errori di giudizio

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A scuola avevo buoni voti in Italiano. A mio modo, dicevano, scrivevo bene. E poi non mi mancavano i vocaboli. Sembravano cosa preziosa i vocaboli, ci costruivano persino i test d’intelligenza, però nessuno scavava i significati. Mi sarebbe piaciuto si scrivesse un tema su una parola, su qualcosa che alla fine si rivelasse a chi scriveva e a chi leggeva, sino al succo del significato. Per capire chi c’era dietro e dentro le parole, per capire davvero di più.

Ma non era questo lo scopo della scuola e sapevo la verità: non ero io a scrivere bene, erano gli altri che scrivevano male. Anche i professori scrivevano male, erano solo corretti, ma insipidi. Cosa si poteva trarre da tutto ciò, se non la percezione di chi scrive davvero bene e l’amore per le parole e la scrittura? Vizi che non valgono nulla se non il piacere che provocano. Ecco ho ricevuto un piacere che mi porto dietro per un errore di giudizio, di questo sono grato.

white christmas

Le lobbie marroni, i cappotti ben sotto il ginocchio, le camicie con i colletti a punta e le cravatte regimental di seta. Attorno tante luci, candele, scarpe nere che si imprimevano nella neve, suoni. Bing Crosby, white christmas, alberi enormi davanti al camino, pacchetti con fiocchi e carta translucida.

Qualcosa mi è sempre mancato all’appello, la soddisfazione piena era un attimo e già sembrava un’impressione. Nei giorni di vigilia, l’immagine americana del natale, qui a nord, veniva tenuta con il dito medio che agganciava il nastro del panettone Motta o Alemagna (io preferivo il Motta), c’erano saluti frettolosi per il gelo, mucchi di neve, chiazze di luce ben distanziate, sotto i lampioni. In periferia un freddo che faceva rintanare nelle case, finestre con luce gialla che si chiudevano al tramonto, fango, tanto fango, dappertutto.

In centro, i negozi erano pieni di luce sotto i portici. Ero contento di abitare in centro, ascoltare gli zampognari, e anche solo vedere i giocattoli era un vantaggio rispetto alla campagna che non aveva né luci, né negozi, né vetrine. Anche la neve si sporcava prima in campagna. Quindi se  non mi piaceva white christmas, me la facevo piacere nell’ illusione di una felicità incipiente.

Insomma ero già contento, ma mi sfuggiva qualcosa, come se l’assomigliare, nella testa, alle immagini patinate dei giornali o della pubblicità, non fosse sufficiente per essere felici. Non capivo che tutta quell’iconografia era la continuazione di babbo natale dopo la rivelazione che non c’era, che non esisteva un italian way of life, che le immagini erano la cornice, ma la storia la dovevo scrivere io. Ecco questo non me lo spiegava nessuno: sembrava tutto fatto ed invece era tutto da costruire. L’ho capito poi, ovvero quasi ci sono riuscito, ma qualcosa manca sempre all’appello.

2 agosto

Le mattine iniziano in un inquietante cielo azzurro privo di nubi, il sonno si è consumato in artificiali raffrescamenti ed ora inizia il cammino tra aria calda, condizionamenti, aria rovente. Ma è mattino, i fantasiosi nomi delle ondate anticicloniche punteggiano i brevi riposi di chiacchere all’ombra dei portici. Non si sta ancora troppo male, i muri hanno addosso il fresco della notte, sono ancora amici: se l’aria non è gonfia d’aliti rotondi di calore, si può camminare senza sudare troppo.

Andare, lavorare, pensare. Lo facciamo tutti, non ci pensiamo più di tanto. E’ questione di essere in posto anziché in un altro e se siamo lì, il caso irrompe violento e muta chi prima del fatto, era immerso nella sua vita, nelle abitudini, nei pensieri usuali e di colpo lo espropria della sua realtà. Mi chiedo perché nasca una discontinuità così violenta, per noi che consideriamo la continuità come la freccia del tempo.  Del nostro tempo normale. Siamo noi sbagliati nelle sicurezze, precari che ricacciano il pensiero della precarietà?

