I proclami, le prese di posizione “definitive”, spesso contengono l’insofferenza per la propria solitudine. Cosa sia poi la solitudine è difficile dirlo, perché contiene molte assenze, proprie e altrui, ma anche i propri compromessi tanto che alla fine si mal sopporta persino la propria differenza. Oggi, come spesso è accaduto, fuori, nella storia grande, c’è bisogno di una linea che definisca chi sta da una parte e chi dall’altra di noi, insomma di escludere ciò che non ci appartiene per rafforzare la propria coincidenza con il noi che sentiamo giusto. Il nostro mondo. E perché mai perdere tempo con ciò che non è affine, utile o semplicemente troppo complicato per noi? Non ne vale la pena, ma se non accade maturano fratture che fanno dire cose assolute in un mondo all’etica ballerina e sostanzialmente indifferente. Quasi ad enunciare dei principi che poi principi non sono ma sono ingarbugliate sofferenze senza voglia di nome. Così i nomi, gli anti seguiti dai popoli e dalle religioni si mostrano per quello che sono: ovvero privi di senso di fronte all’umano e a ciò che non lo è. Allora guardare ai fatti e alla loro atrocità comporta tornare a noi, che conteniamo i problemi e le soluzioni su dove e con chi stare. E così uscire dalla solitudine delle parole violentate a giustificare sembra l’unica cosa davvero giusta.
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mantra per i giorni che sembrano inutili
Del sonno e dei sogni bisognerebbe essere degni,
non accampare stanchezza nel creare la vita.
Lasciare che il giusto invada il presente
perché le idee danno a noi dimensione
e ogni fare attorno s’assomma.
Togliere all’abulia l’atrocità del disamore
che consuma in silenzio i corpi e le menti.
Tra l’erba esausta dal troppo sole,
di che parla il nostro cuore,
a chi si rivolge,
mentre attorno tutto scivola e viene immolato,
nella postura d’una frana d’indifferenza.
Serve un nuovo equilibrio che raccolga desideri, principi, ideali,
dall’immensa discarica dei valori umani.
Ora prevale il cinismo e il piccolo interesse,
l’incapacità di affrontare la fatica di essere uomini,
dare consenso a ciò che umano
è ciò che di buono c’è nei cuori.
No, non era questa la vita che avremmo voluto.

sera d’agosto
Fa abbaiare i cani, il temporale ancora lontano,
e apre nel cielo squarci di nubi contornate dai riflessi dei lampi.
Rotola giù dai monti, il tuono,
diceva mia nonna quando lo scuro invadeva il cielo e la stanza
e i monti erano cornice per noi di pianura.
Immaginavo allora i fulmini come grossi fagotti di luce,
che scendevano rimbalzando su alberi e case
fino ad esplodere nella pioggia e nel suono. Stasera c’è l’annuncio di cio che verrà nella notte
ma il cielo è ancora quello del Tiepolo quando sovrapponeva agli azzurri, il grigio
e il bianco
per rubare luce all’immensità sconosciuta
e donarla all’attesa.
Chi verrà da quello squarcio ad occhieggiare gli uomini,
i loro pranzi e parole dei riti d’agosto?
Corrono adesso le nubi e nuovi azzurri si aprono
mentre i cani continuano ad abbaiare
e nel silenzio che viene dalle tavole sfatte,
parlano tra loro di qualcosa
che noi più non capiamo.
il prato

Spesso tagliano l’erba,
il verde diventa tappeto,
perde i fiori, la voglia d’essere seme.
Le api cercano, ma solo per poco,
poi vanno altrove.
I bambini scendono tardi,
giocano sull’erba con palle colorate,
non ascoltano i richiami,
proseguono discorsi che parlano a sé,
o fingono mondi che loro soli vedono,
ma non hanno ricordi.
Attorno si ripetono i suoni,
e in una bolla l’universo rapprende:
il prato, le grida gioiose,
i piccoli pianti, la casa che accoglie.
Cos’è il sentire se non un animale scacciato,
un cane che rincorre la palla,
che non conosce il gioco
ed è il correre felice il suo senso,
così questo tempo e luogo si ripetono
e noi abitiamo la differenza.
Il sentire che interroga e si finge,
che cerca nel colore bellezza,
come usavano gli antichi nei templi,
per stupire la grandezza
e allontanare i presagi.
È il futuro che si apprende:
nell’età felice la conseguenza non esiste,
così il dispiacere transita veloce,
e la felicità è una corsa,
una palla che vola,
il sudore che vela la pelle,
sciolto nella certezza di un abbraccio
e di una voce amata.
Nel prato che il verde nasconde,
il tempo sussurra,
storie indifferenti a chi non le coglie,
le stagioni attendono,
si ripetono mai eguali,
sanno che solo il bianco e il nero
sono la scena,
la sostanza dei fatti,
il luogo e il tempo,
in cui cogliere il senso
e mutare d’ accenti.
Guardo e sono erba e albero
che recitando invecchia,
e mentre altri,
i loro mondi stupiscono,
siedo nel prato,
con la mia nuova parte,
che m’invento, attingo al ricordo,
penso e poi taccio.
