suoi giovani. Nessuno provvede davvero e non resta che competere. I poveri, i deboli, gli esclusi saranno oggetto di carità, se va bene, e la dignità si perde così, pian piano, nella consapevolezza che non siamo comunità ma individui. Terribile vero? Eppure è così e le distanze tra la speranza e la realtà si allungano, a questo dovrebbe pensare la politica, la sinistra in primis, ma anche chiunque pensi davvero che gli uomini valgano qualcosa. E non basta lo dica il Papa, dobbiamo dirlo noi che lo pensiamo. Anche nelle piazze che si affollano di senza partito e che esprimono questo bisogno di pulizia interiore, di solidarietà, non si percepisce che è festa tutto l’anno quando c’è un noi che difende l’io, quando ci si riconosce e si è contenti di farlo. Verranno uomini di buona volontà, sono sempre arrivati, per far rinascere nella giustizia sociale di cui tutti abbiamo bisogno. Speriamo arrivino in tempo perché mai come ora le minacce alla vita e alla libertà sono alte, perché la guerra si afferma come ipotesi concreta e folle, perché l’ambiente non attende per gustarsi alla vita. Speriamo e facciamo ciò che è possibile, la somma dei molti possibili delle buone volontà genera l’attuazione del sogno.
In questo nodo di festività che si concentrano intorno al Natale, ci sono difficoltà comuni che accomunano credenti e non credenti. Un disallineamento tra realtà e immaginario, tra visto e sentito che non di rado sfocia nella tristezza e nel desiderio che il periodo passi al più presto. Il peso delle ritualità, anche quelle che nascono per rifiuto o differenza rispetto al vuoto, accompagna un senso di privazione di qualcosa non ben identificato. E questo riceve molte risposte, ma il come uscirne non è un ridisegno ma una fuga. Leggevo uno scritto sull’indifferenza e di come essa sia difficile da raggiungere dopo un sentimento provato, in particolare quando chi ha generato la rottura con un prima, sia presente. Non c’è una invisibilità perché la nostra storia è in noi e continua a produrre, anche se è altro da ciò che veniva suscitato prima. Si reagisce o si subisce e questo avviene anche per le feste che hanno comunque altri significati. Non pochi attendono che si esaurisca il periodo, ma il vuoto rimane con le ragioni razionali.
Questa convergenza di disagio, che quindi non dipende solo dal fatto di credere o meno, dovrebbe far riflettere su quanto significhi questo periodo dell’anno e ansare oltre alle frenesia e ai riti. Quindi, non l’oggetto e la sua immagine, ma piuttosto l’essenza, ovvero ciò che si vuol rappresentare: la spiritualità. Chiedersi quanto essa ci appartenga, vedere come positiva opportunità il tempo che viene distolto da abitudini e superficialità e riportarmi a sé. Quanto ci siamo siamo allontanati dalla ricerca di chi siamo davvero, dalla nostra poesia interiore e come ci possiamo trovare in un nuovo equilibrio di relazione con il profondo? Le religioni hanno risposte che indicano strade ma espropriano la spiritualità libera dall’uomo e la confinano nelle regole, nei dogmi, nella mortificazione del sé umano. La società di mercato compie un’operazione analoga e crea nuovi rito e felicità indotte, mai libere e rispettose dell’uomo. Chi non vuole né le une né l’ altra oppone un rifiuto, non rinuncia alla propria spiritualità e non si adegua e sa che la risposta alle sue domande gli impone di trattare la propria dimensione spirituale uscendo dai pregiudizi e vedendo dentro di sé. La religione è un prodotto degli uomini, un bisogno di spiegare, non si può essere indifferenti ad essa, né a chi crede, allora resta l’agnosticismo, e si cerca di avvicinare lo spirituale al pensiero, riducendolo, per quanto si può, al comprensibile, al razionale e dove non si può, si medita su ciò che non si capisce.
