in città l’autunno

In evidenza

Penso al tuo autunno
così eguale e così diverso,
qui gli alberi ancora sentono l’estate
quella che da te rifulge piena.
La città si è scrollata la calura,
corre nelle gambe degli scolari,
allegri per l’aria e per gli amici.
Nelle strade troppe auto
visi sempre tesi di ritardo,
più tardi aprono i negozi,
ma chi cammina ha una meta, un luogo,
e il passo dell’affanno.
Ci sono da te i ragazzi in strada?
Qui escono alla sera
mentre il rosso nel cielo già s’estenua,
si siedono nei bar, ridono, passeggiano,
I baci non attendono la notte
ed è un scivolar di passi
indifferenti al traffico,
mentre fervono attese e parole sussurrate,
nelle strade colme di chi torna.
Nella mattina I ragazzi erano in piazza,
le bandiere sventolavano,
cartelli e slogan ritmavano l’andare,
loro sentivano le grida da lontano,
l’autunno a Gaza, l’omicidio
che non rispetta l’età e le stagioni.
Avevano Il cuore colmo,
che traboccava rabbia, compassione e pianto,
e hanno camminato a lungo,
gridato e chiesto pace
sino ad essere afoni
maltrattati mai muti.
Con loro camminava l’amore,
felice di aver chiesto vita.

suoni ed elegie

la riconquista del buio

Dell’Eritrea manco da troppo tempo, come dall’Africa.

mediterraneo

limes a oriente

IMG_0846

Il sommaco non lo sa che c’è un confine tra un prato e una dolina. È un residuo della vecchia cortina di ferro, sia pure di seconda categoria, dove si passava a piedi. Ora nessuno ti controlla perché la casa dei doganieri è vuota e neppure la sbarra c’è più. Il sommaco non lo sapeva neanche prima e macchiava di rosso l’una e l’altra valle, indifferentemente libero. I fiori, l’erba, si distribuiscono e radicano con la caparbietà della vita. E qui la vita è anzitutto caparbia. Difficile per il terreno, difficile per la precarietà, difficile e muta perché si parla poco. Un tempo la commistione era facile, parlava più lingue, condivideva il letto, la tavola, la culla e il camposanto, adesso è più difficile. Questa è una rotta di terra per chi emigra e l’ospitalità che metteva assieme le umanità, tace. Così questo cammino ci pensano gli stati a renderlo difficile. Per mescolarsi si devono superare gelosie di luogo, lingua, spazio, tutte cose che un emigrante è disponibile a fare, ma non chi ha convinto i poveri ad essere nemici di chi è più povero, non chi si abbarbica al molto che ha e che non vuole accogliere. Eppure l’imperativo della vita è ibridarsi, trarre il meglio da ciò che viene offerto, come fa questa terra difficile e generosa per chi la coltiva. Si sono generate da oltre un secolo, distinzioni, identità e sospetti: paure immotivate e cieche. Mentre l’imperativo sarebbe: mescolatevi e sarete biologicamente migliori. Lo faceva la Repubblica Veneta, l’impero Austro-Ungarico, il Turco, poi è cambiato tutto e fascisti e nazisti hanno scavato solchi ben più profondi delle foibe.

Sul confine tutto si mescola eppure si distingue. Anche i modi per portare un servizio, la luce o l’acqua sembrano segnare diverse modalità e intelligenze. Sul crinale, verso il lago, corrono pali e fili elettrici. Per qualche oscura deviazione mentale, ovunque vada, la mia attenzione è attratta dall’ordine in cui pali e fili sono disposti. Mi sembra che questo abbia un significato oltre l’utile e le abitudini. Negli Stati Uniti e in Canada, ci sono grovigli di cavi nei vicoli, trasformatori appesi, accade anche in Portogallo, in Argentina, oppure in certe aree africane e medio orientali. Qui, invece, pali di legno o tralicci di ferro, seguono crinali, le città sono abbastanza libere da cavi, trasformatori sulle case non se ne vedono. È come se per qualche oscura, residua, forma di rispetto, la ferita di un palo e d’un filo che tagliano l’orizzonte venisse ridotta a tracce che si susseguono, strade aeree per equilibristi e uccelli, mentre i grovigli di fili vengano nascosti in case senza finestre che hanno in cortile trasformatori possenti che friggono l’aria. Ci sono cabine e case per l’elettricità perché almeno qualcosa venga risparmiato. Ma oltre ai pali, i fili e gli alberi, sembra non ci sia nessuno. La solitudine pervade tutto. E non solo è più difficile vivere da queste parti, ma si nota l’assenza d’uomini e di macchine. Le strade sembrano portare verso un nulla che è dietro l’ultima curva. Così nei paesi i movimenti lenti fanno sembrare tutto più vecchio, affaticato, anche nei gesti sono lontane le frenesie di Milano, le luci notturne di Roma, il semplice assembrarsi nelle piazze di città. Qui tutto è rado, fuorché la pietra e la selva che esplode dove si è fermata la fatica del coltivare e li anche gli uomini sono rari. E allora per chi è tutta questa bellezza?

