di molte cose inutili il tempo porta ricchezza

Nella mattina dell’anno ho anzitutto riordinato i pensieri:

c’erano le sconnesse notti, gli eccessi,

l’onnipotenza dei piccoli poteri,

e gesti che mai avrei voluto fare.

Eppure…

Contingenze mi son detto,

perché accanto ad essi sentivo tutte le inutili sopportazioni,

e quelle che semplicemente avevano posticipato decisioni.

C’erano i silenzi e tutte le parole troppo tardi pronunciate,

e anche, mescolate, c’erano altre verità inutili, o beffarde,

tenere o bugiarde, comunque fraintese prima d’essere capite.

Una grande confusione s’è accumulata per aver vissuto,

e se tutto era comunque accaduto,

ora s’accalcava, bisticciava la sua importanza, pretendeva,

insomma il passato s’accapigliava,

e c’era necessità d’ordine,

la fatica di dare a ciascuno un posto.

C’era bisogno di disciplina per impedire che ciò ch’era stato fosse avanti al nuovo.

Così nella mia stanza interiore sono entrato,

ho visto gli scaffali piegati sotto il peso delle pagine incompiute,

la polvere accumulata su quello che era appena ricordato,

ho visto rilucere ricordi e bastava passare un dito,

c’erano passioni stanche e ripiegate,

un sentire acuto sciolto in lacrime passate,

le inconsulte commozioni,

e le troppe battaglie perdute.

Ho dissipato tempo nei talenti ch’erano sembrati.

Ho visto i timori nell’amare,

i rossori e l’esitare,

le faticose promesse mantenute,

ho sentito il cuore ingombro di scelte

e di fatiche,

di possibili vite mai sperimentate,

ma era il passato,

confuso e sconclusionato.

Così pareva,

e allora mentre allineavo sulle pareti tutto ciò che sono stato,

piano liberavo il bianco su cui il futuro avrebbe spaziato,

cercavo la luce che l’avrebbe illuminato,

perché esso, nel vedere ciò che s’era accumulato,

ne fosse fiero e libero in ciò che sarebbe venuto.

sera nell’inverno che chiede

cuocere il pane il primo giorno dell’anno

Ieri c’era il sole limpido e rosso del pomeriggio e un vento di piccole raffiche fredde. Tra l’una e l’altra, l’illusione che si fosse quietata la lama gelida di tramontana. Gli abeti si scuotevano, i larici vibravano perdendo gli ultimi aghi. Immagino, osservassero i mucchi di rametti secchi e di aghi, che erano stati lasciati attorno ai tronchi e ora si disperdevano in colonne e mulinelli.

Di questo inverno strano e parco di neve s’aggirano attorno i ricordi di ciò che si è stati, e nel farlo poi ci si sconsola, attoniti per il risultato, come se il nuovo non si nascondesse nel ripetersi delle abitudini e dei gesti ma mutato, imprevedibile e meraviglioso nel suo risultato. Così pensavo, pasticciando il noi degli affini, augurandomi e desiderando per chi mi è vicino, sia l’abitudine con le sue certezze d’identità come il nuovo che essa produce.

Intanto infornavo il pane.

La sera precedente, c’era ancora luce, guardando dalla finestra, avevo impastato la farina, l’acqua, il lievito.. A lungo e a mio modo, senza la meticolosa minuzia degli appassionati panificatori del web, pensando  piuttosto al fare beneaugurante del gesto. Al coincidere tra parola e sostanza che risiede in ciò che poi diverrà intimamente nostro. E non solo nostro perché sarà diviso con altri, l’aggettivo buono lo distaccherà da qualcosa di consueto perché sarà sempre diverso e il nuovo e il buono coincideranno più con la novità che col ricordo.

Cuocere il pane il primo giorno dell’anno e mangiarne nei giorni che seguono appartiene a una continuità che sento beneaugurante. E anche come lo si pensa, con la parola che diviene fare materiale mi sembra un gesto significativo.

Nella laica modalità dello stare assieme a pranzo ci si sceglie, ma è già un dopo l’aver preparato la mente e il desiderio di condividere, quindi non è il fare, ma il desiderio che unisce. Il cibo lo seguirà sapido, soddisfacente il corpo, oltre il necessario. Così la convivialità diviene eccezione e si distacca dagli innumeri pranzi e cene consumati per abitudine, ed è  condividere lo stare assieme.