Come entri lo spirituale nelle nostre vite, è parte dell’esperienza di ciascuno, ma anche, e soprattutto, dell’accettazione di questa parte essenziale dell’uomo, che non è solo superstizione o bisogno di sicurezza, però esiste e vale almeno quanto il razionale o la parte che assegniamo ai sentimenti nel guidare le nostre vite. L’uomo, noi, siamo tutto questo insieme, nel mescolarsi di dimensioni diverse che danno una direzione, ed il prediligere l’una o l’altra dimensione orienterà le scelte che facciamo nelle relazioni, nel vivere concreto, nel rapportarci con noi stessi.
Sull’eclisse del sacro, sulla superficialità di questi giorni, chissà quanti articoli, blog, riviste manifesteranno il disagio esistente tra l’immagine luccicante delle festività e il sentire delle persone. Anche se questo riflettere sarà ben inserito tra una pubblicità di orologi, un’altra di profumi, una di un’auto seguita da quella del cibo firmato. E chi, come me, si interroga, tornerà ai classici senza tempo, avrà rispetto della poesia e della bellezza. Cercherà con umiltà di trovare una via che non getti il positivo di un malessere che ci chiede di assomigliare a noi stessi. Dopo le reazioni che oscillano tra il rifiuto del troppo che ci attornia e la ricerca di significati a ciò che si sente e si vede, si pensa a ciò che non può ripetere l’infanzia ma può recuperarne il meraviglioso che l’accompagna, e ci si accorge che il filo che tutto cuce è nell’amore che esiste attorno.
Un ripasso di ciò che conta davvero, oltre le modalità, oltre il vincolo delle giornate, ascoltando gli affetti e le domande che arrivano. Bisogni forse troppo simili per non dire che questo senso del religioso sconfina troppo spesso nel bisogno d’amore e che forse andrebbe investigato in questo senso.
Ma come si legge, non ho soluzioni, so chi non sono ma non so chi sono. Forse perché è il cammino che conta e la riflessione che continua. Questo è uno dei temi del vivere. Almeno per me.
I suoni si gonfiano dalla vecchia radio; morbidi sul rumore di fondo assomigliano a colpe mai perdonate. Onde medie e valvole imprecise, per scelta, oggi riportano ai tepori rumorosi d’infanzia, agli elastici un po’ lenti, alla voglia di rimettere a posto indumenti negli accordi che sbavano appena. Basta tendere l’orecchio e s’ intuiscono pensieri, che infilano imbuti di note: pare, m’era sembrato, mi pareva, bianchi e neri di suoni, simmetrie di sentimenti, rimbalzi. La musica ? Non ci salverà, come i ricordi.
Il pensiero è altrove, nella luce d’inverno che corre presto nella notte, rossa ed umida in cerca del calore, che fa vibrare di carezze il cuore.
Il filare dei platani alza il grigio dei tronchi verso un trionfo giallo e bruno. Le strade dei contadini e dei signori erano piacevoli all’occhio, toglievano il peso dell’andare, almeno per poco. Novembre era un mese in cui i fittavoli che avevano terra e orto e stalla avevano già predisposto i campi per l’inverno e si dedicavano ad avere cibo e attrezzi necessari a superarlo. L’orto dava radicchi, verze, carciofi, cavoli. Le zucche erano scorta come le castagne e la frutta da maturare e seccare. Il maiale, ignaro, ingrassava, come i polli che non avevano notato il destino delle oche, tutti mangiavano in un ciclo in cui nulla veniva gettato. La sofferenza si consumava lentamente, inframmezzata da racconti e giochi, luci fioche, freddo ovunque che non fosse la cucina, la stalla o il letto con lo scaldino. Crescita e vite sempre nel limite della fame e della fatica. La mezzadria, i patti agrari, il bracciantato sono termini che nessun giovane conosce, quelli della mia età li hanno rimossi. In cinquant’anni un paese agricolo si è trasformato in industriale, poi in generatore di servizi e marchi di moda, adesso non si capisce bene verso cosa vada.