Con questa domanda tra solitudini gloriose d’autunno, tra scrosci di pioggia tappezzate di rossi, gialli e cremisi scendo a Trieste. La città è calda di scirocco, luccicante di pioggia, vociante di chiacchiere serali attorno ai bar. Negli spazi, sul molo Audace, la pioggia ha cacciato i soliti perditempo, e anche Piazza Unità, stasera, è stranamente libera da persone. Solo nella piazza vicina alla stazione, si raduna chi non sa dove andare, chi giunge lacero come Lazzaro, ferito, da innumerevoli tentativi di passare frontiere e Lorena Fornasir con il marito, con i volontari della sua e di altre fondazioni, cura ferite, fascia piedi, sfama e dà abiti integri, senza chiedere nomi né religioni a uomini trattati come tali. Sono persone che andranno via subito, diretti in centro Europa, con storie terribili da portare con sé, con anni di cammino, di angherie, truffe, tormenti, morti di compagni e incrollabili speranze. Quella piazza Libertà, dove tutto questo accade, è un molo d’approdo e di partenza, ma anche un luogo di retate per chi non ha documenti validi per restare. Per questo oltre al dolore e alla necessità c’è la paura di essere ricacciati indietro nel gioco dell’oca dell’inumanità. È un limes, piazza Libertà, dovrebbe essere una terra di nessuno in cui vale il discorso della Montagna, un luogo da dedicare all’umanità che si fa concreta. Non lo è perché l’opulenza non tollera la povertà di chi va in cerca della propria vita altrove.

Trieste era una capitale senza regno, un coacervo di genti, sarà per questo che tra gli ultimi sprazzi di luce, emerge la bellezza violenta di edifici e manufatti deserti, apparentemente senz’uso. Non c’è un passeggio stasera, la pioggia l’ha spazzato con piccole raffiche di scirocco. C’è solo bellezza di pietre ordinate, di luci, di calore che trapela dalle vetrine dei negozi, dei buffet, dei ristoranti, dei caffè famosi. E c’è solo bellezza nel gesto d’una bianca ballerina di strada che prova i suoi passi nella piazza. E’ avvolta nel suono di un violino, accordato un po’ approssimativamente e si muove, in questa oscurità che cresce, leggera, muta e perplessa. Come il vento.

Sarà lo stesso vento che nella notte spingerà i profughi di decine di paesi verso la frontiera per tentare di passare oltre, per andare verso parenti e amici che attendono nel cuore d’Europa, quell’Europa matrigna che con il loro lavoro resterà pulita, costruirà case e coltiverà cibo per tutti, ma che non vuole essere come il sommaco che si stende libero tra boschi e altri fiori, fiero di vivere in armonia con essi.

campi arati e musica classica


Le cose si ripetono con diverse tecnologie. Arretro per guardare meglio e poi m’avvicino per cogliere il particolare. Importanti i particolari, la loro somma è il tutto. In musica, nell’arte, si coglie con facilità il mestierante, l’approssimativo per incuria o mancanza di talento, nella lettura ci sono buche e dossi che non dovrebbero esserci, che testimoniano il senso di una imperfezione da incapacità perché altrove non ci sono. Le esecuzioni musicali sono impietose, distinguono subito tra interpretazione e pressappoco. Anche in architettura si coglie con discreta facilità l’incongruenza, non solo per le case che si ripetono uguali, per gli stili che hanno avuto un iniziatore e poi imitazioni che imbruttiscono la semplicità del fare. In un villaggio in montagna o al mare, seppure con materiali poveri, c’era il bello del distinguersi in un fregio e l’essenzialità nell’uso. Un dammuso è perfetto in sé non ha bisogno se non di maestria nel costruire. Così accade negli oggetti, nella tecnologia che avanza ma cede nei materiali, apre buchi dove la semplicità esigerebbe una via piana al conoscere e all’usare. La complicazione che nasconde l’imperizia, il materiale che degrada, la plastica che appiccica. Questo mancare di rispetto considera chi vede e chi usa come una discarica dell’intelletto, si poggia sul non capire dato per assioma, sulla distrazione. Mancano note, c’è una stonatura, le parole sono ripetitive, i fregi sono fatti in serie, tutto porta a un’idea di scadimento anziché di possibilità di discernere.