Per analogia il fare il pane il primo giorno dell’anno è per me, un fatto simbolico, che precede ciò che poi avverrà, una sorta di auspicio dell’essere assieme.

Fare il pane è sperimentare il senso del miracolo che avviene nel combinare che trasforma le cose. Mobilitare i lieviti, farli agire con le farine, aspettare i tempi e le temperature che li fanno prosperare, e lasciare che si esprimano nella semplicità del soffice e del bianco dentro un involucro di profumata croccantezza oppure dare un sapore ulteriore con l’olio o i semi. Tutto ha una sua bellezza e ogni volta sorprende.

Per questo mi piace fare il pane e ancor più il primo giorno dell’anno, magari non verrà qualcosa di memorabile, non sarà qualcosa da confrontare con quello del fornaio ma è il fare che continua e si rinnova in gesti antichi, conservando memoria di sé e restando buono per più giorni.

Ci si innamora anche delle metafore per sentire la vita che è sempre nuova e non si dimentica di interpellarci mentre continua.

foto d’interno con famiglia

Quasi tutti hanno gli occhi chiusi o altrove. La macchina fotografica è entrata nella casa, già ha modificato i rapporti tra l’apparire e l’essere. Atteggiarsi è più importante per dare misura dell’essere consoni al ruolo. Ognuna di queste persone ha una vita propria diversa. Siamo in Spagna, prima della grande guerra. L’interno è quello di una casa borghese, già si è superato il limite dell’affetto ottocentesco, il lei appartiene più ai genitori che ai figli. Il giovinotto segna il distacco pur mantenendo il legame. La posa, la camicia con il colletto rigido , il panciotto dal taglio elegante, lo fanno più adulto e un po’ zerbinotto. Ha già avuto le sue esperienze, i suoi amici lo attendono al caffè, è in apprendistato per il vivere.  In Spagna ci sono i casini, i circoli dei borghesi, dei nobili, della caccia e via dicendo, ma fa fatica ad espandersi il cabaret, soprattutto in provincia. La ragazza si affida alla casa, ai genitori, le troveranno un marito, ma i suoi occhi diretti, gli unici che guardano l’obbiettivo, fanno presupporre un’ingenuità, mista a coraggio. Forse il marito lo proporrà lei, anzi il pensiero è già presente. Si esce di casa presto, per maritarsi e per riprodurre l’agiatezza da cui si proviene. Lo status è un contenitore in cui le vite si sviluppano, un incubatore. Sopra l’ottomana, simmetrici ci sono i ritratti dei nonni, probabilmente entrambi morti, sono numi tutelari del ricordo di ciò che si è. I genitori sono intorno ai quarantanni, forse più giovani considerata l’età dei ragazzi, ma già molto maturi entrambi, infagottati negli abiti che diventano corazza verso gli altri e verso se stessi. I mobili, la tappezzeria, l’ampiezza della stanza e le suppellettili, testimoniano una condizione agiata. Adesso possiamo chiederci quali pensieri si aggirano nelle teste, quanto il fotografo abbia celato nel mestiere e quanto abbia lasciato trasparire nelle pose, nella noncuranza del marito sul bracciolo, nel comporre un ritratto rassicurante, che si avvicina più a quella del pittore che a quello di chi ruba lo sguardo e il lampo di pensiero. C’è un’apparente calma e unità, ma avverto una tensione che diverge, ogni persona ha un obbiettivo proprio. Quella che sembra con meno futuro, ovvero con un presente solido da riprodurre, è la madre. E’ ancora nell’altro secolo e la figlia cerca in lei l’affetto, non lo specchio. I due uomini si stanno rincorrendo, il padre tiene a bada, ha un buon controllo della situazione familiare, il figlio avrà le libertà che lui deciderà. Complessivamente l’affetto circola, non sono assieme per caso, la fotografia deve testimoniare un’unità, un come eravamo che sia esemplare. Se ci riesca o meno poi ognuno è libero di pensarlo. Mi interessano i pensieri, li sento tutti diversi, l’unità è il vincolo familiare, ma le vite divaricano. 

