tempo proprio

Gran parte del nostro tempo cosciente lo cediamo ad altri. Per fortuna siamo fatti talmente bene (o male per l’economia di rapina) che il sonno e il sogno ci sono dovuti. E questa felice incoscienza dei ruoli e delle necessità ci riporta a noi. Ma oltre a questa necessità, ognuno sceglie dei momenti che contengono l’amore per sé. Se posso regalare, scialacquare il tempo del giorno, il risveglio e la notte devono essere miei. E sono due momenti diversi in cui mi conformo alle mie nature.

Per alcuni il dire d’avere più nature adombra la duplicità, l’essere più persone, insomma l’essere infidi per la prevedibile normalità. Per altri nature ricorda la nudità dell’assenza di obblighi. Preferisco la seconda anche se potrei vantare l’ esser nato sotto il segno dei gemelli, ma per me, sono i gemelli che mi rincorrono nei loro oroscopi, non io che ascolto loro. Il vaticinare individua la nostra natura, non il nostro futuro, esso è conseguenza d’ essa. Cioè noi siamo i nostri bisogni e desideri e quale momento migliore del mattino, quando il sogno ha ceduto alla luce per trovare l’attimo lungo della sospensione e della libertà?

Al mattino sono il profumo del mio caffè, il pane che si tosta, la luce che invade la stanza, i tetti che non cessano di piacermi, le rondini che volteggiano e riempiono la piazza d’aria tra le case. E sono i miei tempi lenti, la mezz’ora prima del necessario perché necessario è non avere fretta e così dev’essere la cura della mente e del corpo. Sono la prima musica e le prime parole, il pensiero che vaga e si sofferma, sono il preannuncio della giornata senza assillo. Sono l’attesa senza fretta, l’accadere nuovo, il boccone di pane imburrato che mi stupisce per la sua pienezza. Sono una parola scritta per non dimenticarla, sono tutto quello che ancora non è preso da altro. Insomma sono. Poi verrà la giornata, le corse, le telefonate, i chilometri, la stanchezza del ripetere, i problemi che se fossero facili non te li darebbero da affrontare.

Te li darebbe chi? Questo chi in realtà contiene anche me, la mia volontà, nel contratto in cui si presuppone la responsabilità, ma questo è un altro discorso. Farebbe parte della libertà, del contrarre tra eguali, e spesso si sceglie di non essere eguali. Voglio dire che la dignità nel lavorare, nel fare, è una educazione severa di sé, faticosa perché presuppone una serenità interiore che semplicemente fa dire di no quando serve. Ma questo è l’altra natura e al mattino non ci pensa. 

E neppure la sera ci pensa. Passa la giornata e arriva la notte e si ripete la magia del ritrovarmi intero. Intero significa corpo, sentire, anima, pensiero, tempo proprio e libertà di non avere obblighi. E’ il raccogliersi per la notte. E anche quando si veglia, la notte ci possiede e la possediamo, ciò significa che essa è uno spazio in cui siamo. La notte esalta ciò che manca e ciò che si ha, mette a confronto i desideri con la quiete, il bisogno con la regola interiore.

Siamo tutto questo: ossimori. Solo la parola sente la contraddizione dell’ossimoro, non noi, che abbiamo più nature, più età, più generi se non c’accontentiamo. La notte con i suoi silenzi, i rumori lontani, le abitudini che preparano il sonno (meglio sarebbe pensare che preparino il sogno ovvero l’altro da noi) ha per ognuno i suoi codici. Sfortunato colui che dorme e basta, sfortunato chi non conosce la zona tenue in cui si addensa il pensiero della saudade, sfortunato chi non conosce la soddisfazione dell’ultima riga letta e ripetuta prima che gli occhi si chiudano, sfortunato chi non ha un desiderio dolce, un pensiero che prende, una mancanza che attende. Poi il sonno e il sogno e di nuovo un mattino. Mai lo stesso, se lo si vuole, come il tempo. Il proprio tempo. Non quello ceduto espropriato, regalato, rubato, il proprio tempo, la propria possibilità, quella che nessuno potrà mai prenderci se noi non vogliamo. E ciò che di più alto possiamo donare senza alcun eroismo è proprio questa nostra quiete dedicata: un me per te.