Quel 2 agosto di 32 anni fa, seppi dall’ autoradio della strage alla stazione di Bologna, era caldo, intorno avevo la campagna bella del delta del Po. Correvo piano per godere di ciò che vedevo e tutto di colpo divenne marrone sporco di polvere e afa e angoscia. Mi fermai, nel bisogno di capire, di fare. A quei tempi sembrava sempre necessario reagire. Gli attacchi si percepivano come rivolti a tutti: bisognava esserci, essere uniti. Ci sentivamo un corpo, che pareva unico nei momenti gravi, con mille divisioni ed indifferenze, come adesso, solo più unito. Bisognava fare qualcosa, la piazza, il grido, il silenzio, la rabbia. Bisognava. Attorno c’erano campi di granoturco, pannocchie e segni di trebbiatura, stoppie. Vedevo il marrone, l’oro e il verde onnipresente, come se la natura fosse altro da noi, immersa nell’estate sua diversa dalla nostra: summertime.

Stamattina ho sentito una testimonianza che diceva: per dimenticare, per seppellire, abbiamo bisogno di verità. C’è qualcosa di ancestrale in questo perdono che si esercita a partire dal colpevole, non può esserci oblio senza giustizia, non può esserci giustizia senza verità. 

Non so perché l’estate eccitasse così tanto i golpisti e gli attentatori, era d’estate, per loro, che la coscienza sembrava ottundersi? Non capivano che così facendo, venivano rigate le coscienze, e segni indelebili restavano, tanto da reagire, reagire sempre? Comunque fosse, qualcuno che credeva nella morte, non nella vita, la progettava per insegnare ai vivi, la paura. Ed il coraggio, allora, era vivere con la paura, non soggiacerle, reagire.

Oggi si reagisce meno, forse non ce n’è bisogno, oppure ci siamo abituati a più sottili e molto meno cruente manipolazioni di libertà e verità. Ma di quegli anni, di quelle estati mi è rimasta l’inquietudine, la sensazione di essere oggi meno forte di allora, assieme al pensiero che la verità dev’essere chiesta da molti, incessantemente, per emergere, per fissare una memoria e solo poi seppellire un’epoca, un’ingiustizia atroce.

Oggi non è solo caldo, è il 2 agosto .

matite

Mi piace temperare le matite, sentire l’odore del legno e della grafite: è il profumo delle vecchie cartolerie della mia infanzia. Ce n’era una vicina a casa, minuscola, un buco alto e pieno di scaffali con la carta, gli inchiostri, le matite, le file di colori esposte.  Andavo il pomeriggio, anche con una scusa, e m’incantavo a guardare le matite colorate e a pensare a tutti i disegni che contenevano. Dietro il banco, altissimo, c’era una signora, che a me sembrava bella oltremisura, come la maestra, alta, signorile. Sembrava in attesa che le servissero il the, e intanto vendeva, non i quaderni, ma i disegni colorati e le parole che si potevano scrivere. Quelle belle, nuove parole, che a fatica leggevo nei libri e poi compitavo nei quaderni.

I quaderni avevano la copertina nera, una pagina di frontespizio e poi le righe, sottili, azzurrine; le lettere formavano le parole, con sforzi sovraumani, si costringevano in quei binari, andavano a capo, si tenevano serrate o larghe come bambine in cerca di girotondi. Era un apprendistato ad una facoltà che, miracolosamente, metteva assieme quello che si formava sotto i ricci con la realtà e, pensa un po’, restava fermo, anche dopo che i pensieri erano andati, pronto ad essere riletto, rivissuto. 

Non ho più smesso. Da sempre mi piace scrivere con le matite tenere, sentire il taglio netto del temperino, vedere la scia di grafite che scorre veloce sulla carta. Se tengo stretti gli odori del passato è perché mi piacciono adesso, non rimpiango nulla, ma farei un profumo che odora di cedro e grafite temperata, lo chiamerei graphis, oppure mots, od anche lettere. Ne metterei poco sul collo e sulla punta delle dita, e lo annuserei per scrivere nel pensiero.

In silenzio, guardando dentro e fuori, quando l’aria è dolce.

l’età dell’immagine

Questione d’attrezzatura e di reticenza, un tempo le foto, si facevano nei momenti memorabili del vivere, il matrimonio, il militare, appena nati, o da vecchi, erano patrimonio di famiglia, un legame di persone più che uno scorrere di tempo. Quasi sempre i visi, le espressioni e le idee che esprimevano, erano così paradigmatici che la giovinezza, la funzione, e l’esserci venivano privati del contesto, per cui non c’era confronto di modi d’essere. Uno non poteva dire: cosa pensavo, chi ero? Perché quando articolava il pensiero era esattamente, o quasi, come nel momento in cui era stato fotografato. Le foto venivano fatte per lasciare una traccia del soggetto, una testimonianza che non si sarebbe perso nel gorgo dell’anonimato: lui, per sé e per gli altri, c’era stato.