Qualche giorno fa ero in mezzo alla campagna, all’inaugurazione di un impianto fotovoltaico a terra da 2.7 MW, cinque ettari di pannelli. Un tempo ci vivevano due famiglie fatte di nonni, figli, bimbi, anche 40 persone che coltivano grano, vino, orto, pollaio. Crescevano figli, imparavano molto dalle mani, il necessario sui libri, appena grandi sciamavano come uccelli, verso città di cui conoscevano a malapena il nome. Cercar fortuna era un modo di dire che includeva immane fatica, lingua nuova da imparare, usi, costumi, cibo, lettere da scrivere ai vecchi che avevano 40 anni ed erano ancora legati alla terra, alla fatica, agli alberi che erano sul limite del campo, nel fosso. Se c’era fortuna e generosità, un po’ di soldi andavano a casa, per comprare quella terra da stenti, la casa, con l’idea di tornare che troppo spesso passava e diventava racconto.
Non mi piacciono gli impianti fotovoltaici a terra, sono solo soldi senz’anima, che producono energia per alimentare spesso ciò che è superfluo e trascurano il cibo che un tempo nasceva da quella terra. Guardavo, sentivo pezzi di discorso, rumore di bottiglie stappate. Faceva freddo, c’era il vento giusto per il primo raffreddore di stagione. Su due tavoli con tovaglie candide, piatti di salame, pane fresco, vino e pasticcio caldo. Tre camerieri in giacca e grembiule bianco porgevano assaggi. Un quadro incrinato, felliniano e stridente, zuppo di significati e contrasti.
Una classe di ragazzi di un istituto tecnico, faceva folla, interessati al salame e a un lavoro futuro, trattenuti a forza nel presente e meno alla precarietà dei contratti che avrebbero conosciuto. Toccherà sempre ad altri, ma non è così.
Il prete ha parlato a lungo con Genesi e preghiere, la nascita della luce e il fotovoltaico, più stringato e concreto, l’amministratore della società tedesca ha tagliato il nastro. Io pensavo a Olmi e all’albero degli zoccoli e mi parevano fuori posto quei ragazzi, con i vestiti degli studenti di campagna, fatti di strati di felpe da mercatino e calzoni sformati di jeans, con la professoressa giovane, piena di freddo, vestita per altra occasione importante, ma non per quel posto in mezzo ai campi, (calza giusta, vestito di lana a pelle e giubbino da bar del pomeriggio). L’insegnante maschio, invece era incappottato e desideroso di tornare nel caldo di una stanza. Supponente come chi ne ha viste tante, e provate di più, sbuffava scetticismo sulle promesse solenni della politica. Sapeva che da essa e da lui, non sarebbe dipeso quello che quei ragazzi davvero avrebbero potuto fare nella vita. Senso dell’inutile a cinquant’anni, una diversa vecchiaia.
Quei ragazzi erano i nipoti dei fittavoli, poi diventati metal mezzadri e infine artigiani, a loro non era rimasta appiccicata la sofferenza degli avi.
I proprietari dell’impianto avevano scelto le 11 del giorno 11, San Martino, per l’inaugurazione. Chissà che funzioni davvero per questi ragazzi la baggianata delle coincidenze, che porti bene anche se nasce da sistemi di misura inventati da ometti che neppure sanno ordinare bene il mondo in cui vivono.
Intorno c’era la campagna della bassa, così bella d’autunno che (lei si davvero palindroma e insensibile), si poteva leggere in senso inverso e lo diceva a chi ascoltava con gli occhi : io c’ero prima e ci sarò anche poi, voi no.
Mi sono fatto travolgere dal pensiero di ciò che è stato, così immobile di stagioni e fertile di mani, come fosse un pensiero trasversale della terra. Un sistema di numerazione basato sull’11, che accorciava gli anni per seguire il tempo meteorologico che ormai sfuggiva le stagioni e mi faceva sorridere la capacità che abbiamo di entrare ed uscire dal reale pur di far finire quello che ci annoia.
Ero davanti al mare di foglie giallo brune di vite e di platano, immerso nel riflesso dei pannelli e pensavo che qui, in questo luogo, poteva nascere qualsiasi pensiero, qualsiasi idea che poi avrebbe rigato il mondo.
Con l’ultima parola che ancora oscillava dalle casse acustiche, è scattato il rompete le righe ed una folla di mani si è avventata su piatti, forchette e cibo. Il gruppetto dei notabili sorrideva, mentre con i proprietari, si avviava al ristorante.
