Oltre i vetri case lavate dalla pioggia, e finestre chiuse per l’acqua di stravento. Nei minuscoli giardini s’agitano palme con secco battere di foglie che sembra applauda al tempo. Ci si stringe attorno, si rinserrano persiane e scuri, ma non del tutto, restano pertugi e occhi del tempo altrui curiosi. In cielo nuvole tozze e grigie, e raggi di luce che radono i profili. Nella vasca dove son nati, due piccoli piccioni, mescolano le piume infreddoliti, la mamma li copre, prima l’uno poi l’altro, assieme e guardo loro e i rosa e i gialli degli intonaci carichi di pioggia, come se in essi l’inatteso avesse un senso arcano. Con noi e senza di noi, muta tutto attorno, così l’emozione prende e rinserra il cuore come casa e nume, come porta che resiste al tocco, e si chiude nel bene che l’attornia. Si pensa il proprio stare, terra fertile, nutrice di ricordi e fiori di campo senza necessità d’un nome, ma la sera cala come lacrima, per dire: ancora di nulla e di tutto m’emoziono. Storia potente è il vivere e la vita.
C’è una linea del caffè che definisce la stanchezza. Quante volte l’ho superata immemore e consapevole, vantandomene spesso e contando sull’invincibilità del corpo, sul suo abituarsi alla fatica, sul fatto che bastava poco per essere pronto a nuove prove. Superavo la linea e non ascoltavo ciò che già sapevo, cioè che le sensazioni si sarebbero attenuate e tutto sarebbe diventato una poltiglia grigia in cui l’importante era finire. Ora capisco meglio che non è la forza quella che porta a superare il limite – e neppure il coraggio o l’abbrivio che nasce dalla volontà– ma la mancanza di uno scopo che includa e comprenda, una confusione su chi davvero sono. Arrivare agli anni tardi e non essersi almeno intuiti, arrivare a una ginnastica di aperture e di chiusure basate sul superare in continuazione il proprio limite, non è mettersi alla prova o essere vitali, ma essere in un pantano in cui è difficile procedere verso se stessi. E’ pensare troppo a noi, se si capisce di più ciò che non ci soddisfa nel superare il limite?
Nell’avvicinarmi alla linea del caffè, ora cerco ciò che mi consentirà di rientrare, l’ultima tazzina, l’ultimo bicchiere, l’ultimo boccone, che sono poi immagine dell’ultimo sentire, dell’ultima emozione, dell’ultimo entusiasmo. Un attimo prima e restare aperti al discernere del sé, ecco l’ auto governo senza rinuncia.
Dire a sé e agli altri la propria regola vitale che consentirà di accogliere senza reticenze. Prima era a notte, ora nella sera, cerco l’ultimo caffè del giorno. Quello che ancora mi dà piacere e alla bocca non muta il sapore in amaro.
Quella che sembrava una testa, uno sguardo di minaccia, si rivelò una tenda poco stesa, gli occhi fiori blu, pervinche o fiordalisi, messi in file un po’ banali, che la luce dipingeva per mostrare del suo dire, un vero. Il buio che inzuppava case attorno sollevava solitudini discrete, stirando le lenzuola della notte. Bastò chiudere una persiana, porre qualche domanda al vento e, una ad una, risposte sfilarono in parata. Conosciute da buon tempo, allegre, salutavano con mano, le cullava il sonno, e, incuranti di tempo e luogo, furono sogni, fino ad inaugurare la mattina. Alzando la persiana, venne alle spalle profumo di risveglio e, la tenda, senza più volto e occhi ora, offriva fiori blu contro la luce e d’essa si gonfiava, ingorda, fino a traboccarne i vetri. Di risposte non v’era traccia, dalle strade strepito, che non pareva nulla, solo il poliestere di finestre a fronte occultava qualche pensiero, desiderio o ansie simile alle mie, ed era troppo poco per un sogno nella luce.