Guardo una mia foto da giovane, la barba nera, folta, i capelli ricci, l’espressione, il sorriso è di quegli anni, così diversi e aperti. Forse aperti perché molto sembrava possibile, quasi tutto. Non sono anni confrontabili con gli attuali e non solo per motivi di età, ho la sensazione che il mondo nel frattempo si sia chiuso. O forse sono io che mi chiudo? Il mondo cambia e mi cambia. Mia nonna aveva vissuto in un’epoca in cui era nata l’automobile e l’aereo, con una grande guerra mondiale poi seguita da un’altra ancora più immane, eppure chi non moriva, chi tornava a casa, era, sì, segnato dall’esperienza, però aveva un cielo di stelle fisse che mutava lentamente: il lavoro, la sua organizzazione, gli oggetti, le abitudini, lo stesso svago, lo sport erano delle costanti. Quindi la società rassicurava e permetteva di assimilare, di crescere assieme. La cosa assomigliva al moto lamellare dei liquidi o meglio al Mediterraneo che cambia le sue acque in oltre un secolo e quindi si modifica con lentezza verso l’esterno.

Guardo i calzoni nocciola a zampa d’elefante, li ricordo bene, erano senza tasche, non sapevo dove mettere le cose ed avevo un borsello di pelle che mi sembrava ridicolo, dovevo farmi violenza per portarlo. Anche la camicia a disegni serpeggianti, attillata, la ricordo bene. Nello sguardo c’è il sentore del cambiamento: lo so che il mondo sta mutando, mi sento dentro al flusso e un protagonista. Non è solo questione di moda, noi tutti, ci sentiamo attori di qualcosa che interpretiamo. Interpretare è la parola giusta perché non si capisce bene cosa stia accadendo davvero, ci sono sogni, lotte, consuetudini nuove. Si usa molto la parola rivoluzione, ma ha un significato sociale, si riferisce alle persone e ai rapporti, non agli oggetti. Forse la cosa più innovativa che ho è un’auto, una ‘500, e un calcolatore Texas che riesce a fare calcoli complicati per il regolo. Il resto è consolidato, la tv diventa a colori, ma è più o meno la stessa minestra. Il consumo non è ancora un problema, l’ambiente sì è un problema, ma nessuno se ne accorge che sia una priorità.

A lato c’è, posato, un cappello rosso, texano, che mi ha seguito per moltissimi anni e che anche mio figlio ha poi conosciuto e adoperato, finito non tanti anni fa in una stagione di tuffi e nuotate a Pantelleria. Quel cappello è del ’67, ha un significato di liberazione. L’ho portato nel primo lungo viaggio in auto in centro europa, alla frontiera tedesca mi hanno fermato per un’ora e mezza per capire chi ero davvero. Mi pare una medaglia questo essere oggetto di curiosità, in realtà è espressione di quel vivere in un limite educato, dove la trasgressione non è violenza esplicita, neppure cambiamento radicale o liberazione integrale del corpo e del sé, piuttosto mediazione tra il nuovo di cui mi pare di essere parte e quello che vedo, sento e interpreto, con gli strumenti che ho a disposizione.

La novità vera è che quella foto non è confrontabile con le precedenti, non è una testimonianza per qualcuno, è solamente un immagine, adesso sopravissuta con poche altre. Il vero mutamento di civiltà è la gratuità di quell’immagine, che non ha un fine o un uso, può essere semplicemente una merce di scambio che parla di un momento. Ecco in questo, pur fotografando molto già allora, non riesco a cogliere se non un dato documentale privato, mentre in realtà la rivoluzione è già avvenuta e l’immagine è diventata pubblica, non contestualizzabile nel privato solamente, neppure più proprietà del soggetto. E’ un certain régard sulla realtà, e lo sguardo si sposta dai simboli a ciò che questi significano all’esterno. Da allora, dall’epoca Instamatic e Polaroid, l’immagine diventerà essa stessa civiltà fino al dilagare incivile e ridondante del digitale che esclude il vedere per la gran parte di ciò che fissa e vede, accumula e getta in una fornace archivistica priva di sbocchi. Non è il mezzo sotto accusa, ma manca l’interrogativo sul significato sociale della nuova civiltà dell’immagine, sul suo dirci: cosa, come, a chi serva. E parli del suo utilizzo sociale, di come esso muti e ci muta, come tutta la tecnologia che facilita e non si assorbe, ma ci cambia e riserva ad altri il compito di stabilre cosa e come potremo fare delle nostre vite.

