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Informazioni su willyco

mescolo tempo e vita con passione e sono curioso, mi occupo più o meno di sviluppo territoriale compatibile con chi ci vive, annuso il presente. Difficilmente troverete recensioni di libri o di film tra queste note, anche i versi citati sono rari, perché mi piace la poesia come fatto personale. Ci saranno pochissimi giudizi, gran parte dello scrivere sono impressioni. Per le analisi sono noioso e lascio perdere. Non troverete un canovaccio prestabilito, ad altro è riservato questo luogo, di fatto è uno zibaldone del senso del mio tempo. Gran parte delle mie opinioni sono parziali, si basano su tesi affini e non assolute, sono verificate per quanto possibile, per voglia, per interesse. Ho dei principi basati anch'essi su un'etica appresa e rielaborata, su concetti di giusto e ingiusto che cercano di contemperare il desiderio con la realtà. Di mio ho aggiunto una sensibilità verso l'uomo, la sua carenza di protezione di fronte alla violenza, all'arroganza. Quindi mi muovo in un relativo che per parte piccola o grande è mio e per buona parte mi viene da ciò che ho appreso. Non insegnato, appreso, perché ho aggiunto una discreta propensione al rifiuto e alla libertà connessa. Quindi, traete voi le conclusioni perché tengo a poche cose per davvero e il resto è opinabile.

sono un provinciale

oznor

la terra è mia se io sono suo

non è cambiato niente

letture

cento e sei anni

diatomea

diatomea seppellita
inclusa, lambita, liberata.
Rinata, guardi con occhi antichi
d’ambra, uscire il tempo dalla teca,
sei sulla pelle che ti riporta a vita,
solida di un pensiero lento di spirale:
è articolato il tempo
nel sovrapporsi al desiderio.
Lontano, in un’ansa del giurassico,
con analogie di fossili,
conversavi con stimoli chimici e nervosi,
t’affidavi alle correnti in cerca di un tuo scopo,
ma ne chiedevi un pezzo a chi ti stava a fianco, diatomea.
E il chiacchiericcio che non è mutato, 
e ancora tiene cose senza nome e luogo,
era poi lo stesso d’ora?
Anche in quell’era vicini diseguali sparlavano,
il caso si gettava avanti impavido e confuso,
la vita svolgeva gomitoli d’indifferenza vigile,
ma solo quel tanto,
da lasciar credere che la felicità
saltasse come sull’ acqua, il ragno.

appropriata appropriato

le ali, verso sera

il nove di ottobre

Il nove ottobre era una sera come le altre, l’autunno, i primi freddi, l’anno scolastico iniziato da poco, i compiti mezzi fatti e qualche pensiero leggero per il giorno dopo. La mattina del dieci ascoltai la radio, faceva parte del rito della colazione. La notizia del Vajont, della frana del monte Toc, sovrastava le altre notizie. Si percepiva una disgrazia grande, la radio diceva che era colpita Longarone e poi Erto e Casso, ma questi paesi molto meno. Non c’era misura del disastro, parlavano di un’onda che aveva scavalcato la diga e poi si era riversata su Longarone risalendo i declivi e trascinando tutto verso il fiume. Nessuna stima delle vittime, solo che stavano affluendo i soccorsi, gli alpini, l’esercito.
Andai a scuola con quella notizia, ne parlammo prima dell’inizio della lezione, poi, fatto inopinato, l’altoparlante che avevamo in classe si mise in funzione. C’era un annuncio, il preside parlava a tutti comunicando che una grande tragedia era avvenuta e che uno o forse più nostri compagni, stavano tornando a casa. Erano studenti come noi, solo fuori sede e attratti dalla buona reputazione della scuola. Non sapevano nulla della famiglia. La mattina scorse grigia, senza troppa voglia di scherzare, qualcuno riuscì a portare in classe una copia dell’edizione straordinaria del Gazzettino. C’erano molte foto ma erano macerie, come dopo un bombardamento. Si parlava di centinaia di morti forse di più, ma i morti non c’erano, trascinati dall’acqua che aveva riempito la Piave. Il fiume sacro che raccoglieva disgrazie.
C’era scuola anche il pomeriggio, arrivava qualche notizia in più, i morti erano sempre senza numero ma crescevano. La sera, tornando a casa, cambiai le solite abitudini di perditempo, mi sembrava che la città fosse più buia o forse era il fanale della bicicletta che non bastava più. La sera con le edicole affollate, i gruppetti di persone davanti ai bar, era strana, in un sovrapporsi di voci che davano interpretazioni, che amplificavano la disgrazia con le congetture, i dubbi. E se la diga fosse crollata? Il disastro si faceva più netto e parlandone a casa, ripetevano le parole della radio, della televisione. I giorni successivi aggiunsero particolari sempre più neri, i morti che non si capiva quanti fossero, i ritrovamenti a chilometri di distanza, l’opera degli alpini e degli altri corpi mobilitati, le interviste, il racconto dell’orrore dei ritrovamenti, il cimitero devastato. E tutto questo per una distanza che portava al mare, con una conta degli assenti che non era numero ma scomparsa, come mai fossero stati e invece erano persone con affetti, legami, vita, presenza nelle strade, nelle case. Tentavo di capire chi erano i miei compagni di scuola che erano andati alla ricerca della famiglia, cercavo un viso, un cappotto, un taglio di capelli nella memoria, mi pareva, ma era solo un lampo che non Illuminava, pensavo che forse li avevano trovati i genitori, i fratelli, i nonni o forse erano scomparsi e cercavano con i militari. Nessuno ci diceva nulla e non ho mai saputo.
Nessuno degli insegnanti parlava più del necessario, non ci fu nessun tema in classe. Parlavamo di più a casa o tra noi, poi sempre meno. Le perizie che avevano assicurato la sicurezza della diga e dell’invaso erano state fatte nella nostra orgogliosa e centenaria università e un senso vago di colpa invade a le strade, le parole, gli stessi palazzi, appariva che il disastro si poteva prevedere, che era certa una frana ma prevista più contenuta. E i morti a chi dovevano chiedere conto? Nei mesi che valicarono l’inverno è poi negli anni successivi venne fuori il peggio, le case comprate per avere gli indennizzi, le somme ridicole per togliere le parti lese dai processi, mentre come per la prima guerra mondiale, il fiume o il mare, ogni tanto restituiva qualcosa, a ricordare che a monte era accaduto un disastro che aveva interrotto migliaia di vite e che non c’era rimedio né possibilità di sanare ciò che non sarebbe mai stato. La nostra era pietà e rabbia, era un senso di ingiustizia generatore di infinite domande, ma noi eravamo sicuri fino a prova contraria, eravamo inermi non al caso, non solo a quello ma all’avidita, all’imperizia, era toccato a innocenti e questo non aveva una ragione, non era fortuna, non era caso, non per così tanti, era qualcosa che ci sfuggiva come ci fosse una volontà vieta, buia, deviata che colpiva perché non eravamo nulla. E a questa si aggiungeva la parte peggiore dell’uomo:l’avidità. Anche ora è così ma allora non lo sapevamo. Noi avremmo vissuto, gioito, costruito esistenze nuove, fatto cose semplici e difficili, avremmo accumulato tempo e vita, loro no e nessuna giustizia li avrebbe risarciti di nulla di quello che era loro, solo loro, e gli era stato tolto.

una maglietta 3 euro, una camicia 5 euro, un jeans 12 euro