pensare in tempo di festa

C’è un tempo in cui le promesse, le fanfaluche, le stesse parole vengono a noia, nel senso che non fanno più nessun effetto. Pensate se fosse festa tutto l’anno, dopo una settimana non si saprebbe più che fare, così emerge un bisogno di normalità che investe presente e futuro. Forse è la stanchezza di una realtà che è mistificazione e porta tutto sul presente e nel personale. Forse abbiamo cancellato troppo facilmente la sindemia da covid in un’ansia di scordare che ha abrogato i problemi che erano emersi con le paure del contagio e le convulse e parziali risposte che l’hanno accompagnato. Forse è la guerra in Ucraina e l’immane eccidio di Gaza che sembrano non riguardare e si riducono a un continuo rifornire e usare armi senza pensare che ci sono centinaia di migliaia di morti e nessuna trattativa per la pace. Forse sono i riti della politica che si ripetono, l’ eterno barcamenarsi del PD, le trasformazioni del M5S, il tramonto di Salvini che oltre a lagnarsi non dimostra alcun talento, la Meloni che diventa un gigante della destra che ama la famiglia, la sua, la fine patetica del berlusconismo, ecc ecc. Tutto annegato tra panettoni e povertà estreme. Ci si abitua a tutto e non è bene, perché il peggio dilaga. Ma anche questo è un lamento e non produce nulla, non cambia la realtà, che dipende troppo spesso da una lettera di assunzione o di licenziamento, che non muta la perenne perdita di speranza sull’Italia che riguarda i giovani e quelli che a 50 anni devono inventarsi un lavoro. C’è una progressiva disperazione che accompagna la povertà crescente, è un regalo della meritocrazia e del familismo che ha potere e denaro e quando non lo ha, prende a calci chi sta peggio. Ma chi si merita davvero di essere povero, di avere fame, di non avere cura né solidarietà? Invece pian piano si fa strada l’idea che chi non arriva ad avere successo ne porti anche la colpa e che il nemico sia chi ha ancora meno e accetta di tutto per non morire di fame. Di dignità si parla sempre meno, il lavoro come mezzo per avere realizzazione e vita dignitosa non esiste quasi più, ma si frammenta in piccole schegge di appartenenza sociale e poi di rifiuto reiterato della realtà. Nella meritocrazia c’è la competizione non la dignità che rende uguali in partenza e durante la corsa. Ci si accontenta duellando col vuoto di senso, di futuro, di presente, di patria. Casa or è dove si vive e fare lo sguattero a Londra o raccogliere mele in Australia dà una dimensione terribile dell’abbandono, della perdita di credibilità di un Paese verso i suoi giovani. Nessuno provvede davvero e non resta che competere. I poveri, i deboli, gli esclusi saranno oggetto di carità, se va bene, e la dignità si perde così, pian piano, nella consapevolezza che non siamo comunità ma individui. Terribile vero? Eppure è così e le distanze tra la speranza e la realtà si allungano, a questo dovrebbe pensare la politica, la sinistra in primis, ma anche chiunque pensi davvero che gli uomini valgano qualcosa. E non basta lo dica il Papa, dobbiamo dirlo noi che lo pensiamo. Anche nelle piazze che si affollano di senza partito e che esprimono questo bisogno di pulizia interiore, di solidarietà, non si percepisce che è festa tutto l’anno quando c’è un noi che difende l’io, quando ci si riconosce e si è contenti di farlo.
Verranno uomini di buona volontà, sono sempre arrivati, per far rinascere nella giustizia sociale di cui tutti abbiamo bisogno. Speriamo arrivino in tempo perché mai come ora le minacce alla vita e alla libertà sono alte, perché la guerra si afferma come ipotesi concreta e folle, perché l’ambiente non attende per gustarsi alla vita. Speriamo e facciamo ciò che è possibile, la somma dei molti possibili delle buone volontà genera l’attuazione del sogno.

un uomo comune

In questo nodo di festività che si concentrano intorno al Natale, ci sono difficoltà comuni che accomunano credenti e non credenti. Un disallineamento tra realtà e immaginario, tra visto e sentito che non di rado sfocia nella tristezza e nel desiderio che il periodo passi al più presto. Il peso delle ritualità, anche quelle che nascono per rifiuto o differenza rispetto al vuoto, accompagna un senso di privazione di qualcosa non ben identificato. E questo riceve molte risposte, ma il come uscirne non è un ridisegno ma una fuga. Leggevo uno scritto sull’indifferenza e di come essa sia difficile da raggiungere dopo un sentimento provato, in particolare quando chi ha generato la rottura con un prima, sia presente. Non c’è una invisibilità perché la nostra storia è in noi e continua a produrre, anche se è altro da ciò che veniva suscitato prima. Si reagisce o si subisce e questo avviene anche per le feste che hanno comunque altri significati. Non pochi attendono che si esaurisca il periodo, ma il vuoto rimane con le ragioni razionali. 

