Inattesa, una luce calda è entrata: solleva lo sguardo, e lo conduce sul muro poi verso il cielo, rosso di tramonto interrogando ciò che separa la luce dal buio.
È stato un momento, ignoto eppure atteso, e prima che un raggio accarezzasse il pavimento, la gamba, il braccio, il cuore già era colmo del rosso, che avvampa le nubi, ed è solo attesa del blu che chiama la notte.
Non è più novembre, è solo vita che vive, del suo tempo incurante, forte e libera di sé, e delle foglie non sente Il distacco e la morte ma il crepitare nei passi e l’odore del fuoco come usano, talvolta, le sere d’autunno, prima delle luci sguaiate di festa.
Poi la luce è scivolata nel grigio il fioco abbandono dell’aria che già odora di gelo, è il primo e già si smarrisce, chiede alle cose, non sa dove andare, s’aggrappa alle case, chiude balconi e persiane, accende piccoli led nei bar. Lontano un telefono chiama, con l’antico suono di chi ha perduta l’età, e tutto gli scorre attorno, il chiarore che impregna muri, ed è già un lampione che da solo s’è acceso mentre, la sera, fioca di piccole paure, circonda.gli umani.
Che noia il vivere senza certezza d’amore, che vuoti scava la parola quando si perde vibrando nell’aria, come fa la luce prima d’un buio, o forse quella luce non è mai stata e la parola mai detta, l’abbiamo solo immaginata: ci è sembrato, ed era solo una telefonata per dare una voce alla malinconia. D’autunno le voci interiori, prendono gli scuri toni, che sciolgono capelli intrecciati, attendono la notte mentre il primo freddo si fa strada e rossa e poi bruna è la sera quando il cuore non si fa sentire appieno.
Ammiro l’ordine tuo rigoroso, lo continui in pareti pastello, nei libri in attesa, ben distinti da quelli già appresi. ti accompagna una scelta corte di cose che attendono il tuo cenno e volere. Ammiro la tua agenda nel tavolo, sola, le caselle con i nomi accennati, gli orari di color lineati, in obesi caratteri, a margine, note. Sono annuncio di appuntamenti già dati, giorni che scorsero e riposano quieti: li penso governati ed amati.
Il mio ordine sparso è luogo di tempeste furiose, di colpe notturne, di bulimiche scritture sconfitte, i libri s’accumulano, le pile si sorreggono mute, rifletto, respingo le ragioni sensate, convivo con geometrie di senso dai desideri create. Non si può chiedere troppo all’ingegno comunque ci è stato donato, e non trovo colpa nell’innamorarsi del volo e dello scavo, nel correre l’insaziabile orizzonte, dischiudere porte, vedere luci mai osate capire, sapere che tutto il poco raggiunto è meno di quanto ci sarebbe bastato. Aggiungere desideri a quelli non ancora esauditi e poi non trovarsi smarrito. Ma nel tuo pensiero mi riposo, riconosco le geometrie del governo delle cose e dei cuori, le penso come le carte di Alice: i battaglioni affiancati della regina di cuori che avanzano lieti e divorano il tempo. Il tuo che ordinato si offre con un piacere che azzurra i pensieri, mentre il mio s’attorciglia e nasconde, d’infinito s’illude esagera, ride, dispera e rispera. Un sasso che s’arrotonda nel flusso, a volte è felice, di tanto inconsistente sentire, e nel curioso conoscere abbandona piccole parti di sé, all’acqua e all’aria senza nulla richiedere. In questa sera che accumula notte e genera stelle mi chiedo se a te accade di donare il tuo ordine lieta di riceve scomposte parole. O forse è nei tuoi sogni che succede di lasciare che l’ordine fugga e come un cane d’autunno possa godere delle foglie in cui rotolare.
In quell’attività dell’anima, ch’è scrutare nel mio specchio, vedo segni del tempo, un lampeggiare d’occhi, i tratti che conosco, ma anche il me che m’è sfuggito.
Allora indugio nei pensieri, le tracciate mappe, i solchi, ricordo e seguo: è lieve il dito e sfiora, ascolta ancora il dire, delle oggettive vanità.
Chi mi vede, scivola su tutto questo, chissà che cerca, ma anch’io mostro l’ardire, d’esser sopra il ripiegar la schiena e tengo per me, e per pochi altri davvero, il senso di quelle strade che costante indago.
Di tanti anni, e ripetuti errori, un po’ per volta m’è uscito il riconoscere (il ricordo è così mutevole e creativo), che a dire ciò ch’è accaduto, solo i segni restano oggettivi. Il pensiero si sospende e più non guarda, sente il sapere che una mano ancora lascia impronte di calore sulla mia.
Ed è un andare, nel guardare ancora, andare in scelta compagnia, andare e restar qui, in cerca di me stesso.