A uno solo, due sarebbero troppo.

tempo 2.

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Frammento sulla fine della giovinezza … 

Non era coinciso nulla. Maturità, attese, posizione, amore, situazioni. Nulla che avesse un posto predefinito, che potesse far dire: c’è un prima e quindi un dopo. Così nel flusso tutto, semplicemente, continuava mutando. Anche i fatti avevano una loro singolarità, ma erano fatti. E non era un giudizio di valore, certo che l’importanza veniva sentita, ma erano accadimenti, con una loro meccanica che includeva il mutamente. E non poteva essere diversamente proprio perché erano importanti ma umani. Forse che prima d’essi, non c’erano stati altrettanti, e magari più profondi, mutamenti? E allora se non si quietava il confluire dell’accadere, nello scorrere tranquillo (pareva che l’idea di flusso fosse quanto di più vicino al tempo che viene vissuto, indossato a pelle, e acconciato a sé), se questo non s’allargava e rallentava, allora non si capiva dove fosse un prima se non per cronologia, oppure per quella localizzazione che era più una mappa dell’anima che di luoghi.

Si poteva dire: allora, in quel giorno, ero qui, sentivo questo. E la geografia di sentimenti avrebbe avuto un suo perché assoluto, com’ essa fosse il vero portolano che descriveva la rotta d’ una vita. Però di molti anni non restava traccia, come se essi si fossero consunti in un grigiore di candele senza presenza. Neppure delle infinite sequele di piccoli piaceri, di incontri, di discussioni accese, di mondi ardui, di sentenze scavate a fatica, feroci, apparentemente definitive, restava traccia, come se quel lasso di tempo lungo, e in sé ben vissuto, fosse infine privo d’un colore definito, e per questo utile a sé solo. Guardando il passato, esso era una sconfinata serie di piccoli avanzamenti, un pullulare di fatti, di cose, di eccezioni uniche, poste su un turbolento orizzonte avanzante e non una sequenza lineare per cui ciò che era stato nuovo, ora fosse in uno scaffale. Semplicemente era stato prima. Non era definitivo in sé, era accaduto e non aveva chiuso nulla davvero. Quindi la vita poteva essere una infinita serie di aperture o di chiusure e stava in noi scegliere l’una o l’altra condizione e quindi il definitivo prima e l’assoluto dopo.

E la giovinezza finiva davvero assieme alla sua follia? E se la follia non terminava sarebbe sfociata nella pateticità? Chiedersi quando finiva la giovinezza era dare una data alla follia del corpo, all’eccesso portato sorridente oltre il suo limite, ma il pensiero che lo guidava, che attingeva goloso al nuovo e lo gettava in quel flusso, ed era ricco d’ansia costante d’incompiuto, di lasciato in disparte, e di nuovo che sorgeva, poteva esso generare, combinando tutto, una condizione d’essere non connotata. Libera da collocazione e ruolo, rispondente a sé e alla propria percezione del mondo. Pensava di sì, perché non poteva fare altro se la vita apriva. E solo il patetico, e il suo farsi ridicolo, era da evitare con accuratezza, per non essere caricatura di se stessi. Insomma corrispondere a ciò che era ed evitare, l’insania suprema del ridicolo. Assomigliarsi per vivere bene il tempo proprio, non un’età.