Percorrevano strade incerte i cadetti nel grand tour, vedevano rovine e si estasiavano nelle distese di campi arati. Certo non è il soverchio profondo di macchine possenti, un tempo una coppia di buoi faceva il necessario, ora lame si infiggono sulla terra, zolle lucide mostrano compattezze di umidità profonde. Si ara a 50/70 centimetri, la vita sottostante ne viene sconvolta e poi ci penserà la chimica ad aggiustare le cose. Ma lo sapete quanto ci impiega il terreno a diventare humus fertile, 1000 anni, noi viviamo su quello che è stato creato dal lavoro di lombrichi e di miriadi di animali mentre sopra di essi uomini in armatura, straccioni, cavalli e cannoni si sbudellavano a vicenda. Quando il giovane Mozart arriva a Milano per la prima volta ha passato le Alpi e ha visto una pianura ricca di campi coltivati e di boschi, con i fiumi pensili arginati dall’uomo. Dentro gli risuona la meraviglia e la musica che spesso affiora sulle labbra. Un succedersi di tranquillità lo conforta in un viaggio difficile per lunghezza e strade, ma è tutto così nuovo e pieno di bellezze in città, ognuna diversa dall’altra, dove miseria e ricchezza si mescolano. Dopo un’attesa a Milano presso il convento di San Marco, il padre Leopold, riesce a farlo esibire e questo quattordicenne, mostrato come un fenomeno, dà sfoggio della sua imberbe bravura a casa del conte Carlo Giuseppe Firmian. Il concerto si ripeterà, mai uguale, perché Mozart è un improvvisatore oltre che un genio rigoroso. Applausi e sorrisi, fuori attende una notte nebbiosa ma le teste di chi ha ascoltato sono ancora piene di note e assieme ai pasticcini e lo champagne s’intrecciano discorsi sugli eventi europei. L’Europa è quasi in pace, la rivoluzione ancora non si fa sentire ma letterati e filosofi scrivono cose inusitate, mai sentite. La Lombardia è austriaca, un pezzo della Corte Asburgo è a Milano e W. A. Mozart non vuol fare più né il fenomeno da baraccone né il bimbo prodigio, scrive musica a getto, ancora imperfetta nel contrappunto ma a questo ci penserà Giovanni Maria Martini a Bologna. Mozart vorrebbe restare a Milano. Conosce l’italiano e quel mondo colorato ricco di intrighi e di corti qual è l’Italia, lo affascina. Il padre Leopold non allenta la presa, vorrebbe favorirlo ma combina guai alla corte di Vienna. Sa che la ricchezza dell’ingegno di Wolfang è il prestigio di famiglia e che essa dipende da quel talento che non sembra avere mai fine. Trascura la figlia Nannerl e fa male perché la ragazza di talento ne aveva tanto, ma la temperie è quella. La possibilità di diventare un Kappelmaister in una delle corti Asburgo sfuma e il primo viaggio dopo aver percorso infiniti campi e boschi, fino a Napoli tornerà a Salisburgo facendo incredibili deviazioni. Il nuovo che porta Mozart si mescola con il sapere esistente, ne esce qualcosa di originale e talmente singolare che solo la natura può essere un paragone. Una fertilità continua di conoscenze e saperi che mescolano la visione del mondo e la ricomprendono. Guardare nel particolare e cogliere l’insieme, seguire la trama come un pretesto alla meraviglia. Questa è la bellezza che ancora mantiene la sintesi tra l’uomo e la natura, tra l’innovazione, la tecnica e il sapere: non si butta nulla perché tutto deve tendere all’eccellenza. Ne saprà qualcosa Da Ponte quando capisce che i suoi libretti incontrano difficoltà crescenti e stanco di debiti e riti massonici cercherà nella democrazia aristocratica negli Stati Uniti, nazione nuova e già ribollente d’attrazione, di vivere una nuova vita.