Era solo una foto sopravissuta, non aveva altri significati, i colori tendono tutti all’ocra e al marrone, solo il cappello rosso sta a fianco come un punto fermo di pensiero.

seggio campione

Chi era nel seggio della piccola frazione, seggio campione, raccontava il voto e lo scrutinio come cosa epica. Alzava il mento e la schiena nel farlo, poi parlava lasciando angoli di discorso appena accennati, che erano, si capiva, parte di una storia singolare. Un anno in cui c’era particolare animosità e concorrenza, nel seggio, dove tutti si conoscevano fin da ragazzini e ne avevano viste di cotte e di crude assieme senza mai confondersi tra baciapile e mangiapreti, però tutti partecipando della vita degli altri e all’occasione dandosi una mano, tutti, dico tutti, anche il segretario di seggio, che stava zitto perché tartagliava, convennero due cose preventivamente: che le nulle (le schede) erano quelle in cui non si capiva davvero cosa si volesse votare, e che il divieto di bere alcoolici nei seggi, era giusto sì, ma riguardava solo i seggi altrimenti diventava una punizione ingiusta.

Concordato il primo punto, si convenne sul secondo che una fiasca da venti litri fosse a disposizione di elettori e scrutinanti allargati, ovvero scrutatori, rappresentanti di lista, amici nullafacenti, nonché militi che volessero sospendere temporaneamente, a turno, il servizio ed infine il segretario, a cui fu dato compito di predisporre appositi buoni da consegnare alla bisogna assieme al bicchiere, per aver conto dell’effettiva disponibilità di “rosso”. Sul colore del vino si accese una disputa non da poco, che considerava il colore come evocativo d’una parte politica e quindi non nominabile nel seggio. E poiché le domande dei votanti erano specifiche e circostanziate sul tipo, colore, provenienza, decise, com’era giusto fosse, il presidente di seggio, vecchio democristo, nell’ affiancare alla prima, un’altra fiasca di “bianco” e lasciare, oltre alla libertà di voto, faticosamente conquistata, anche la libertà di bere.

A mezzogiorno, un servizio di ristorazione predisposto dalla locale sezione dei rossi, arrivava con un paniere nel seggio, e all’interno, pane, prosciutto, salame, uova sode, focaccia, ben commisurato alla fama di un partito, guidato sì da intellettuali, ma spinto e fatto crescere da operai e quindi abbondante e preventivo per le fatiche che certo sarebbero arrivate, perché l’inazione era fatica più grande del lavoro fisico e le ore di seggio erano tante, e lunghe, e con il pensiero a tutto quello che restava in disparte e si sarebbe dovuto fare nei giorni seguenti lavorando il doppio.

Per non essere da meno, anche il partito bianco portava il suo paniere ben fornito di pane e soppressa, e pure uova, salami e dolci, perché se la politica divideva, le abitudini, il lavoro in fabbrica e nei campi, univa. I socialisti con discrezione, ma senza soggezione, pure avevano un loro paniere, del partito provinciale questo, ed essendo di analoga vita e frequentazione, pur essi mostravano salami, formaggi e sottaceti. Ed era tutto uno scambio, un assaggiare, un mettere in comune, confrontando e sfottendo, ma tutti ridendo. Repubblicani, liberali, e financo il missino, senza salmerie, erano coinvolti e pur neghittosi, a bocca piena, ripetevano sia la bontà del cibo, sia la storia del piatto di lenticchie e che loro non si vendevano per un pane e salame, erano in amicizia, ma il voto poi, e lo scrutinio, erano tutt’altra cosa da questo condividere, da questo clima allegro e fraterno. E tutti a dire che, come poi effettivamente era, che non c’erano cedimenti in questo essere insieme a mangiare, che l’amicizia era un conto e il voto, la politica, un altro, e che no, non si confondeva il dovere con il piacere, tutto era nei limiti e nella moralità dell’agire politico senza tentennamenti. 

I più imbarazzati a questi discorsi erano i “rossi”, perché l’idea della rivoluzione non era mai stata abbandonata del tutto; alcuni erano stati partigiani, altri avevano partecipato alle dure lotte in fabbrica, sopportato le discriminazioni, e non si poteva, proprio non si poteva dare tutta la confidenza, per cui era tutto un susseguirsi di battute frenate, di tu e i tuoi, di e che ne dici di…, di ti ricordi di … che neppure attendevano le risposte come definitive, ma erano solo un alleggerire la piccola sensazione di intesa con il “nemico”.