l’ordine è un’opzione, non una necessità

Rimettere in ordine il portaoggetti dell’auto è una fotografia di come ci si muove nel mondo. Trovo molti biglietti di parcheggio che non saranno più rimborsati. Li guardo meglio e vedo le città in cui sono stati emessi. C’è Chioggia, Mantova, Vicenza, Roma, Venezia, Treviso, Trieste, Milano, Friburgo e naturalmente molta Padova. Alimento molto le casse comunali. Mi sorprende che le date e l’ora mi ricordino qualcosa, l’attesa di un incontro, un lavoro che poi non è andato a buon fine, un pomeriggio di libertà. Tra le ricevute, biglietti da visita. Ricordo  a malapena chi me li ha dati, per gran parte sono stati progetti che abbiamo condiviso fino a un certo punto, poi non so che sia successo. E’ singolare la percezione che gran parte del lavoro sia stato preparatorio, che molto non abbia dispiegato appieno le possibilità. Accomuno queste attese, quelle degli appuntamenti, quelle dei lavori poi perduti, come se attendere fosse una condizione centrale dell’uomo. Eppure ci sono state molte realizzazioni, ma nel mio lavoro, immaginare e iniziare qualcosa non significa per forza finirla. E’ malinconica questa sensazione di incompiutezza, di attesa vana, come se nella divisione del lavoro non ci fosse la possibilità di avere per intero la gestione di qualcosa di nuovo.

Ci sono alcune ricevute e fatture di ristoranti. Qui la cosa è più allegra perché il cibo ha un suo ricordo particolare, fatto di sensazioni, di sapidità. Trovo due paia di occhiali da sole, uno l’ho cercato per mesi, erano assieme alle gomme da masticare che non mastico più, una trousse ago e filo di qualche albergo per riparare emergenze. I pantaloni che si aprono nel sedere sono un classico, per fortuna raro, dell’imbarazzo, perché si pensa che tutti sappiano e tutti cambino opinione su di noi. Emerge uno spazzolino da viaggio nuovo con relativo mini dentifricio. Il dentifricio si è solidificato ed è totalmente inutile, del resto anche lo spazzolino non ha avuto modo di fare il suo mestiere. Sotto c’è un mini colluttorio appena cominciato. Retaggio di qualche eccesso d’aglio e preparazione ad un incontro successivo. Poi trovo un utensile multiuso, due gélee Perugina pietrificate, ancora biglietti da visita, fazzoletti di carta extracomunitari, una serie di appunti e di numeri di telefono senza indicazione del proprietario. Qui mi fermo perché la cosa potrebbe continuare. Butto tutto o quasi e non oso aprire il bauletto. Mi pare che il portaoggetti sia stranamente vuoto, immemore. Ad ogni cambio macchina, semplicemente si trasferisce un contenuto. Questa era la continuità, e invece ora si ricomincia.

oltre l’apparenza

Ci sono almeno due casi in cui si argomenta/giustifica troppo: quando la realtà è diversa da ciò che appare e quando la realtà è ciò che appare, ma si vuole venga percepita diversamente.  In entrambi i casi si vuole agire su ciò che appare e per farlo si spiega troppo. 

Nel primo caso, quando dovrei dire ciò che in realtà è, spesso taccio, lascio che ci sia una percezione distorta. La fatica dello spiegare, dell’essere creduto, mi pare troppo grande per il risultato che lascia sempre un’ombra di dubbio in chi non si fida. L’apparenza è un buon crivello e se qualcuno va oltre le apparenze, dimostra fiducia, amorevolezza. Credo che la differenza tra chi ti vuole davvero bene e gli altri, sia proprio in questo cogliere la persona, andare oltre l’apparire, se necessario.

