Anna è andata via

Anna è andata via. Ha scritto: buone vacanze, ci vediamo al ritorno. Era una bugia, non è tornata e lo sapeva.

Anna non si sa dov’è, ovvero si sa, è il segreto di Pulcinella, ma le città grandi sono così confuse che è come non saperlo. La immagino in qualche posto pieno di voci e di persone, magari dimentica e non pentita.

Nel bar chiuso han fatto gl’ inventari: poca cosa, è bastata mezza giornata per bottiglie e mobili, ora addossati in gruppetti polverosi. C’è qualcosa di più triste del rimasuglio di bottiglia in un bar chiuso? Da Anna sì, ed è la libreria divisorio, piena di libri da scambiare gratuitamente. Credo, non l’abbiano neppure considerata. Sono merce a perdere il libri, come le idee che ci siamo scambiati la sera, tra uno spritz ed un crostino, come la musica delle serate affollate tra versi recitati e qualcuno che suonava jazz o Bach, indifferentemente, come i discorsi di mattina facendo freddare il macchiatone, come gli appuntamenti muti e gli arrivederci.

Inseguiva un sogno, Anna, quello di un posto dove ci fossero amici che si ritrovavano a bere, chiaccherare e sperimentare un tempo diverso.

Ha lasciato creditori insoddisfatti e fornitori desolati, Anna. Il suo sogno aveva un costo che noi, amici, non potevamo condividere oltre il limite del bere e del consumare. Aveva un sogno Anna, e ciascuno a suo modo, l’ha sognato con lei. Pensavamo di chiamarlo Jung bar, perché esplorava meandri rosso fuoco e distese di profondo blu. E’ rimasto uno psico bar chiuso che di notte fa tristezza.

Anche di giorno fa tristezza.

Ma aveva un sogno Anna, chi più chi meno l’abbiamo condiviso, per questo spero lei sogni ancora.

è tornato il gigante nel cortile

Mi sono svegliato di colpo, la piccola scossa precedente era stato appena un brivido, ma questa era lunghissima, sento cadere cose e libri, e continua, continua: 22 secondi ho letto poi. Il tempo nel terremoto, non finisce mai, anche quando la scossa è finita resta la sensazione e tutto sembra essere in procinto di oscillare. Ma intanto bisogna decidere.

Rivestirsi, che fare, uscire, restare, le scale sono anch’esse lunghe, la casa reggerà? I libri, i cd che volano dalle doppie file, frana una pila giornali. Devo riordinare questa casa e la vita. Mi mette allegria da naufraghi, una delle vetrine che s’è aperta ed è diventata un sismografo sensibilissimo, rovescia piccole collezioni per terra e tintinna in continuazione. Nell’altra casa avevo appeso al soffitto un triangolo da orchestra e il suo martelletto, suonava con le scosse anche piccole, qui sono i vetri che vibrano e si accordano.

Scendo in strada, qualche macchina si addensa nel piazzale, in prato ci sono persone oltre ai soliti, notturni, suonatori di bonghi e jembée, accendo un mezzo sigaro, torno a casa.

L’aria è frizzante di mattina, percorsa da aliti caldi di scirocco, è l’alba, ma le allodole tacciono, mi pare appena inquietante. 

Poi mentre leggo, a letto, arriva, più lieve e tintinnante, la scossa delle 5. Ricadono libri, mi giro e cerco il sonno in una quiete tesa.

Caro gigante che ti diverti a scuotere la casa, per favore sorridi e siediti a parlare con noi.

soprattutto

Stanotte la pioggia scroscia sul tetto e poi scende per la grondaia con un suono di toboga che si perderà nel sonno. Sento la casa calda, il libro che aspetta paziente, la molta strada fatta oggi. Sembra  tutto scivoli dalle estremità del corpo, mentre l’acqua, che entra con gentilezza, lava i pensieri sporcati nei contrasti e scioglie le arroganze del giorno. 

Se ascolto con attenzione, nel silenzio del vicolo sento il rumore di gorgo dei chiusini e delle grate che porta via utile ed inutile.