La stanza in cui sono stato all’Asmara, aveva pochi mobili. Un piccolo armadio di legno massiccio, il letto con la testiera di ferro, i comodini alti, anch’essi di legno pieno e scuro, un tavolino e una sedia. Sul ripiano del tavolo le mani, i bicchieri, unghie nervose, avevano lasciato il segno, il caffè forte e scuro aveva tracciato cerchi che si intersecavano. Una parte del legno era rimasta al riparo della luce e delimitava un rettangolo entro cui si era scritto, lasciato libri aperti, letto. Alle pareti bianchissime di calce, erano appese due stampe con spiegazioni in tigrino. In un angolo della stanza, su entrambi i lati, erano stati dipinti un cammello e una palma che arrivavano a metà altezza, con un colore che andava dall’ocra al marrone. Il cammello guardava curioso verso il ripiano dello scrittoio, la palma era carica di datteri. Un abitante della stanza aveva lasciato il segno ed era stato conservato. I mobili erano resti della dominazione italiana, venivano dalle case lasciate o forse erano sempre stati in quella casa. La cucina, dove facevo colazione e qualche volta cenavo, era ariosa, con una porta finestra che dava su un cortile e poi sull’orto. Sulla parete di sinistra stava una grande cappa, sotto c’era il fornello a due fuochi che occupava parte di una lastra, forse di pietra tenera, dipinta ad olio di un rosso acceso. Su parte di quel ripiano, la signora che mi accudiva, faceva fuoco e cucinava. Non ho mai sentito odore di fumo, il camino aspirava benissimo. Quasi per ultimo, in continuità con il ripiano rosso, c’era il secchiaio di granito, incassato nel muro. Aveva un robinetto di ottone, come quelli che si vedono ancora in qualche giardino. Non sempre, ma quando c’era, l’acqua si lasciava cadere in un flusso sottile, senza turbolenze, un cono che s’assottigliava in filo e che comunicava un senso di fresco. Tagliare con le dita quella consistenza trasparente faceva nascere la voglia di bere all’antica, porgendo la bocca con la testa di lato. Laddove il flusso batteva, c’era l’area chiara dell’acqua che detergeva la pietra e stabiliva la sua dolce, tenace, differenza. Una geografia dell’uso, che rassicurava sulla persistenza delle cose, della percezione del mondo. Il mondo si divide tra chi si aggrappa alle sicurezze del passato e chi si getta nel nuovo. Tutti hanno i loro motivi, ma nessuno è privo di radici e queste ovunque trovano linfa a cui attingere per nutrire il pensiero quieto del vivere.
Sopra il secchiaio, c’era una mensola con davvero pochi piatti e bicchieri, le stoviglie, erano dentro un vaso di terracotta forato, nell’angolo della vasca. Il tavolo, con l’incerata a quadri, stava al centro. C’erano quattro sedie di legno, proprietarie di una scomodità per me nuova e che testimoniavano a chiunque la loro costante presenza nel sedersi, come non ne fossero contente e volessero limitare l’uso di sé. Sulla parete destra c’era la credenza. Di legno, con i vetri molati nel sopralzo, con lo stesso stile primo novecento degli altri mobili di casa. Gli spazi e le pareti erano vuoti, l’aria correva allegra, le finestre sbattevano, non c’erano tracce di presenze pittoriche notevoli come in camera. Però si sentiva che molti lì avevano abitato, era stata la loro casa, avevano pensato, trafficato, costruito progetti e fantasie. L’assenza di superfluo nelle stanze, mi faceva pensare alla casa dov’ero nato. C’era un modo di pensare comune che si muoveva nelle funzioni delle cose e negli spazi. Nella mia casa, cucina e soggiorno coincidevano in una stanza grande, quadrata, e c’erano mobili simili a quelli dell’ Asmara, una cappa, la cucina economica e nell’angolo, vicino alla finestra, il secchiaio. La stanza si completava con la credenza e l’aggiunta di un’ottomana rossa, di legno massiccio e ben imbottita per diventare un luogo per il riposo pomeridiano. Le pareti erano imbiancate ogni anno da mio Padre, che ingentiliva la calcina con un rullo intinto nel blu o nel rosso pompeiano e che riproduceva un disegno damascato. Una stampa solitaria era in disparte, era un particolare della “tempesta” del Giorgione. Poi null’altro, le mie manate venivano cancellate accuratamente e così qualche piccolo disegno a matita, prima che la pedagogia di allora mi insegnasse che il bianco non si tocca. Al centro della stanza il tavolo, che con le sedie e la credenza, veniva dall’osteria del bisnonno. Quei mobili avevano percorso traslochi e vicende di famiglia, muovendosi su carri e poi camioncini, ma allora bastava poco per traslocare.
All’Asmara, mi chiedevo quando le cose avessero cominciato a vivere con noi, a occupare spazi, a soddisfare desideri oltre l’utile e generare ricordi. Capivo che le case erano grandi perché ero bambino, avevo pochi pensieri, molto da capire e da apprendere, ma potevo correre perché c’era spazio e giocare sotto la tavola. E non era proibito se non durante i pasti.