la vita sobria

Il cuore degli uomini, temo, dev’essere in continuazione fatto, confermato. E’ una verità ambivalente, ostica al desiderio di certezze e d’immutabilità che ci percorre, ma senza trarre subito dinieghi, pensate a quanto dei nostri giorni è rete di consuetudine, quanto si misura con tempi che non sono nostri e che neppure, forse, vorremmo, e quanto di noi è paziente costruzione, per capire che il rifarsi del cuore è un impegno necessario e costante. Ci si rende conto che l’educarsi al sentimento, all’affetto, alla percezione dell’altro, è l’opera nostra di costruzione del sé. Che questa s’affianca all’opera che altri, ben più forti ed arroganti, mettono in campo: la famiglia, la società che c’attornia, le convenienze, le regole, sino ai limiti fisici nostri confrontati con quanto si giudica forte, bello, adeguato. Chi non è bello secondo i parametri altrui dovrà scoprire la propria bellezza e di questa convincere il cuore per evitare l’infelicità. Come pure varrà per la forza e l’adeguatezza, il mediare con l’esterno il proprio benessere, sottoporlo, anche quando questo sia arrogante, ad una serie infinita di aggiustamenti che ne consentano l’equilibrio. E ciò vale per le conseguenze di questa ricerca al ben stare, ovvero il benessere economico, oppure quello affettivo, od ancora quello sessuale, ciascuno di questi esigendo un compromesso tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è davvero. E quanto l’essere, sia esso stesso un mescolarsi di evidenza e di parti celate, lo sa il cuore che trova in suo punto d’equilibrio nel parlare con sé, mostrandoci ciò che siamo davvero. Superata l’età della sfida, della ribellione senza pensiero di conseguenza, ciò che viene dopo è un’intrecciarsi di forze, di fili che collegano e tengono, ma che se s’ingarbugliano portano verso nuove, intollerabili, prigioni. In questo c’è un dipanare, un pensiero d’ ordine che mette priorità, un prima e un dopo, valenza nelle persone e nelle cose. Ed in questo ordinare interiore c’è molto del fare e dell’educare il proprio cuore. Usare la parola cuore per ciò che sta nel cervello, significa mitigare la lama della razionalità dalla propria insensatezza, il vincolo che ci metterebbe costantemente in decisioni che, proprio per la loro nettezza, prescinderebbero da noi e non sarebbero parte di quella educazione al vivere bene che in fondo fa parte di tutte le aspirazioni e di tutti gli eccessi che comprendano la vita e il vivere. Ma questo cuore, costantemente rifatto e confermato, è quanto di più nostro abbiamo, quanto possiamo mostrarci per riconoscere ciò che siamo e da esso partire per riconoscere come abbiamo vissuto.

Se un pensiero mi attrae con maggiore forza, è quello che per scelta, semplifica, riporta a sobrietà il ribollire barocco delle vite, l’uso interiore degli aggettivi (ci sono aggettivi interiori che c’illudono, danno la sensazione d’onnipotenza, portano a crederci eterni) che scatenano la meraviglia fugace e la disperdono in infiniti rivoli di senso, tanto che alla fine, d’esso non resta traccia, inghiottito com’è dal predominare delle abitudini e dei condizionamenti, cancellato dalle pulsioni soddisfatte e subito dimenticate, riportato in una perenne eccitazione al fare confuso con l’essere.

La vita sobria è una vita complessa che si scioglie in pensieri forti senza dominio, che c’accompagna in stanze che si liberano di pesi, in archivi virtuali che s’ordinano ed in scelte che quietano. Forse il mio rappresentare le vite come poligoni di forze, sempre mutanti in relazione a ciò che improvvisamente diviene importante e tira in una direzione, non è quello che vorrei, perché è un equilibrio che ferma il movimento e trova un compromesso statico in attesa d’una nuova tensione che rimodelli il tutto, ma vorrei piuttosto il conformarsi ad una vibrazione d’onda che percorra il dentro e il fuori, faccia sentire che s’è parte dell’universo e di se stessi assieme e che questo vibrare, talvolta, all’unisono, non è solo la felicità, ma la consapevolezza d’essere all’interno d’un mondo al quale ci conformiamo senza subirlo, e continuando a crescere. 

Insomma l’uno che prosegue la sua infinita corsa e ricerca che mai non avrà fine ed il tutto che si disvela mostrandosi per pezzetti di scoperta e meraviglia, includendoci e fluttuando assieme a noi.

Non si esaurisce nulla, il processo (il vivere) continua, e sapere d’esserne parte rimodella in continuazione il cuore.

la necessità

Tra tutte le angosce quella delle cose da fare, è la più subdola e paralizzante. Ti prende man mano, e sale dalle visceri finché la gola ne è stretta. E’ facile scivolare in una catatonia da rimando, con sensi di colpa crescenti e verso una fine vista come liberatoria: ho tradito la fiducia, verrò castigato, me lo meriterò, ma almeno sarà finita.