Ma c’era molta creanza, il segretario distribuiva buoni e bicchieri e nelle lunghe ore di ozio si parlava di tutto, del paese, dei figli, delle difficoltà, dei matrimoni giusti e sbagliati, delle nascite in corso, del lavoro che c’era e mancava assieme. C’erano pochi votanti, in quel seggio campione, la frazione era stata importante, ma poi era stata spopolata dall’emigrazione e dalla chiusura della cartiera, lo scrutinio era breve. Nei segni si riconoscevano le mani di chi era entrato riverente e chi spavaldo, di chi voleva sentirsi dire conosciuto e non mostrare il documento (erano tutti conosciuti, ma si diceva ogni volta ed era bello sentirselo dire), delle donne che avrebbero volentieri evitato quella cosa da uomini e delle ragazze che avevano il vestito nuovo e sorridevano molto ed erano più sicure dei ragazzi, dei ragazzi che avevano già le mani grandi dei padri e dei vecchi che si fermavano a parlare e non se ne andavano. Insomma si riconoscevano senza dire, tenendo chiuso nelle teste il segreto del voto e senza dire nulla, al più c’era qualche sorriso scambiato sottecchi tra scrutatore e rappresentante di lista, come a dire: ecco è uno dei nostriPrima che arrivasse il ’92, chi sapeva di politica era in grado di scrivere i verbali di scrutinio, una settimana prima del voto, sbagliando al più di un voto, e pur se tutti sapevano come sarebbe andata a finire, pure lo scrutinio era atteso, e vissuto, con trepidazione virile, ossia ferma e battagliera.

E dopo aver combattuto su ogni voto possibile, chiusi i verbali, salutati i militi, consumati e bevuti gli ultimi avanzi, chi a piedi, chi in bicicletta, si avviavano verso casa. Era comunque sul fare della sera, per non essere da meno degli altri seggi, e andavano verso una luce gialla, verso le domande curiose di chi era a casa, verso la ripresa della vita conosciuta. Finiva tra i ciao e gli alla prossima, e gli a domenica e i ci vediamo. Finiva, ma non finiva.

Credo di aver sempre saputo perché era davvero un seggio campione.

tilt

Il dottore la prendeva mettendole le mani ai fianchi, lei ferma sulle gambe e lui, sinuoso, muoveva le anche, la assecondava, con le spalle che assumevano un ondeggiare di danza. Non si girava mai, a volte si stendeva su di lei, alla fine soprattutto, e l’impressione era quella di un rapporto intonso, esclusivo. Il dottore, studiava medicina, giocava malamente a poker, fumava e tossiva molto. Il suo amore per il flipper era assoluto, e nel flipper versava gran parte del suo mensile di studente fuori sede. Eravamo in tanti innamorati di quella macchina, ma non con lo stesso trasporto e infatuazione, Il nostro era un amore a singulti, alimentato dal fascino sensuale che partiva dall’immagine, dal cinguettio dei rimandi elettromagnetici, dalla neghittosità che la pervadeva nell’essere violata. A noi piaceva vincere subito, di forza, e si vinceva una o più giocate, per il dottore, invece era un coito che aspirava ad essere perennemente sospeso. La sua passione era condurla sino ad un momento prima del limite che sospendeva la partita, il tilt, come fosse una questione di danza, di movimenti accompagnati. Nel bar c’erano due flipper, lui giocava sempre con lo stesso, quello che aveva una bella ragazza in mostra, vestita da cowgirl, con le luci in posizioni strategiche. Quando si giocava a poker, i flipper disturbavano, spesso li staccavamo, ma se c’era lui, ci si adattava. Credo per rispetto e per imparare. A volte si sospendeva la partita per guardarlo. Chi ha giocato con i flipper elettromagnetici mi capisce, non era solo questione di rimandare una bilia d’acciaio con le palette, ma di controllarla, accompagnarla facendola partire per trajettorie diverse. L’abilità consisteva nel far scorrere la bilia sulle palette sino al punto giusto e poi farla schizzare. E il sogno era che i funghi, si illuminassero a ripetizione suonando, che la bilia restasse imprigionata in un gioco di rimandi, che oltre ai punti, vorticosi di suoni, le trajettorie la tenessero in gioco. In eterno. Il dottore era un asso, nel trovare un accordo con la macchina, nel far volare quella bilia, tra funghi, ostacoli, molle, lampadine, elettromagneti, come fosse sospesa, fermando il tempo, mentre tutto avveniva con una velocità incredibile. Raccontavano di tarature delicate dell’interruttore del tilt, e pareva l’aggeggio, fosse una goccia di mercurio sospesa tra due  contatti, che chiudeva la partita, se agitata troppo, quindi bisognava muovere la goccia, senza vederla o sapere dov’era, sino all’ attimo prima del contatto. E si diceva, che per lui, per il dottore, dovessero tarare ogni volta con più precisione, per impedirgli di vincere troppo spesso. Favole da bar, quel che è vero, è che lui ci parlava davvero con la macchina, a bassa voce, non con le nostre imprecazioni, con gli scossoni e i pugni, lui, aveva la macchina sui polpastrelli, sui palmi, nella testa e la muoveva con forza gentile, suadente. Preso, presa.