Mozart torna tre volte a Milano, appena fuori le mura, cascine e campi arati, con cura e baulatura lombarda per facilitare lo sgrondo delle acque. Questa è una sapienza che testimonia perizia, conoscere la terra per cavarne il meglio è la stessa arte del pescatore che posa la lenza sull’acqua, del pittore che riassume tutto quello che c’è stato prima e lo trasfonde in un nuovo modo di usare il colore e il pennello. Lo sa chi scrive che si imbeve di realtà e di fantasia e fonde entrambe con perizia, come farebbe un fonditore che nel crogiolo crea la nuova lega e già pensa come trasformarla in qualcosa di differente attraverso cose apparentemente distanti come l’olio, la tempra, questa è la nuova e antica metallurgia che cambia il metallo e insieme lo rende unico. Così il contadino conosce il suo campo, a nessun altro eguale. Ne sgrana la terra tra le mani e sente la consistenza, l’afrore, i costituenti di cui neppure conosce il nome ma che percepisce nella giusta composizione, il terroir che lega il frutto alla sua unica madre.

Mozart conosce un pezzo della città e dell’aristocrazia a Milano, ma solo un pezzo perché la città di Beccaria, della vita dolce e lasciva non si mostra ai visitatori, li adopera per arricchire la sua comprensione del mondo. E’ il destino delle capitali e dei campi, dei boschi e delle montagne, degli uomini che sanno chi sono e vedono innanzi: attrarre, ricomprendere, essere nuovi senza rinunciare a tutto ciò che è stato, crescere secondo natura. Come un albero che noi e Mozart vediamo allo stesso modo, ne percepiamo il frusciare, sentiamo che un mondo sotterraneo l’alimenta ed è vita che dà anima alla pianta. Ascolto diverse interpretazioni dello stesso brano, sento la maestria di chi riesce a cogliere ciò che neppure l’autore sapeva di aver messo, perché i moti della creazione delle cose contengono un inconscio che parlerà in modo differente ad occhi diversi, allora la tecnica si staccherà dall’interpretazione. Condizione necessaria ma non sufficiente e se mancherà anche la tecnica allora nulla potrà parlare e dire qualcosa.

Nei campi arati, stormi di uccelli cercano il cibo lasciato dalle macchine che hanno tolto l’ultimo raccolto, accanto le zolle riflettono come specchi il sole di ottobre, le cascine sono molto diverse da quelle che vedeva Mozart, ma c’è ancora arte e differenza che circola nella terra ed è un sapere comune, una conoscenza che rispetta la natura delle cose. Ciò che non compie questo miracolo di equilibrio, corrode e devasta, ecco il nemico dell’armonia che desertifica la capacità di capire, di vedere, di sentire che ciò che l’ingegno produce o è per l’uomo oppure gli si rivolterà contro.

apolidi

Siamo apolidi, o quasi lo siamo
senza identità comune,
apolidi nelle città,
i cittadini sono i topi
a volte i cinghiali e le bisce d’acqua,
ha più diritti una nutria d’un argine,
un auto di un bambino.
Siamo apolidi e l’erba ha più forza,
s’aggrappa alle pietre, buca l’asfalto,
ottiene senza chiedere,
nessuno ci vuole perché non vogliamo nessuno,
il timore di perdere ciò che non si possiede ha cancellato le parole.
Scrivono sui muri non sui quaderni,
e sono guaiti di disperazione
bottiglie senza messaggio,
battigia di fiume, fango e pance di pesci arrovesciate,
scrivono sui telefonini,
l’azzurro illumina visi nella notte,
attese di risposta di nessuno a nessuno.
Avere a tema se stessi,
il tempo in cui si vive,
riconoscere il simile,
usare parole, mani, espressioni del viso,
chiedere con gentilezza,
ascoltare e riconoscere il suono,
riconoscersi, prima di essere apolidi,
prima della fuga, prima d’ogni priorità,
riconoscersi, parlare, vivere in pace.
Vivere in pace, sconfiggere il topo.
Vivere in pace, colmare la voragine.
Vivere in pace, sentire il luogo,
la lingua, le parole, i visi.
Vivere in pace, fidarsi dell’amore,
anche quello che tradisce ha in sé il bene,
fidarsi ed essere noi stessi
perduti in un noi più grande,
stanco di guerra, di parole sbagliate,
di scritte sui muri,
di baci mai dati, di abbracci temuti,
di cuori affranti, silenti,
seduti su un marciapiede
senza sapere che fare, che dire per essere amati.
Stanchi di non essere, di non avere pace,
di contare meno del topo, della buca,
dell’immondizia che un camion preleva
e perde per strada.