In silenzio sono così dolci le voci,
il muoversi armonico dei corpi,
le loro storie che riempiono la vita e la scena
del mio piccolo mondo.
l’imprecisione dell’amore
Non lo dicevi con le labbra,
ma nei tuoi gesti l’imprecisione era confinata,
perduta in antiche severità
e poi scordata.
E così il muovere ritmico e attento delle dita,
che poteva essere quello di una sarta, di un geografo,
d’una orologiaia, di un calligrafo,
portava con sé piccoli segmenti di tempo,
stringeva con gentilezze sconosciute ai dinamometri,
ed era ciò che serviva: né più né meno.
Così, da ogni lavoro finito, emergeva una linea,
la stessa del palmo, credo,
che congiungeva di senso, la fine all’inizio.
Ed era la linea della vita,
non delle vite, ché quelle stavano,
colorate e vivaci, nei tuoi pensieri
a tacere e dire assieme.
Un colore ad ogni cosa, pensava,
con una leggerezza così sottile
da innamorare il filo che annodava le possibilità.
Ecco cos’era il connubio
tra ciò che merita l’esattezza
e la gloria d’ogni impreciso amore.
absenzia
Arriveranno pensieri, auguri, inviti,
le cose belle si mischieranno all’assenza,
ma l’ accesa stagione non colmerà i vuoti. E se d’intanto in tanto, il verde,
occhieggerà imperioso,
e il marrone sembrerà passato,
pronto a tramutarsi in rosso cuore,
resterà l’assenza, la sera, soprattutto,
quando sospende l’ultimo canto degli uccelli di luce
quando c’è un silenzio in cui si colloca ogni attesa,
e non è il buio della notte,
e non è il cielo ancora pieno di chiaro,
ma è il cuore che si guarda dentro
e non trova.
la vita sobria

La vita sobria è un rosario di verde,
che sgrana nei giorni di attese discrete,
di te, del tuo passo senza fretta.
Nell’aria di ogni mattina diversa.
la sobrietà delle parole
attendono il suono
il segno, la forma, e restano negli occhi,
sospese nel corsivo pomeriggio.
Ogni giorno rintocca,
e raduna attorno un concerto di piccoli segni,
il libro aperto rilegge la frase,
per il piacere che attende d’entrare,
come accade alle bocche prima del bacio.
Ho visto pietre spaccate dal gelo,
che mostravano la fatica del carbonato,
nell’essere stato vivo e poi sasso,
come accade alla memoria d’un gesto mio,
che ha rotto il tempo allora,
mutando attorno i colori, e molto ha mutato.
Sul terrazzo vige la gioiosa confusione delle piante
che rispondono con tenerezza al poco
e variano il verde secondo il mio umore,
acqua e cura è ciò che richiedono i corpi,
e che il dolore di un sapere lontano
abbia ancora speranza.
Prima della sera, raduno ciò che è venuto
e m’arrendo al sentire che non tace,
così mentre la notte beve la luce
l’umore attorno si mescola al mio.
ritornare
Mi prende, a sera dopo molto fare senza costrutto, la tentazione di tornare ai libri miei che tappezzano le pareti attorno. Guardo la musica che paziente attende d’essere ascoltata. Penso alle piccole abitudini della scrittura senza fretta, agli inchiostri, ai pennini e alla carta buona. Vorrei tutto il tempo possibile, lo stare in silenzio, il lasciare che il dentro e il fuori si parlino, e tutto s’allacci, si ingarbugli per la soddisfazione che prova ogni gorgo prima di scorrere verso le rive e il mare.
E’ la necessità di tirare il fiato, di spostare l’aria che entra e riempie le stanze, far posto al buon sapore degli odori, ai rumori di ciò che sta attorno. Così scorro con gli occhi i luoghi che conosco eppure hanno accenti nuovi. Una sedia per il sole, un bicchiere che attende una bocca, richiami tra terrazze e stanze. Penso che le compagnie delle cose si semplificano e sono pazienti, come le aromatiche sul terrazzo, qualche fiore che procede per suo conto, il cibo semplice che è stanchezza del complicato strombazzare di gusti alla moda. E gli occhi tornano sui libri, tanti libri, più di quanti mai leggerò, e servono per tenere aperta la vita e il futuro e il passato intrecciati. Ho la fortuna (e a volte è vincolo a capire) d’ una buona memoria che ricorda ciò che la rete della vita ha tenuto e messo assieme, ciò che è stato e quello che poteva ma non ha avuto coraggio.
E in questa piccola pace sento l’equilibrio di quello che si raccoglie attorno e dentro con rinnovato ordine: la passione, il tumulto, il rifiuto, l’amore. Il futuro e il tedio che con i piccoli dispetti si confrontano. E penso allora che è tempo di tornare, ma non è ancora tempo di chiudere le porte al mondo.
acque stanche d’uccelli
Nel pomeriggio la luce s’è accasciata tra I covoni,
stoppie dorate e uccelli in cerca di cibo,
la mente compita parole,
versi d’acqua salmastra,
di canale tra campi,
per loro conto escono parole,
suoni che bevono senso
profondo come una ferita
e povero d’ogni nome.