Questa convergenza di disagio, che quindi non dipende solo dal fatto di credere o meno, dovrebbe far riflettere su quanto significhi questo periodo dell’anno e ansare oltre alle frenesia e ai riti. Quindi, non l’oggetto e la sua immagine, ma piuttosto l’essenza, ovvero ciò che si vuol rappresentare: la spiritualità. Chiedersi quanto essa ci appartenga, vedere come positiva opportunità il tempo che viene distolto da abitudini e superficialità e riportarmi a sé. Quanto ci siamo siamo allontanati dalla ricerca di chi siamo davvero, dalla nostra poesia interiore e come ci possiamo trovare in un nuovo equilibrio di relazione con il profondo?
Le religioni hanno risposte che indicano strade ma espropriano la spiritualità libera dall’uomo e la confinano nelle regole, nei dogmi, nella mortificazione del sé umano. La società di mercato compie un’operazione analoga e crea nuovi rito e felicità indotte, mai libere e rispettose dell’uomo. Chi non vuole né le une né l’ altra oppone un rifiuto, non rinuncia alla propria spiritualità e non si adegua e sa che la risposta alle sue domande gli impone di trattare la propria dimensione spirituale uscendo dai pregiudizi e vedendo dentro di sé. La religione è un prodotto degli uomini, un bisogno di spiegare, non si può essere indifferenti ad essa, né a chi crede, allora resta l’agnosticismo, e si cerca di avvicinare lo spirituale al pensiero, riducendolo, per quanto si può, al comprensibile, al razionale e dove non si può, si medita su ciò che non si capisce.

Come entri lo spirituale nelle nostre vite, è parte dell’esperienza di ciascuno, ma anche, e soprattutto, dell’accettazione di questa parte essenziale dell’uomo, che non è solo superstizione o bisogno di sicurezza, però esiste e vale almeno quanto il razionale o la parte che assegniamo ai sentimenti nel guidare le nostre vite. L’uomo, noi, siamo tutto questo insieme, nel mescolarsi di dimensioni diverse che danno una direzione, ed il prediligere l’una o l’altra dimensione orienterà le scelte che facciamo nelle relazioni, nel vivere concreto, nel rapportarci con noi stessi. 

Sull’eclisse del sacro, sulla superficialità di questi giorni, chissà quanti articoli, blog, riviste manifesteranno il disagio esistente tra l’immagine luccicante delle festività e il sentire delle persone. Anche se questo riflettere sarà ben inserito tra una pubblicità di orologi, un’altra di profumi, una di un’auto seguita da quella del cibo firmato.
E chi, come me, si interroga, tornerà ai classici senza tempo, avrà rispetto della poesia e della bellezza. Cercherà con umiltà di trovare una via che non getti il positivo di un malessere che ci chiede di assomigliare a noi stessi. Dopo le reazioni che oscillano tra il rifiuto del troppo che ci attornia e la ricerca di significati a ciò che si sente e si vede, si pensa a ciò che non può ripetere l’infanzia ma può recuperarne il meraviglioso che l’accompagna, e ci si accorge che il filo che tutto cuce è nell’amore che esiste attorno.

Un ripasso di ciò che conta davvero, oltre le modalità, oltre il vincolo delle giornate, ascoltando gli affetti e le domande che arrivano. Bisogni forse troppo simili per non dire che questo senso del religioso sconfina troppo spesso nel bisogno d’amore e che forse andrebbe investigato in questo senso.

Ma come si legge, non ho soluzioni, so chi non sono ma non so chi sono. Forse perché è il cammino che conta e la riflessione che continua. Questo è uno dei temi del vivere. Almeno per me.

suoni in attesa di precisione

I suoni si gonfiano dalla vecchia radio;
morbidi sul rumore di fondo
assomigliano a colpe mai perdonate.
Onde medie e valvole imprecise, per scelta,
oggi riportano ai tepori rumorosi d’infanzia,
agli elastici un po’ lenti,
alla voglia di rimettere a posto indumenti
negli accordi che sbavano appena.
Basta tendere l’orecchio e s’ intuiscono pensieri,
che infilano imbuti di note:
pare, m’era sembrato, mi pareva,
bianchi e neri di suoni, simmetrie di sentimenti, rimbalzi.
La musica ? Non ci salverà, come i ricordi.