Non ho un giudizio sulle cose, accadono come i fatti. Hanno una sequenza, un ricordo, si accumulano e si accalcano, mettono in disparte l’utile e il necessario. Sono mute ma parlano e nel silenzio della notte, chiacchierano di più. I loro suoni hanno il senso delle stagioni. I materiali ricordano le loro origini, mostrano i nostri distratti sentimenti. Quando si disfano, chiedono soccorsi che ormai il consumo nega e finiscono. Finire è ciò che accompagna l’essere delle cose. Come il loro avere amore e poi sentire che è solo memoria.
Il vento ha un suo portare storie. Evoca, lancia suoni e messaggi, poi si quieta, come a pensare. La pianura conosce poco il vento, non sa come blandirlo nella sua rara furia, è abituata all’aria dolce, quasi immota. Si stupisce quando vede erbe ed alberi scossi. Oggi c’era vento di nord est. Folate improvvise che premevano sugli infissi e sbattevano furiosamente la bandiera sul tetto. A Trieste ci sarà stata bora. Il mare si sarà riempito di piccole creste bianche e sul molo Audace non ci sarà stato il solito passeggio. Anche in piazza Unità le ciacole si saranno trasferite all’interno del caffè degli Specchi e l’Harry’s avrà ritirato i tavolini. A Trieste il vento odora di Carso, di verde giovane e di fumo di legna, vede il mare e si getta giocando con la superficie, respingendo le onde. Prima s’era perso nei vicoli stretti di Cavana, ma è stato un attimo perché il suo luogo è il mare, non le pietre, le case, la città.
Nei giorni scorsi leggevo Bambino di Balzano, un libro con una scrittura piacevole ma che parlava di violenze date ad inermi, delle difficoltà dei popoli di confine nel convivere, del fascismo e di ciò che faceva agli s’ciavi. Questo mondo passava attraverso gli occhi e le azioni di un persecutore. Trieste era comunque bella, amata come negli amori che si sporcano di possesso e poi di violenza, enigmatica nel contenere pazienza e folate lunghe d’ira,
Nei diari e lettere della grande guerra, raccontano della vita in prima linea sui colli appena sopra la città, sul Carso. Non c’è il mare che si vedeva in basso. Neppure un accenno alla città. Però parlano della bora, degli stenti, della fatica e del freddo. Parlavano dei morti e dei feriti su cui passavano per conquistare o perdere qualche metro.
Ho pensato che anche la bellezza viene schiantata dagli uomini, che è il nostro generare tempesta è terribile perché ci si abitua a tutto nella furia, anche alla forca. Ma il prezzo è che la vita, la bellezza, gli affetti, muoiono e un mondo scompare. Non è un giudizio estetico sul vivere, ma la percezione che abbiamo una ricchezza grande a sentire il vento per quello che è, a vedere ciò che ci sta attorno, a pensare che esiste un futuro. Buttarlo via è criminale, come la violenza.
Mi verso il caffè nel bicchierino, come si fa a Trieste. Come faceva mia nonna, che triestina non era. Ha un sapore di casa, il gusto lungo del caffè estratto con dolcezza. Le dita faticano a tenere il vetro bollente, così sorbisco lentamente, con gli stessi gesti antichi che ho ritrovato percorrendo quel grande arco che va incontro al sole e attraversa i Balcani verso Istanbul e poi giù, attraverso Siria ed Egitto sino al Corno d’Africa. La stessa strada che hanno fatto i piedi dei nostri antenati. Sorbire, scaldare le dita, poggiare, parlare con lentezza, e ricominciare. Chissà se è primavera in Eritrea oppure il sole già brucia e di giorno si esce poco. Fuori dai vetri, il cielo s’è ingrigito, ma il mandorlo è luminoso. Accoglie e tiene in sé la luce che restituisce in quei fiori di cinque o sei petali che ora si posano ovunque.