Le case sono contenitori, esitano, stanno a guardare
il caldo di canna accumulato sulla riva,
tra fango e radici.
Mentre gioca il caldo col sonno
la mente dondola e non assopisce,
esce su realtà parallele,
inoffensive e taciute
silenzio fatto scivolare in correnti che accarezzano,
in libertà senza luogo.
Fuori il vuoto si riempie di calura
e come nel deserto
è l’aria che forma corpi e volumi,
traccia immagini che l’impreciso risucchia.
Vortici di stanchezza inerte,
colore dell’ocra,
fine polvere di lettere sgranate,
sono quelli i pesi che tolgono e danno,
in un mescolarsi di vista e allucinazione.
Ma non è forse ciò che non è, il desiderio,
non è l’ombra di un ritardo che sente il peso delle ore,
vede il sangue e le vite,
i destini spezzati,
e vive in un angolo dove il primo sentire
è polvere, grano nei carri, acque stanche d’uccelli e violenta calura
incerte direzioni
Poi, a notte, emerge la fatica vitale dissipata sotto forma di gorgo. Nel caldo il presente diventa egoismo che elimina sentire. L’altra sera, ma ormai accade ogni notte, è mancata l’energia elettrica. Troppi condizionatori accesi, troppe luci, una festa paesana in più e cabine enel sottodimensionate per questi carichi assurdi. Si sono interrotte le serie di Netflix, i film di Sky ma anche le eterne discussioni dei soliti tuttologi. Le televisioni sono intrattenimento e teatro dei pupi. Ciascuno sa già come andrà a finire il discorso, il sequel, persino la gestualità è nel copione. C’era più pathos in una tribuna politica democristiana alla Jacobelli, Vecchietti e Zatterin, che nei conduttori attuali, sempre uguali e sempre convinti di essere loro l’idea del mondo e non i testimoni di esso. Con una politica fatta di scelte di vita allora, anche dalle domande compiacenti, emergeva sempre una idea del mondo che autorizzava a schierarsi. Oggi vorrebbero essere ringraziati i gestori dell’informazione perché ci risparmiano una faccia della verità, perché ci evitano di pensare. E così nella noia, il problema torna ad essere il caldo, il meretricio di un simbolo per il matrimonio del potente di turno, ma l’hanno già fatto, si ripeterà, perché lo sfregio è parte del guadagno economico dei pochi. l’impressione che tutto sia in vendita, rafforza l’idea che esista solo il presente. Solo il momento conta, non più la soluzione dei problemi, ma l’assistere partecipando a se stessi. Così si risucchiano i gesti in una scansione di fatti che si concatenano in sequenzialità a portata di giornata. Il domani non torna, non chiede, neppure si desidera e i pensieri, lo stesso tempo non hanno molto da dire. Cristalli di vissuto sciolti nel possibile.
Quando emergeranno le conseguenze di ciò che sta accadendo, nessuno di quelli che le hanno sostenute e generate, riconoscerà l’errore fatto. Sarà colpa di chi non si è ribellato abbastanza, di chi si è astenuto dal connivere. La responsabilità viene rifiutata, c’è sempre qualcosa che verrà invocato a discolpa. In fondo il processo di Norimberga è stato una eccezione e con pochi colpevoli a fronte di 50 milioni di morti, di nefandezze indicibili. Però qualcosa il vivere e i fatti ce lo insegnano. Vivere con una parte ha gradi di compromesso che riportano alla responsabilità. Se si fa trading on line con le industrie di armamenti, con l’energia, la farmaceutica e le banche, contano i guadagni o come vengono fatti per la propria etica ? Scegliere di non stare al gioco, di non aiutare chi si pensa sia un omicida di stato comporta delle scelte. Non di stare fuori dal mondo, ma essere nel mondo. Questa certezza di essere dalla parte sbagliata, di non vincere mai davvero, rincuora, mi dice che è sempre l’evidenza a cambiare le cose oltre a quello che si può fare. Un senso di onnipotenza se va e c’è la misura di sé. Essere minoranza è congeniale al dubbio, al non avere fedi trascendenti. I dogmi, i proclami, rassicurano chi avrà sempre ragione, vincono più che convincere e al loro rovesciarsi cercheranno di convincere che è la storia, la logica, a determinare le conseguenze non le loro colpe.
Ma la storia di chi pensa che governi solo il potere è diversa da quella in cui confido, perché una fede sotto sotto ce l’ho ed è nell’uomo, nella somma positiva che genera la sua voglia di vivere. La stessa voglia che prima gli fa credere alle chiacchiere che non includono la realtà , che accreditano la sua visione di comodo e poi lo spingono a disfarsene. E così mi fido di ciò che accadrà, dell’evidenza che fa combattere le battaglie che si pensano giuste, che non rincorre un consenso di potere, e alla fine, questa storia anche quando si sbaglia, riconosce il proprio errore. È questo vedersi in movimento, nella gioiosa fatica dell’incerta direzione contraria che fa sentire vivi e dentro al mondo. Quello che ci approssima è quello che è più vicino a noi e che determina il senso al presente e al futuro.