Il pensiero è altrove,
nella luce d’inverno che corre presto nella notte,
rossa ed umida in cerca del calore,
che fa vibrare di carezze il cuore.

le accezioni del blu

Autunno palindromo

oggi è San Martino

In questo giorno i carri dei fittavoli e dei mezzadri, se l’annata non era stata soddisfacente, venivano sfrattati e andavano in cerca di una nuova casa sperando in migliore fortuna. Perché di fortuna e non di diritto si trattava e se la mezzadria era già un passo avanti rispetto alla servitù, la vita di quelle persone era consegnata comunque all’indigenza, alla fatica, alla malattia, all’interminabile sequela di disgrazie che accompagnavano la miseria.

Beppe Fenoglio ne parla in un racconto: la malora, cupo come la sorte che si accanisce, ma proprio l’etimo del titolo è sbagliato perché non si trattava di una condizione momentanea, ma di una vita di stenti e di insulti, di angherie che toglieva dignità alla persona. Le vite si chiudevano in silenzi cupi, con scoppi improvvisi di rabbia. E fece scalpore nei primi anni del ‘900 l’ omicidio della contessa Onigo compiuto da parte di uno di questi quasi servi della gleba di fronte all’ennesima angheria subita.

Solo emigrare sembrava dare una alternativa, ma anche in quel caso i pochi che ce la facevano erano accompagnati dai tanti che soccombevano oppure proseguivano altrove vite di stenti. Ebbene queste persone desideravano gli stenti e l’arbitrio di casa quando furono in guerra. Perché è bene ricordarlo, la guerra fu soprattutto di contadini contro altri contadini. Persone che guardavano il terreno e ne vedevano i pregi e i difetti oltre a scavarlo di trincee. Persone che conoscevano i nomi delle piante, ed erano in grado di usare gli attrezzi e di farli. Persone messe assieme in una accettazione del destino che sempre investe chi non si ribella, ma che pensavano ai campi e ai lavori da fare a casa, alla miseria che cresceva finché loro erano al fronte.

Le lettere dei soldati dovrebbero essere lette e spiegate ai ragazzi nelle scuole. Credo che non sia rimasta alcuna percezione di cosa avvenne e quanto esso fu disastroso per le famiglie. Piccole prosperità distrutte assieme alle vite, orfani a non finire accanto a non pochi figli nati fuori dal matrimonio. Tutto venne occultato in una propaganda che parlava di santità della guerra e di una sua giustizia che non c’era e non ci poteva essere.

Penso ai comandanti e ai non tanti di essi che vedevano gli uomini prima dei soldati, alla razionalità, anche nel combattere, contrapposta al puntiglio; erano ufficiali in minoranza che ragionavano di fronte all’inutilità di posizioni da raggiungere e abbandonare subito dopo, che obiettavano nella pianificazione di attacchi fatti di ondate dove gli ultimi dovevano camminare sui morti che li avevano preceduti. Cosa avranno pensato nel giorno di san Martino quei contadini già immersi nel freddo, nella paura di un ordine.

Ungaretti si guarda attorno e usa le parole scabre e definitive della poesia.

Eppure, lo dico per esperienza, se andate a san Martino del Carso non c’è traccia di queste persone. Se andate sulle doline del san Michele, non c’è la presenza di queste vite. Ci sono i monumenti, lacerti di trincea, ma non gli uomini, o meglio non la loro umanità.

Ai ragazzi di adesso cosa viene trasmesso di quanto accaduto in quei luoghi, come si riesce a far parlare le vite per non disperderle nel nulla? Credo che l’identità di un popolo sia fatta non tanto della storia, ma della sua umanità. Che se dovessi parlare in una scuola a dei ragazzi delle medie direi loro della sofferenza del non avere identità, dignità. Gli racconterei non dei generali, quelli verrebbero dopo, nella sequela infinita di errori, ma di cosa pensavano e scrivevano quelle persone a casa, perché noi siamo cresciuti sulle loro vite. Gli direi che molti di loro conoscevano la famiglia e la fatica e molto meno l’Italia e che essere liberi, poter scegliere, era un privilegio.

E partirei da san Martino e dai traslochi per dire che un tempo la stragrande maggioranza di chi lavorava la terra e quindi del Paese, era precaria, ma che ci fu un momento in cui anche questa precarietà sembrò una felicità perché le stesse persone stavano peggio. E che san Martino era un militare che tagliò il mantello per darne metà a una persona che non aveva nulla. Era un militare che capiva la miseria e rispettava la dignità.

Sì partirei da questo.

Buon san Martino a tutti.