pietre levigate da innumeri piedi

Le pietre levigate da innumeri piedi, ciabatte, scarpe impolverate, sandali, che portano uomini oranti, foresti, curiosi, stanchi, pentiti, passanti. Percorsi: consunzione mutata in sentieri di pietra, fuori e dentro le basiliche, nelle chiese ipogee, nelle ville colme di enigmi e nei fori calcinati dal sole, tra colonne tronche e resti di fregi, circondati da basolati di strade minuscole destinati a improvvise piazze dove l’antico lastricato è rimasto. Fuoriuscito dai portoni dei palazzi, disegnato in colori di marmi, generatore di figure da gioco di bimbi o arcane geometrie, e attorno case, pietre, colonne annegate tra i mattoni, cocciopesto, pozzolane come legante di mattoni e interstizi per lucertole ed erbe, calcine, laterizi grandi, isole di muri e tracce d’intonaci sovrapposti, segni d’archi e poi lastre di marmi bianchi intere e fermate da borchie di bronzo, o più spesso sbrecciate con i segni dell’uomo e non della pietra. È questa Roma? Oppure sono i quartieri generati dall’inurbamento fascista, le marane di Pasolini, i canneti, le erbe alte senza più pecore, i pini alti nella campagna ora fitta di case basse costruite con mattoni e pietre rubate, le strade asfaltate senza fondo né fognature, gli orti che si sono mangiati a pezzetti i resti delle vigne, dei giardini e delle discariche abusive. O ancora oltre, Roma è nei palazzoni infiniti della speculazione edilizia, infilati tra le ferrovie locali e la campagna, con i balconcini pieni di panni, cemento che si sgretola e ferri arrugginiti in bella vista, scuole di periferia, chiese vuote con i lumini accesi, fabbriche ora abbandonate, depositi di qualsiasi cosa, carrozzerie e meccanici con casotti di legno, lamiera e cartelloni pubblicitari, negozi improbabili di frutta e verdura e pane ciociaro, biscotti cotti nel vino, accanto a detersivi e scatolette di tonno e di fagioli. Gente e parole che sono suono e significato assieme, albori di lingua nazionale parallela, quartieri in cui è meglio stare a casa dopo una certa ora. Treni che vanno verso le città vicine e segnano col ritmo delle traversine le rotaie, le recinzioni di cemento a limitare scarpate incolte. Periferie di un impero dove qualcuno si lamenta, molti soffrono, alcuni sguazzano. Povertà, medietà, invettiva e inventiva dentro un tracimare barocco e inacidito di lingua, strafottenza, pietà. Dove finisce Roma? Quando non ci sono più case e solo sterpi, degrado, pozze d’acqua, mucchi di rifiuti e casotti forse abitati, oppure quando la lingua muta e diviene altro che non è romano, dialetto o italiano? Anche qui c’è umanità, chi riconosce l’altro, ne tiene in piedi la vita e salva l’anima di chi di quella vita non conosce o neppure immagina l’esistenza. Ho letto che da poco è morto un Prete che raccoglieva aiuti, li distribuiva, dava uno spazio di gioco ai ragazzini che altrimenti sarebbero finiti per strada. L’ho conosciuto, era affabile e indaffarato, molti chiedevano, ora altri continueranno. Lo spero, ma Lui era importante per quel quartiere, aveva costruito un disegno di umanità e l’attirava. In queste situazioni di solito nascono persone al limite, che si fanno carico, che insegnano, che portano a vedere chi non vede. Tutto questo è necessario perché non ci sia solo chiusura e imbarbarimento, ma non è la gestione pubblica che vede il disagio. Lo Stato sono i cassonetti colmi che non si vuotano, le giostrine arrugginite, il verde che muore per incuria, i vigili che fanno la multa e intanto sono stanchi di capire dove sono. Lo Stato è la vita di tutti i giorni, come non ci fosse relazione, come se il luogo del benessere fosse non la cura ma il trionfo, il mostrare la forza del potere. Oltre e sotto, le linee di metropolitana portano ai marmi del centro, qui ci sono i bus stracarichi, le sporte, i ragazzini da andare a prendere a scuola, le voci che ormai parlano mille lingue, i murales e i bed & breakfast che si allungano verso il limite della città. Ma ha un limite la città senza l’uomo? 

la memoria dell’acqua

Vorrei avere la chiarezza della goccia che cade,
che non pensa alla sua forma perfetta e si lascia carezzare dall’aria,
neppure la trasparenza sollecita il suo orgoglio,
nulla dice della sua complessa struttura.
Cade in una pozza, in un bacile,
è la lacrima d’una fontana senza il timore dell’addio. 
Lascia cerchi perfetti e si confonde,
eppure resta sè nella folla,
cosciente d’essere e mutare la sola apparenza.
Sa che non finisce, che cambia
e con gioia scorre o vola,
è l’infinita semplicità che non scorda,
l’essere da sempre universo e se stessa.