Tilt è stata la prima parola inglese di cui ho capito davvero il significato profondo. Mi è tornata in mente, qualche giorno fa, quando ho letto della morte da centenario, di Steve Kordek, uno degli inventori del flipper. Era una parola, allora, molto usata per definire uno stato in cui spesso precipitavamo davanti alle difficoltà, ma non era definitivo, era un momento e poi la partita ricominciava. Anche nella vita, cosa non da poco.

Il dottore si è laureato, un po’ tardi, uno sfigato direbbero adesso, ha fatto il cardiochirurgo, il primario. Mi piace immaginare nella sua casa, un vecchio flipper in soggiorno e che le sue mani abbiano ancora lo stesso amore.

l’età dei sogni

Ho vissuto dentro due sogni, li ho sognati con passione ed abbandono, credendoci, poi sono cambiato con loro che cessavano man mano di essere gli stessi sogni, od almeno così mi pareva. Ma i colori, la forza rimanevano. Sono una persona fortunata, mi piace il futuro, non vivo di rendita su ciò che è stato, ma ho potuto sognare e ancora mi succede. Chi ha avuto un amore è ricco, chi ne ha troppi, a volte, è confuso. I miei sogni giovani erano nati poco prima del ’68, così c’ho creduto subito e ho amato quei giorni, mi pareva d’essere all’interno di qualcosa che mutava il mondo. Mi pareva, anche perché vivevo quel sogno, mi modificava la vita ed io accettavo lo facesse. Mi pareva d’essere situazionista e qualche anno dopo, diventai comunista. Non era un sogno d’accatto, di serie b, era la prosecuzione all’interno di una struttura di pensiero ordinata, del sogno di cambiare il mondo. Forse è difficile adesso spiegare cosa siano stati quegli anni prima del terrorismo, ma c’era l’idea che il mondo potesse mutare profondamente, che parole come eguaglianza, pace, solidarietà, libertà potessero essere attuate appieno. Si discuteva molto, di tutto, si muoveva la vita dal personale al sociale e poi questa tornava indietro, in un flusso circolare che non finiva, ma si arricchiva, ingrossava in continuazione di idee. Molte scelte di vita furono fatte in quegli anni, qualcuno dei compagni più radicali nel cambiare la vita, ancora lo vedo, realizzato nel suo essere davvero alternativo.

Il 3 febbraio del 1991, Achille Ochetto, ultimo segretario del PCI, scioglieva il partito. Era tempo, doveva accadere, ma non si scioglievano le idee, si scioglieva la loro attuazione, la struttura, si cambiavano i fini. Un partito è un’organizzazione con scopi e obbiettivi, in un partito ideologico i fini coincidono con obbiettivi molto alti di cambiamento sociale e individuale.  Bisognava chiarire quello che sarebbe rimasto dei sogni, non fu fatto e ciò che è nato dopo è stato un insieme di tentativi che, partendo dal conosciuto, puntavano su qualcosa che non si capiva bene cosa fosse, la cosa fu per molto tempo il vero nome di quello che non poteva più essere un sogno. Parlare di quei giorni non è facile a chi non li ha vissuti, percorrevo il territorio, partecipavo come relatore di mozione ai congressi, ero occhettiano, mi pareva fosse la prosecuzione del pensiero di Berlinguer, un uomo che avevo amato per la coincidenza tra parola e vita, e volevo cambiare per non rinunciare ai sogni. Ma le lacrime, gli interventi appassionati, le rotture di chi non condivideva, non li ho scordati, erano di persone che non ho smesso di apprezzare e difendere, persone che quasi sempre avevano dedicato la vita ad una idea di cambiamento, di giustizia sociale. Adesso è difficile pensare che qualcuno sia disposto a sacrificare molto per un’idea politica, piegare una vita per difendere un principio, una legge di libertà, opporsi in una città in preda alla malavita, difendere una fabbrica e i suoi lavoratori. Allora accadeva, anche se non si era di quella città, di quella fabbrica, anche se la legge non l’avremmo mai applicata su noi stessi. Significa che i sogni finiscono all’alba, che siamo nel giorno e quindi nella realtà, oppure che ci sarà spazio per tornare a sognare? Io punto sulla speranza che l’uomo non finisca di credere che si può mutare il mondo, essere uguali, avere giustizia. Certo non posso pensare che sarà Monti a farmi sognare, non vedo leader che possano, con la forza della convinzione e dell’analisi suscitare passioni grandi. In fondo anche i tecnici sono lo specchio di questo sonno senza sogni. Però magari un po’ per volta, qualcuno comincerà a parlare del grande inganno che si consuma a carico dei giovani e dei deboli, qualche professore si rifiuterà di essere tranquillizzante con gli allievi, qualche docente universitario ascolterà la miseria giovanile e parlerà diversamente. Non rassicurerà sul merito, non spaccerà la cultura come fattore di successo, ma riporterà le cose nella realtà, ovvero dirà: studiate per capire, ma prendete in mano la società, rendetela più giusta, più eguale, più libera. Fatelo voi, dirà ai giovani, noi ci saremo.