Via, soprattutto, verso il sonno e poi il giorno.

un gigante nel vicolo

Nello scuotere improvviso, c’è un singulto di stupore e di paura, poi la comprensione subitanea: terremoto. Dei pensieri successivi, parlerò, ma l’immagine che si forma in testa, e che si ripeterà nella scossa successiva, è quella di un gigante, ben piantato nel vicolo, che con le sue mani enormi ha abbrancato le pareti, e comincia a scuotere la casa. Chissà perché lo fa, c’è stupore, forse vuole misurare la sua forza, forse, oppure vuol far cadere qualcosa per sé, o ancora è per allegria sua. E’ l’una di notte, nel vicolo c’è il solito silenzio notturno e quel frullo che si sente ed accompagna la scossa, è un ansito soffiato del gigante, è il suo alito sulla nostra paura. Nostra? Mia, che sono in piedi a quest’ora e sento il pavimento scorrere, libri cadere e guardo inutilmente il soffitto alla ricerca di lampadari oscillanti che non ci sono. Ho messo faretti dappertutto, e adesso mi mancano i lampadari, come servissero i segnalatori di terremoti, guardo la pendola: si è fermata e l’altra,  ferma, si è messa in moto, ma intanto il gigante si è stancato.

Ci sono troppi libri in questa casa, è il pensiero principale adesso, pensiero aiutato dai tonfi delle cadute dei volumi sul legno. Questo pensiero mi assorbe, distoglie dalla sensazione di vuoto che sentivo sino a poco fa. Intorno non accade nulla, c’è un senso di sospensione calma, e l’inquietudine si rintana, è quella che attende la scossa successiva, quella che non arriva. Sono determinato a stare in casa. Ragiono sui 4 piani di scale da correre, troppi se c’è un disastro, e sull’età della casa: è vecchia quel tanto da aver visto e sentito altri terremoti. Queste sono case tirate su con quello che c’era, in anni di ricostruzioni dove c’erano i bravi e le canaglie, posso solo sperare che chi ha costruito non abbia unicamente recuperato materiali più antichi, ma sapesse cosa faceva. Concludo che non è l’ora, né per lei, né per i miei amici dei piani inferiori: possono continuare a dormire, loro. Non si muove nessuno. Guardo le finestre attorno, è tutto bujo, a parte il solito nottambulo cinefilo che si è affacciato. Solo io e lui siamo svegli, questo mi fa sentire più sicuro sull’entità del terremoto, ma sono anche, inequivocabilmente, solo nella notte. Guardo su internet e già ci sono le prime notizie: l’epicentro è vicino a Verona, la scossa è stata forte, ma senza danni.

Ho troppi libri, e giornali e carta, è la mia bulimia che ha accumulato e che non so come affrontare senza un dolore di perdita. Il terremoto, anzi il gigante, ha rimesso in evidenza questo problema di oggetti e spazi a disposizione. E qui comincia una riflessione sul mio modo di vivere, non riesco a fermarla neppure a letto, è un sonno difficile, con l’ inconscia attesa della prossima scossa. Non so che arriverà il giorno dopo alle 16, sono vigile, potrebbe esserci subito e più forte. Eppure tra “troppi” libri, terremoto incipiente e casa vecchiotta, il sonno arriva, segno che alla fine prevale la fiducia. Tanto che posso fare?

Del senso ironico del tempo della terra che si scuote, capisco il giorno successivo: è il nostro fragile umano tempo cronologico in discussione, la terra si muove di continuo. Le nostre serie storiche, limitate dalle nostre attese di vita, sono cronologie ridicole per il mondo. Sono ben attento a non scivolare nel relativo: ciò che vediamo e sentiamo è il nostro reale, siamo noi che scriviamo le storie che la terra scrive altrimenti. La sensazione della nostra pochezza annichilirebbe le sconsiderate volontà del costruire sul poco e sul breve e proiettare all’infinito, toglierebbe voglia di futuro all’uomo. Non è un gran valore, ci occupa di grandi personali considerazioni il tempo, ma è la nostra incauta misura, com’ è misura il ricordo, le serie storiche dei terremoti in val padana, rari per gli uomini, molto frequenti per la terra. Del resto non conosco forse, fin da bambino quell’abside interrotto di santa Sofia, rimasto incompiuto, dopo che un sisma aveva raso al suolo i resti dell’impero romano nella città. 800 anni sono un batter di ciglia per la terra, uno sbadiglio nei suoi milioni di anni fatti di brividi che noi annotiamo diligenti nelle nostre storie. Come fossimo osservatori di un’altro pianeta, attenti a questa palla color blù e fango, ma anche distaccati conservatori d’altre memorie.

E i miei affetti, i miei libri, le mie cose, mi riportano a me, al contingente che dilata nel tempo, non voglio vivere solo nell’attimo per fuggire il senso di morte che questo porta con sé, voglio il giorno come un mantice di fisarmonica che si dilata e suona, perché questa è la mia musica, la mia vita, di cui fa parte anche il terremoto e il rispetto per il gigante che mi lascia vivere, ma mi ricorda che qualche conto, non con lui, ma con me devo rinegoziarlo.