E’ una paura senza dimensione reale, e come tutte le paure ha una percezione distorta delle dimensioni, ma come dirlo a chi sente che deve fare qualcosa e non ne ha voglia, non lo vuole più fare, e se lo farà, dovrà coercire se stesso da sé. Non mi intendo di queste cose, ma credo che sia uno scontro tra super io ed ego, dove il secondo cerca di rifiutare qualcosa che gli costa e gli toglie piacere, od almeno la possibilità di averlo.  Il non rispondere viene sentito come minaccia all’integrità. Qualunque integrità, sia essa l’immagine o il corpo, e ne nasce una fatica, un dover fare, tanto che alla fine per uscirne, si sacrifica qualcosa, o noi stessi oppure chi attende qualcosa da noi. Quasi sempre nella percezione distorta del dovere si nasconde una domanda: perché devo farlo? E nella risposta entra in campo il giusto e l’ingiusto, il ruolo e la finzione d’essere davvero i protagonisti. Non essere agiti da, ma agire, fare, perché questo dà senso alla nostra presenza, come dovessimo giustificarla aggiungendo necessità all’essere.

Sappiamo benissimo che il sistema si aggiusterà da solo, anche senza di noi, ma quel noi conta finché ci siamo. Conta per noi. D’altronde è connaturato con l’idea sociale che stare assieme comporti una riduzione delle attese, il ridimensionamento della propria dimensione. Difficilmente si pensa che l’eccesso possa essere la regola ed in realtà, anche violando la costrizione del dover essere, si resta all’interno di questo corpo che tollera, ammette la trasgressione purché non si violi il meccanismo. L’apologo di Menenio Agrippa illustrava bene a chi era più sfruttato la sua dipendenza. Ma oltre il funzionamento sociale si deve pur dire che alla costrizione si aggiunge molto di personale, e, per aspirare ad una qualche felicità di sé, una griglia di ciò che è davvero importante e di ciò che lo è meno, si impone. E’ quando non se ne può più, quando la solitudine sembra il luogo per riposare, ed in realtà è il rifiuto degli obblighi, che l’urgenza vera è fermarsi, per capire ciò che conta.

Un metodo usato in grandi aziende statunitensi, per verificare se una persona serve davvero, è il viaggio premio. Una lunga vacanza regalo, e se nessuno si accorge della mancanza, al ritorno l’ indispensabile lo sarà molto meno. Se ne potrà fare a meno. Un metodo da caimani, ma se il principio si autogestisse, non ne verrebbe fuori un rapporto diverso con la società più prossima ? Togliere qualcosa di meno necessario, ogni giorno, abituare l’ambiente a provvedere a sé; il rapporto tra membra e corpo c’è ancora, ma è più libero e quieto, con pochi sensi di colpa. Per evitare il burning out, gli stessi che lo causano, lo consigliano: togli ogni giorno un 20% di non necessario, ma dammi integra ed efficace la tua prestazione. E’ sublime carnefice colui che riesce a convincerti a fare tutto e sempre di più, togliendo il non necessario alla prestazione: il massimo del risultato senza rivolte e con il massimo dell’approvazione. Questi schemi sono ben presenti nel lavoro e nella famiglia, tanto che la persona si pensa realizzata se riesce a fare tante cose, in poco tempo, così potrà farne altre e riceverne ancor più approvazione. La domanda terribile che viene soffocata nella fatica è: ma io dove sono?

Quando si fa un viaggio lungo, da distante molto appare ovattato, restano le cose davvero importanti che ci portiamo appresso ed il mondo, spesso con nostro stupore, va avanti comunque, tanto che al ritorno lo troviamo cambiato, ma anche uguale, cioè tutte le funzioni essenziali hanno proceduto nell’indifferenza nostra, ciò che è uguale è l’attesa di chi dipendeva da noi. E noi ci diamo da fare per recuperare il tempo trascorso, come si dovesse chiudere uno jato che ci riguarda.  Forse ci rassicura avere un’importanza, sentirsi necessari, ma in realtà riprendiamo un posto in un vagone che è andato avanti per suo conto. Capirlo ci darebbe la nostra vera importanza e forse un po’ di tempo per noi.