In questo giorno i carri dei fittavoli e dei mezzadri, se l’annata non era stata soddisfacente, venivano sfrattati e andavano in cerca di una nuova casa sperando in migliore fortuna. Perché di fortuna e non di diritto si trattava e se la mezzadria era già un passo avanti rispetto alla servitù, la vita di quelle persone era consegnata comunque all’indigenza, alla fatica, alla malattia, all’interminabile sequela di disgrazie che accompagnavano la miseria.
Beppe Fenoglio ne parla in un racconto: la malora, cupo come la sorte che si accanisce, ma proprio l’etimo del titolo è sbagliato perché non si trattava di una condizione momentanea, ma di una vita di stenti e di insulti, di angherie che toglieva dignità alla persona. Le vite si chiudevano in silenzi cupi, con scoppi improvvisi di rabbia. E fece scalpore nei primi anni del ‘900 l’ omicidio della contessa Onigo compiuto da parte di uno di questi quasi servi della gleba di fronte all’ennesima angheria subita.
Solo emigrare sembrava dare una alternativa, ma anche in quel caso i pochi che ce la facevano erano accompagnati dai tanti che soccombevano oppure proseguivano altrove vite di stenti. Ebbene queste persone desideravano gli stenti e l’arbitrio di casa quando furono in guerra. Perché è bene ricordarlo, la guerra fu soprattutto di contadini contro altri contadini. Persone che guardavano il terreno e ne vedevano i pregi e i difetti oltre a scavarlo di trincee. Persone che conoscevano i nomi delle piante, ed erano in grado di usare gli attrezzi e di farli. Persone messe assieme in una accettazione del destino che sempre investe chi non si ribella, ma che pensavano ai campi e ai lavori da fare a casa, alla miseria che cresceva finché loro erano al fronte.
Le lettere dei soldati dovrebbero essere lette e spiegate ai ragazzi nelle scuole. Credo che non sia rimasta alcuna percezione di cosa avvenne e quanto esso fu disastroso per le famiglie. Piccole prosperità distrutte assieme alle vite, orfani a non finire accanto a non pochi figli nati fuori dal matrimonio. Tutto venne occultato in una propaganda che parlava di santità della guerra e di una sua giustizia che non c’era e non ci poteva essere.
Penso ai comandanti e ai non tanti di essi che vedevano gli uomini prima dei soldati, alla razionalità, anche nel combattere, contrapposta al puntiglio; erano ufficiali in minoranza che ragionavano di fronte all’inutilità di posizioni da raggiungere e abbandonare subito dopo, che obiettavano nella pianificazione di attacchi fatti di ondate dove gli ultimi dovevano camminare sui morti che li avevano preceduti. Cosa avranno pensato nel giorno di san Martino quei contadini già immersi nel freddo, nella paura di un ordine.
Ungaretti si guarda attorno e usa le parole scabre e definitive della poesia.
Eppure, lo dico per esperienza, se andate a san Martino del Carso non c’è traccia di queste persone. Se andate sulle doline del san Michele, non c’è la presenza di queste vite. Ci sono i monumenti, lacerti di trincea, ma non gli uomini, o meglio non la loro umanità.
Ai ragazzi di adesso cosa viene trasmesso di quanto accaduto in quei luoghi, come si riesce a far parlare le vite per non disperderle nel nulla? Credo che l’identità di un popolo sia fatta non tanto della storia, ma della sua umanità. Che se dovessi parlare in una scuola a dei ragazzi delle medie direi loro della sofferenza del non avere identità, dignità. Gli racconterei non dei generali, quelli verrebbero dopo, nella sequela infinita di errori, ma di cosa pensavano e scrivevano quelle persone a casa, perché noi siamo cresciuti sulle loro vite. Gli direi che molti di loro conoscevano la famiglia e la fatica e molto meno l’Italia e che essere liberi, poter scegliere, era un privilegio.
E partirei da san Martino e dai traslochi per dire che un tempo la stragrande maggioranza di chi lavorava la terra e quindi del Paese, era precaria, ma che ci fu un momento in cui anche questa precarietà sembrò una felicità perché le stesse persone stavano peggio. E che san Martino era un militare che tagliò il mantello per darne metà a una persona che non aveva nulla. Era un militare che capiva la miseria e rispettava la dignità.