Nella scenografia dell’acqua che accompagna i passaggi, accanto ai segni di pietra e d’acciaio, ci sono polle sussurranti che impreziosiscono le superfici d’acqua. Acciaio corten intagliato dal laser e colori di lacche sulle pareti. Richiami erotici si mescolano all’ideologia della fretta e del consumare. A questo servono i piccoli bar con pochi tavolini, menù precotti, cibi sempre uguali per menti che non pensano al cibo e assolvono ad una abitudine. Onorano, come possono, la loro funzione. La sera e la notte servirà ad altri stereotipi.

Nessun sguardo vede mentre cammina, mette assieme il suo tempo, lo mescola con uno scopo, non cerca una ragione del perché sia necessario mutare. Cessare d’essere utili e vicini a ciò che si è. Non c’è tempo. Tutto scorre attorno, flussi di corpi che chiacchierano, scambiano parole, necessità, umori, banalità senza fatica. Nulla è semplice, nulla è profondo., mentre a bada si tiene la coscienza. Ma a volte questa irrompe, diviene domanda, paura e tutto sgretola senza risposta. Era questa la vita che avrei voluto vivere? Ed io chi sono se non cose che fanno da perimetro a un corpo e lasciano una scia di vento senza ricordi.

Vorrei avere la memoria dell’acqua, il suo semplice farsi ed essere stato che include il futuro. Poi la notte rallenta i flussi, si svuotano i bar, si danno le brioches di cartone ai barboni. E mentre la città si chiude, in alto s’addensano nuvole d’acqua. Pioverà.

in breve

Il cronografo meccanico ritarda di trenta secondi al giorno. 3 ore in un anno. Devo decidere se metterlo a posto o lasciargli vedere il futuro un po’ prima di me. Questa piccola passione per gli orologi meccanici s’è tramutata in un desiderio soddisfatto, come fosse il tempo e la sua misura imprecisa ad attrarre l’attenzione e questo bastasse. Poi quando il tempo si capisce lo si considera come un affettuoso discolo che fa quel che meglio crede ma ci vuol sempre bene.

Oggi a Venezia il tempo non contava, ce ne siamo andati dal ristorante che non c’era più nessuno e anche i camerieri, tolta la divisa, ci raccontavano storie e confidenze belle. Mi verrebbe da definirle bellissime per la loro rarità e per il portarci in mondi lontani. Un cameriere vede gli uomini, li capisce e li colloca nel loro posto. Ha una sensibilità particolare nell’intuire e una soddisfazione nel guidare e soddisfare. Era bello starli a sentire e intrecciare i loro discorsi con i nostri.

Così il tempo non scorreva e l’amicizia si riempiva di quel fulgore raro che accade quando tutto è sincero e si sta bene assieme. Ci sono grandi o piccole cose da fare innanzi, ma verranno comunicate senza fretta. Meditate, saranno l’occasione per nuovi incontri e per quel sentire che costruisce progetti, dà loro forma, ed è un eterno divenire che non dipende neppure da noi. Al più siamo agenti di un bellissimo andare per suo conto.
La pioggia è arrivata quando doveva, ormai a Padova. Eravamo tutti al coperto e dispersi in un fazzoletto di pianura, le nubi si sono sovrapposte e rinserrate e poi hanno piovuto con dolcezza. Ho pensato che gli animisti hanno un rispetto infinito per ciò che accade e non possono determinare e capiscono le altre religioni, gli dei, gli atei e gli agnostici lasciando a ciascuno il compito di trovare un equilibrio e una pace con il mondo. Con ciò che vive e ciò che apparentemente non lo fa, ma è solo un’impressione.

Tutto vive e di tutto noi possiamo chiedere allegria e misericordia in un abbraccio che ci contamina solo di vita.

https://www.youtube.com/watch?v=a4jGtVEcn6w