Se saranno molti questi disvelatori della realtà, e se li cacceranno, e qualcuno comincerà a difenderli, allora il mondo tornerà ad essere reale.

E il sogno riprenderà, perché della realtà hanno bisogno i sogni. 

la chimica

A me non piaceva la chimica, era l’idea dell’alchimia che m’attraeva. Senza saperlo, ero antiscientifico, puntavo allo spirito delle cose. E le cose, si sa, non hanno spirito, ma mica lo sapevo, anche adesso ho qualche dubbio. Però poi ho scoperto che anche molte persone non hanno spirito, spesso neppure ironia. Peccato, a me l’ironia ha aiutato. E anche la chimica. Ne ho fatta molta e malamente, l’ho trattata come le altre cose che ho studiato (si fa per dire),  poi non usate in nulla di quello che ho fatto. Però tutto è tornato a galla, adoperato per capire altro. Una spinta d’Archimede per una mente inutile immersa nel mare dell’utile, oppure il contrario (?), non importa basta che galleggi. (E non fate battute sulle zucche, usate la fantasia, grazie)

Dai miei pensieri stechiometrici ho appreso a pesare molecole e valutare energia, mi riusciva bene, ho pensato di trasferirlo nei rapporti tra persone, ma se quasi tutto si combinava, i risultati erano imprevedibili. Quindi la chimica mentiva? No, mentivamo tutti, ovvero avevamo verità non condivise.

Il sublime nitore d’una molecola,

questo dopo resta di un amore.

L’usare delle notti i colori insonni,

tornasole di sofferenza,

e poi da siderali distanze, guardare,

la termodinamica degli amori,

esempi  di stelle assortite e universi d’antimateria.

Nane bianche, la cecità, la rabbia, la gioia,

scontri d’energia,che

scomposti, sono chimiche di bisogni,

così, a volte, l’attrazione genera molecole semplici

che s’aggregano nel desiderio di creare la terra

in cui rinascere.

La chimica ha un ritmo di tango, scarta e lascia aperta una porta, muta e non trasmuta. ecco la differenza con lo spiritualismo che accompagna chi dal fare muta sé stesso. Anche questa idea della scienza come flusso e danza era una pazzia. La mia insegnante di chimica analitica, apprezzava più quello che scrivevo che quello che facevo, ma mi insegnò a capire che si trova quello che si cerca e che il caso è amico del genio, ma che quest’ultimo è raro, proprio come il caso. Non mi piaceva il determinismo, mi piacevano i colori che nascevano negli incontri tra reagenti, vivi per un attimo, poi nuovamente statici. Go and stop, in attesa di nuovi disequilibri, regalavano nuvole di bianco denso, aranciati, blù notte, verdi mutanti, rossi finalmente non banali, il tutto in variazioni che ogni volta mi sorprendevano. Già usare lo spettrografo mi pareva una diminuzio, mi toglieva il piacere della ricerca sistematica, ma se lo pensavo come una mano che contava e guardava le biglie colorate messe nel palmo della mano era solo un avido, petulante compagno di gioco.