Dovrei parlarti della primavera qui in pianura, ma ho solo colori che gli aggettivi sporcano tanto sono teneri. Solo il verde tarda un poco e non è ancora così nuovo. Camminando attorno alla città ho visto i campi coperti della peluria degli steli appena accennati tra il bruno della terra. Si capisce che il nutrire sarà generoso e ciò che sta nascendo crescerà orgoglioso. Già muta il verde al limite dei fossi, tra i narcisi a frotte che, secondo loro alchemici sogni, si sono installati in gruppi fitti lungo i clivi. Sono molti i colori e ovunque. Le fioriture sono così improvvise, che colmano gli occhi e noi, così immemori, ne siamo sorpresi e additiamo sorridendo ciò che accade. I marciapiedi di città sono tappeti di petali che macchine solerti spazzano di buon mattino. Ne sento il rumore da casa, vengono anche nel vicolo, ma gli alberi le sbeffeggiano perché appena se ne sono andate ricomincia la pioggia di petali sulla strada. Ho osservato che il grigio nero dell’asfalto sta bene con tutto, anzi ravviva i colori. Insomma attorno c’è un gran lavorio di piante e di fiori che non lascia indifferenti.
Tra i negozi sotto i portici, sono le pasticcerie a parlar presto di primavera. I dolci teneri e le focacce hanno preso il posto dei fritti, ultima propaggine d’inverno e carnevale. Mi pare che pure la gola cerchi adesso una sua età dell’innocenza e che il correre sui prati, il primo sudore che si rapprende all’aria, corrisponda a un sentire che rende leggera la voluttà. Non è ancora tempo dei vestiti che giocano col corpo, però i soprabiti ingentiliscono il passo. Anche la sensualità s’alleggerisce e attorno è tutto un produrre d’ormoni, di fluidi che scorrono, gemme e steli che s’inturgidiscono, così vien naturale che il corpo li segua e si conformi. Non c’è più il greve del chiuso, delle passioni in cui l’aria s’addensa e i colori e i sensi s’inscuriscono, adesso è la luce che trionfa e pare tutto avvolgere di leggerezza. Ho l’impressione che tra i tanti tipi di bellezza, ce ne siano alcuni dove essa si rinnova e che sia inutile cercare di prenderla perché deperisce tra dita e che pure le mie parole non ti dicano molto di ciò che davvero accade attorno. Sarebbe un buon modo parlarne rivolti al cielo, stesi sull’erba a guardare nuvole gonfie di bianco. Senza alcuna fretta, con un tempo che non s’addensa.
La vedi quella che sembra un cappello con un viso che sorride e quell’altra non pare un cinghiale che rincorre una palla ? Parlar di ciò che pare, perché ciò che è, sta dentro e ha una sua bellezza che sappiamo. Solo che non si dice.
Vorrei parlarvi d’amore, di quello quieto, ma anche dell’altro che ustiona e brucia. Vorrei dire che un passo, nell’indefinibile infinito, s’è compiuto, che l’amore è più dolce e maturo al tempo della paura, Vorrei dirlo, e tra le mani giro il fragile vaso che contiene il sentire, è porcellana esile, fine, color rosso cuore, se la agiti piano si senton le parole pronunciate, quelle trattenute, quelle pensate e poi svanite. Parole che suonano del tintinnio dolce degli amanti, sperano come mai sarà altrove, mentre lamentano ogni patita assenza, termometri veritieri, nell’aria dolce di primavera. Nulla dice che qualcosa sia mutato, che quel passo di speranza già si sia compiuto, e come in ogni tempo di bufera si stringono i corpi, cercando nell’altro l’unica certezza: l’ esser soli e salvi, nell’attimo che non rispetta il tempo. Ma poi il pensiero afferra e se pur spera, già, non muta.
Anime cadono in vortici a spirale, tardive foglie, pacciamature di vite scorse, mentre il vento affila le sue armi, spiana il prato, percuote, insinua voci. L’ironia nell’amore, racconta trame intessute d’aghi di pino, l’aria leviga intonaci di lucertole e di vuoto, ha aperto una porta nei fortilizi, sbattuta una finestra, ma gli ansimi, quelli, sembrano d’umani.
Nel vicolo una bottiglia di plastica giocosa corre, sbatte con rumori secchi tra gli stretti muri, è solo vento che pulisce l’aria, rimette ordine tra vecchie carte, foglie che s’erano nascoste, e porta pezzi di note, si lascia derubare di sguardi, di svolazzar di gonne e di cappotti.
Dentro al bar, guardo oltre la vetrina. Aspetto, mi parlano e sento parole, escono, via nel vento, senza traccia.
Il racconto procede a salti, come accade ad una cena dove l’interesse è altro e il contorno avvolge le parole. La loro precisione s’approssima, si spezzetta tra un boccone e il successivo, così ciò che ne emerge è un’impressione, uno schizzo a carboncino di qualcosa che comunque arriva e viene elaborato. I fatti si perdono in tempi comuni,: altri ruoli, altre situazioni, ma in una vita ci sono fili che sono principi e quando li si spezza si diventa altro. Forse per questo si tengono così da conto, perché sono identità. Ci si riconosce e ci si ritrova in essi.