E magari saldarlo.

pioggia

Puntuale è arrivata,

fredda, sprezzante dell’incongrua estate,

mostra la metafora d’una falsa giovinezza.

Nulla è come prima e tutto continua,

adesso specchia il senso d’essere,

qui ed appena oltre.

Suadente di verità, racconta,

mentre, immortali per una stagione,

ci immergiamo nell’autunno.

4° piano

Il vigile che venne ad assicurarsi che effettivamente abitavo a casa mia, si appoggiò ansimando alla porta.

82 gradini, non voglio vedere la terrazza. Ma è sicuro che abiterà questa casa?

Certo, risposi, mi piace questo posto.

E quando sarà vecchio, cosa farà. Morirà per le scale con le borse della spesa?

Vecchio? Che vuol dire, che non riuscirò a camminare o far le scale? E le badanti, le mandiamo tutte a casa? Prende qualcosa?

Scosse il capo. Un bicchier d’acqua, grazie. Se ne avessi 10 al giorno come lei, sarei già morto. 

Il tutto finì in risata.

Quando sono arrivato in questo condominio squinternato, fatto di più o meno quarantenni, di aperitivi, di cene in comune, mi sono  ritrovato, addosso, un nuovo nome: belfagor. Forse in onore delle mie abitudini poco decifrabili, o degli orari strani, oppure della quantità di libri, musica e oggetti che ingombravano le stanze. Qualunque fosse stata la genesi, mi è piacque: un diavolo non vende l’anima.

Chi mi viene a trovare, deve averne davvero l’intenzione, non si è più abituati alla fatica, ma questo mi da un vantaggio: i miei visitatori soggiacciono ad una selezione naturale ed auto eliminano la domanda: che farai da vecchio? Al massimo scuotono il capo, pensando che sono senza speranza.  Io penso ai miei non pochi anni, e mi sento lusingato. Ma è così banale un piano terra, non ci sono i tetti, se non c’è un giardino non si vedono le stagioni. Ed è impagabile sentire il vento, la neve mentre copre i tetti, la pioggia sulle tegole, il sole fin dal primo mattino, le allodole di notte. Avere una terrazza sopra la testa, dove prendere il sole, tenere le piante, leggere, guardare i fuochi a ferragosto o a capodanno. Il piacere del posto e della casa elimina la fatica e il suo pensiero.

E poi c’è il bar di Anna, il Prato della valle a due passi, i portici, Gino, gatto proprietario del secondo piano, Fulvio, gatto dolcissimo e signore del vicolo, un pensiero variegato di sinistra che s’aggira per la casa e fa bene al cuore, non ci sono astemi, tutti sono a dieta e trasgrediscono in continuazione. Un luogo ideale per un diavolo âgé.

Allora che saranno poi 82 gradini? Meno di tre minuti di palestra.

grecale

Anime che cadono in vortici a spirale,

tardive foglie,

pacciamatura di vita,

ed il vento affila le sue armi,

spiana il prato, percuote, insinua.

Ironia nell’amore, che racconta di trame intessute d’aghi di pino,

mentre il vento leviga intonaci di fortilizi pieni di vuoto:

s’è aperta una porta, ha sbattuto una finestra,

ma gli ansimi, perdio, quelli sembravano…

Nel vicolo una bottiglia di plastica corre giocosa,

con rumori secchi tra gli stretti muri,

è solo vento che pulisce l’aria,

rimette ordine, sparpaglia carte di supermercati, foglie nascoste,

e porta pezzi di note, si lascia derubare

di sguardi, di svolazzar di gonne e di cappotti.

Dentro al bar, guardo oltre la vetrina.

Aspetto, 

mi parlano, e sento le parole che escono

via nel vento,

senza traccia.

 

l’odore di casa

Mi piace l’odore della mia casa. E’ odore di legno stagionato, di carta, di inchiostri e matite, di sole e di vetro. 

E’ odore di me e delle essenze che amo.

C’è poco odore di cibo, appena d’alcool e di vino, un leggero sentore di dolce. Traccia delle abitudini piacevoli e del mio eccedere nella golosità.

Si avvertono le spezie portate dall’Africa, gli agrumi, la lavanda, il caffé, il ginger, lo zenzero.

Nei barattoli, gocce d’incenso, della mirra, baccelli di vaniglia, il pepe e gli infusi: i thé, anice, Karkadé, la menta, misture strane create con le aromatiche di casa. 

Mi piace. E’ l’odore della mia casa, è l’odore di me quando sto bene.