Capirete che con un simile approccio non poteva uscire un chimico dal frullatore. Me ne resi conto subito, però seguendo il principio che utile è ciò che si adopera, accolsi definitivamente il tutto nella tavola periodica del vivere, e qui vi racconto quello che da allora inseguo, con la riserva di copyright, naturalmente. L’idea della periodicità e l’idea del ripetersi nella differenza, assomigliano molto agli umani. Ancora più in dettaglio, la ripetitività nei sentimenti è una costante della vita dell’uomo, e se si racchiudono le fasi dell’attrazione, dell’instabilità, della successiva stabilità, della possibilità di trasmigrare in nuove configurazioni, nel cambiamento chimico fisico che accompagna la vita, la similitudine regge. E’ arbitrario, ma tutto questo assomiglia molto alle configurazioni degli elettroni esterni, tanto più reattive (aggressive) quanto più lontane dalla completezza. Molto d’altro ho idea possa racchiudersi nelle qualità degli elementi, alla ricerca di stabilità attraverso l’aggiunta di qualche elettrone che poi ne muta figura e qualità, questo giustifica il pensarci da parte mia. Sapere quando siamo alogeni, metalli, semi metalli, gas nobili, ecc. aiuterebbe a dare l’idea del mutare costante e dell’essere altro. Questo corrisponde all’idea di flusso e non ai cassetti in cui il sociale tende a mettere gli individui. 

Vedo già la riprovazione negli strutturati, in quelli che sanno quello di cui parlano, ma rassicuratevi con queste idee non si poteva andare da nessuna parte che inquinasse il mondo di perfetta solidità del sapere vero. Ho fatto danni altrove. 

sotto valutare

Di molte persone conosciute negli anni del ribollire, conoscevo anche una seconda attività. La passione vissuta altrove. Chi recitava, altri suonavano, non pochi scrivevano, fotografavano. Tutti facevano altro, era un essere accessorio. Sottovalutato. Eppure era quello vero.

Scopro in una pagina di internet, una locandina di qualche anno fa. Il regista è un mio antico compagno di sindacato, ora scomparso. Di lui mi ricordo gli interventi sempre un po’ a sinistra mia, poi basta. Il sindacato, le categorie, sono fortilizi. Anche allora, faglie di mestieri, ciascuno difendeva competenze che facevano scomparire gli uomini.

Accadeva ovunque, del ragionar per circoli. Del mio compagno di banco in consiglio provinciale, conoscevo la passione politica, il parlare che si ascoltava molto, il mestiere di dirigente puntiglioso. Uno scassacoglioni dicevano i sottoposti, ma la sua passione per la danza non la conoscevo. E mi sorprese vederlo ascendere come organizzatore di stagioni importanti di spettacoli.

Ho ignorato abbastanza, non mi sono stupito a sufficienza degli amici scultori, dello scrittore avvocato poi famoso, del notaio pittore, ma anche dell’insegnante di istituto d’arte, le cui opere fotografiche sono al Moma, e poi dei chirurghi poeti e pittori, dello psichiatra che scriveva testi teatrali. Mi è sfuggito l’importante sotto la coltre di ciò che sembrava il centro della persona, ovvero la politica o l’abilità professionale. Quello che aveva un valore economico o sociale. Devo dire che analoga sorte toccava a me, si stupivano i miei compagni di lavoro o di politica, del fatto che scrivessi, o fotografassi. Ci si rideva su assieme per un poco e si passava ad altro, in fondo nessuno vuole veder dietro l’apparenza: è troppo coinvolgente.

Però l’importante era l’altra natura. Il doppio che riservavamo a noi e ai pochi che potevano capire quanto fosse vitale. Il doppio, ovvero quello che non mostriamo con facilità, quello a cui teniamo e che contiene i desideri, l’essenza di noi. Anche il dolore di non essere contiene, la fatica della maschera dell’altro, il tempo che manca, l’insoddisfazione, la penombra della libertà. Il doppio contiene la reale misura di sé, ciò che vorremmo esibire, ma non si può, se non quando prevale il successo, il valore economico appunto.

Il dilettante si diletta dell’opera sua, la tiene come proprio piacere e dannazione, e su questa costruisce un io altrettanto poco vero dell’altro, perché non può vedere la luce, mostrarsi.

Il doppio, il bagatto. Scandagliate, scandagliate tanto non mostrerete, spesso neppure a voi stessi, la vostra vera natura. Si dovrà leggere tra le righe, andare per percezione, come se l’unica vita vera non fosse quella esterna, ovvero ciò che si mostra, e cogliere invece l’altra che s’agita altrove. Questa sì, più importante e vera.

Adesso sono più attento, ho perso troppi pezzi sull’apparenza. Il metodo è togliere il giudizio, cercare di capire dove sta davvero chi mi è davanti, non tutti ovvio, ma solo chi m’interessa. E cercare di capire più le passioncelle, che i titoli o le abilità.