Anche in una struttura complessa si può agire diversamente; le supplenze, il darsi importanza attraverso il marginale, possono essere ridiscusse. Il se non lo faccio io non lo fa nessuno, è proprio vero? E se non lo fa nessuno è davvero necessario? Ora sembra tutto necessario, forse perché  non si sa dove andare altrimenti e noi ci facciamo davvero paura quando abbiamo tempo senza necessità di rispondere ad un ruolo.

In questi giorni, in cui vuoto cassetti, strappo biglietti da visita scaduti, comincio a far liste di ciò che faccio, non di quello che devo fare o farò; vederlo descritto fa uno strano effetto perché troppo spesso si agisce in automatico. Mi chiedo fin dove sono io e penso che bisogna discriminare e prendersi tempo, lasciare spazio alla necessità di avere il suo nome.

Forse se la necessità riprende il suo posto si capisce a cosa serviamo davvero.

di molti tempi c’è bisogno

“Per ogni agire ci vuole oblio come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità”

Queste sono parole di Paolo Rossi, un grande studioso della memoria, se le riporto non è per dare forza ad una asserzione, ma perché ne sono convinto. Se la memoria è un luogo in cui ci si può perdere, l’orlo dell’abisso di ciò che poteva accadere e non è accaduto, se si cade, di colpo la luce attorno scompare, e lancinante emerge l’assenza di futuro. E’ come se un buco nero assorbisse, con la sua immensa gravità, la luce. Abbiamo bisogno di sbagliare di nuovo credendo che non sbaglieremo. Per questo l’assenza di errore mi fa paura, come mi fa paura la fuga nell’esperienza che assorbe il senso, sento entrambe come il tentativo di dimenticare qualcosa che non vuol essere scordato, che viene seppellito e riemerge. Se invece venisse affrontato riaprirebbe il futuro, ma non accade perché di finzioni siamo maestri, soprattutto con noi stessi. Dei divoratori di presente è fatto il mondo, ma è il mondo della penuria non quello del benessere, un mondo in cui si ha solo paura di perdere, in cui si smarrisce il senso dell’acquisire. Ben essere, è qualcosa che è in equilibrio dinamico con la propria storia, il presente e il futuro.

Torno, in questo girovagare sulla memoria e sull’oblio, nel mio concetto di tempo. Ho la sensazione di un tempo che s’allunga, non ha limiti al progettare, non consuma, ma aggiunge e per questo può essere parco. Un tempo che può dare senza la fretta di consumare e non teme di perdere tempo, quindi un tempo che convive con la memoria, ma non la subisce.

Uscendo dal tempo cronologico si esce dalla necessità, le prospettive si dilatano, subentrano altri tempi, il kairos, il tempo dell’occasione, che non tiranneggia nel fare e riproporrà ciò che apparentemente si lascia, o il tempo del probabilmente, così presente in molta parte del mondo, dove l’uomo si affida alla propria volontà ed a quella del flusso del caso. Li sento presenti questi tempi e se, vivendo assieme ad altri, non sempre posso uscire dall’obbligo, sapere che posso vivere un mio tempo, mi regala una prospettiva diversa nella percezione di presente e di futuro.

Mi si potrebbe dire: illuso, non vedi ciò che perdi, non vedi che ti perdi? Ed io dovrei spiegare che non ho fretta, che progetto la mia vita e ciò che non ho fatto un tempo, non lo rimpiango, perché allora, era solo possibile, ma ora perché dovrebbe chiudermi la possibilità di fare, ed essere, con maggiore coscienza e gusto, senza l’obbligo di accumulare esperienze. L’esperienza adesso è vivere,  non guardare l’orologio per sapere quanto sto vivendo, credo che sia per questo che si dimentica e ciò che si ripete sembra nuovo. E’ come avessimo dentro due orologi da leggere insieme, quello biologico e quello emotivo ed entrambi ci dicessero la stessa cosa, ovvero l’inutilità di rincorrere il tempo.