 

 

la vita sobria

Un rivolo giallo, denso d’argilla si stacca dal cumolo di sabbia e sassolini nel vicolo. Lentamente conquista centimetri verso la grata, segue i principi del minor sforzo, della via più breve, mentre lotta contro il vento e la pioggia che dilavano l’asfalto. Sovrappone pazientemente strati di particelle impermeabili, in una scia che s’ingrossa sotto l’effetto dell’acqua: ciò che lo minaccia nel suo successo è ragione della sua crescita. Facile per un pensiero trasversale cercare analogie umane, regole che aiutino a capire. Quando si esce dal contingente, ma resta la sofferenza di fondo, i fatti hanno bisogno di elevarsi. Di assumere un’evidenza probante nell’epica delle nostre piccole vite. Far capire ciò che ci accade nel contrasto di forze che prostrano: l’essere, il dover essere. la propria natura, la ricerca dell’essenza. Proprio quest’ultima assume il rango di legge fondamentale, il cui sembiante sembra essere la vita sobria. L’equilibrio dinamico del non dipendere, neppure da sé.

Stanotte il vento ha giocato con i camini,  anche il rosmarino è stato coinvolto ritmando le folate sui vetri della terrazza. Ascoltavo nel buio relativo della città, e la vita sobria sembrava ad un passo, intrinsecamente quieta come il tepore del primo inverno.

Ciò che sembra minacciarci nel successo è ragione della nostra crescita. Basta trovare la legge che ri compone le forze, che senza assegnare posti, indica una direzione. In una direzione c’è posto per le passioni, la vita sobria le contiene, le enfatizza e le pone nel loro ruolo di motore della vita.

Non vorrei che qualcuno mi togliesse il peso, ma che il vivere assieme fosse un capire il senso e m’ aiutasse a mutarne la ragione nella libertà.

Il vento ha trascinato le nuvole nella notte, le ha addensate in pioggia, che ora scaglia contro il tetto, sui vetri. Suoni nervosi, ricchi di fretta di concludere, come i rapporti senza stima e condivisione. Mentre scie di goccie al buio s’ ingrossano e rincorrono veloci; a loro modo passioni che pongono regole individuali e non si mescolano alla furia del temporale. 

Vorrei scrivere con le goccie di pioggia, disegnare con la sabbia, costruire il mio mandala di regole talmente labili che solo la loro consapevolezza sia ferrea.

Dal cumolo di sabbia, giù in basso, inizia la lenta marcia del rivolo giallo verso il chiusino: percorso breve, minima energia per il fine, pazienza e costanza che governano, assecondando, il moto scomposto dei contrasti.

La regola della libertà, è la congruenza con il fine, non il fine stesso.

Particelle d’argilla si sovrappongono, procedono, conquistano. La vita sobria ha il colore meraviglioso del sole ed è sintesi di ogni forza scatenata nella notte.

 

Weber e la toponomastica: aggiornamenti

Halleluja, finalmente sono riuscito a far coincidere l’ingresso con il numero della casa.

La burocrazia é stata impagabile nella sua comicità inconsapevole: mi hanno dato un certificato con la mia autodichiarazione, ho apposto la marca da 14.62 euro, mi hanno spiegato che dovevo portare il tutto in un altro ufficio. E mentre stavo per andarmene, l’impiegato mi ha fermato, mettendomi in mano la targhetta col mio numero di casa. Una di quelle standard, bianche, contornate di blù, col numero blù.

 Fanno 3 euro e 82 centesimi, mi ha detto.

Ho chiesto se potevo averne più d’una, mi sembrava un affare. Chessò, con la cornice adatta poteva essere un quadretto da corridoio. Non ha colto l’ironia.

No, non è possibile subito, ma se la ordina…

E perché 3.82 e non 4 ?

Ha guardato smarrito i miei 50 euro e mettendomi in mano una quantità inverosimile di moneta, ha scosso il capo.

Non lo so,  ha mormorato,  forse il cambio.

Quale cambio? Col dollaro, con lo yen, con lo youan. Ricevete le quotazioni ogni mattina?

No, è l’euro. Si andava così bene con le lire.

Ho sorriso. Non potevo dirgli che 3.82 euro, in lire, non erano altro che una montagna di decimali.

E’ stato congedandomi che mi ha detto l’ultima cosa carina: non attacchi il numero al sole perché dopo un po’ sbiadisce, fino a diventare tutto bianco.

Va bene, lo metterò all’ombra

All’interno, dove nessuno può vederlo e la luce non l’offende. Tanto il numero all’esterno c’è già. C’è sempre stato.

Ma questo non potevo dirglielo, mi sembrava già triste a sufficienza.