A lungo ho meditato sul rancore, sui sentimenti negativi che esso provocava. L’ho scorticato per capire cosa celasse e ho trovato attese deluse, disattenzioni dolorose che testimoniavano dipendenze negate. Un paniere di cose non accadute, di altre conquistate e non riconosciute, fino all’epilogo di un abbandono per manifesta incongruenza tra energie profuse e risultati. Ma ne ho impiegato di tempo per capire che non era il caso, sottovalutando i segnali, l’aria fosca delle conversazioni, il procrastinare delle decisioni attese, poi la libertà del decidere, di condurre facendo errori e cogliendo quello che era possibile. Come finisce il rancore? Attraverso un gesto che è una decisione, una svolta e poi una convalescenza che ripristina la distanza dalle cose. Ci si impiega tempo. Quello che serve finché l’equilibrio viene nuovamente ritrovato, più avanti. In una condizione di vita che ha rimesso a posto le relazioni. Non è questione di torto o ragione ma di come si colloca l’attesa in una disponibilità di altri, uscire dal rancore significa ritrovare i fili intatti dei principi e la libertà di costruire con essi. Tra il rancore e l’invidia ci sono relazioni sottili, ma raramente si pensa, o almeno così mi è accaduto, di essere oggetto di invidia. E invece mentre pensavo che ciò a cui potevo aspirare mi veniva negato ed estirpavo con cura l’invidia dal giudizio, quello che facevo, il ruolo che ricoprivo era oggetto di invidia. Questo emergeva dal discorso che riandava a fatti e ricordi.
I ricordi sono una massa manipolabile, sempre molto sbozzata e riportata in un presente che è molto mutato per noi e per i fatti che accadono, ma se si usa un portolano che ci orienti rispetto ad essi, la rotta si legge e quei fili di cui parlavo, si ritrovano in mezzo agli errori e agli insuccessi che costellano ogni progetto del fare nella vita. I quel racconto a cena emergono persone e giudizi, avversioni che neppure avevo notato visto che il mio lavoro era spesso lontano, che i risultati erano numeri di bilancio, che le cariche erano giustificate solo se c’era una positività nel loro esercizio. Quello che allora non consideravo era che proprio la carica, per me ben meno di ciò per cui prima avevo speso e lavorato, era invece oggetto di giudizio e invidia. Qualcosa mi arrivava ma non ci davo peso e così ho continuato a occuparmi d’altro senza capire che il clima caliginoso, le parole non dette, la stessa freddezza per cui poi decisi di chiudere l’incarico senza nulla pretendere aveva un ambiente parallelo in cui si alimentava. Persone che non conoscevo o che conoscevo a malapena, parlavano male di me senza sapere cosa facevo, quali erano le difficoltà, i risultati raggiunti e quelli falliti. Nulla contava, bastava un giudizio e l’apparenza di una facilità che non c’era.
Male dire è colto nel suo significato più pieno e terribile dell’invocare il male su qualcuno, ma esiste una etimologia più profonda che dovrebbe indurre a controllare ciò che si dice e invece si banalizza. Non sono solo parole ma giudizi che poi prenderanno una persona, un gruppo e questo dovrebbe attingere ai fatti, alla conoscenza, non è gossip, non è leggero, si alimenta il peggio dell’uomo ovvero la sua disponibilità a credere ciò che diminuisce gli altri per esaltare se stesso. Pesare ciò che si dice è un atto dovuto, perché le parole pesano e generano errori in chi ascolta.
Penso che in quegli anni, inconsciamente, si sia rafforzata l’idea che il giudizio nei rapporti sia un sentire indebito e pericoloso. Cosa ben diversa dall’intuito, esso portava a vedere non l’insieme ma il particolare, sostituiva la propria idea dell’altro, o ciò che si credeva giusto, con la persona e la sua umanità.
Si impara da ciò che si sa e si capisce, ma anche da ciò che dentro di noi trova i fili per connettere i fatti a noi stessi. L’inconscio ci vuol bene e ci aiuta a trovarci oltre le negatività, i sentimenti negativi lo sono per chi li prova. Avere una immagine di sé riportata da altri che ci fa pensare a come eravamo, fa pensare e capire cose che ci erano sfuggite, dispiace non aver colto allora, ma abbiamo vissuto e i fili rimangono intatti.