Un pomeriggio d’autunno, come tanti d’allora, nell’adolescenza piena d’indecise voglie. Tra riottose stanchezze, si formavano furori, passioni, proterve libertà, bisogni d’amor nuovo. Il prima era casa, vincolo e certezza, ma c’era dubbio, rossori e vampe al viso. Pomeriggi percorsi di febbre, d’inutile pensare e di rimorsi a sera. A noi spesso vengono dati ripetuti segni, non li riconosciamo per creare speranze prive di volontà.
Ora come allora, la luce spegne rami e cose, liquida attraversa i vetri, costruisce il ricordo su tracce di ferite. Ciò che non è stato detto nessuna memoria aiuta. Restano lembi di sentimenti lacerati, a sventolare nello scirocco della sera, orifiamma dei tempi sciupati, delle sequenze dei giorni d’insoddisfazione eguali. Nella sera incauti uccelli, cercano briciole nell’erba, suonano nel tepore della casa voci amorevoli e nel cuore le malinconie d’allora.
La mente gioca per suo conto, è un grande pescatore di coincidenze. A volte una frase, una parola, risplendono : sono il tassello che s’incastra nel nostro puzzle di pensieri. Parole semplici, apparentemente prive di forza, banali come l’arancio slavato di questa luce che si fa strada tra nuvole di pioggia. Si sente che quel colore è l’astrazione dell’arancio e in esso realtà e idea di colore coincidono. La parola è ora sapida di significato ed è l’arancio di un dolce a fette, del suo sapore ricordato, è una casa sul canale, un fiore che rifulge disseccato.
La sensazione è che questo accada quando c’è una sospensione del tempo, che genera un equilibrio con una dinamica interna che non ha bisogno di moto, ma connette e comprende a fondo che tra il fuori e il dentro c’è un legame di significato.
Annullare le notizie ed entrare in una realtà che permane, dove il noi coincide. Uscire e sentire il sapore della pioggia calda d’autunno, fermarsi per dare un nome alle cose e assaporarne il sapore, come fosse un’onomatopea che non ha bisogno di rifare un verso. A volte le parole proseguono, nominano le cose come fossero nuove, acquistano ritmo, e suonano di vibrazione esterna. Diventano definitive. In quei momenti le parole scandiscono blocchi di emozione, di significato, che sono una scoperta per noi. Ci pare diventino importanti anche per gli altri e il bisogno di dirle è urgente, ma qualcuno che possa capire.
C’è un entusiasmo della parola, ma non so cosa sia davvero la poesia se non la realtà svelata nell’essenza. I poeti veri, quelli in cui si trovano i pezzi di noi, del nostro mondo interiore, ci fanno sentire disvelati, nudi e parte di un tutto improvvisamente chiaro.
La poesia di cui parlo è personale, accessibile e diffusa, e ci permette di leggere una realtà come libro comune a tutti. La si porta appresso, negli occhi e nelle connessioni neuronali. Sembra corrispondere a qualcosa di più alto e comune, tanto che la posseggono tutti i meno disattenti. Senza dirlo regala piccole felicità e introspezioni verso le cose, che sono un noi lanciato verso ciò che ci circonda.
Non ho opinioni precise di questo sentire, so che ad esso i poeti fanno compagnia, che legano indissolubilmente nel poco il molto e mostrano verità comuni, non importa se allegre o tristi. So che così rispondono affermativamente alle nostre domande. Forse ai poeti, ciò che a noi accade di rado, ovvero sentire che il pensiero e le parole sono un tutt’uno di significato, accade più spesso ed è con semplicità che fanno calare il sole mentre la sera ha lunghe dita intrise d’arancio e blu per toccare le cose, e noi vediamo questo colore nei palazzi, sulle pietre, nella pioggia che dirada, improvvisamente identico al nostro pensiero di sera e di colore.
E questo ci regala un attimo di comunione e d’improvvisa felicità.
Che sarà rimasto dell’impronta del mio corpo davanti al quadro?
Gli atomi e le molecole d’aria per accoglierlo si sono spostati, dei neutrini l’hanno attraversato indifferenti, qualcuno si è messo un po’ a lato e ha intrecciato le aure. Ma senza volere, con l’ indifferente pazienza di chi non conosce il tempo.
E del vedere che ha prima scrutato e poi cercato, è rimasta solo l’eco e l’impressione d’una vibrazione che trasformava energia in materia? L’interno della bocca si è ammorbidito e poi seccato per la meraviglia.
C’erano voci attorno. Alcune normali, altre sussurrate, avranno spinto l’aria addosso. Senza sapere hanno accarezzato un timpano, degli abiti che si muovevano, un corpo avvolto, il viso e il collo d’uno sconosciuto.
E del viso che s’è girato, degli sguardi incrociati, dell’attenzione momentanea che ha trovato un particolare che stupiva, cos’è rimasto?
Mentre il quadro, apparentemente immobile, faceva muovere piano i corpi eretti, piegava con gentilezza le teste, generava pensieri che cercavano appigli di conosciuto, forse lo sapeva che pian piano stava diventando un foglio su cui ciascuno scriveva con caratteri solo a lui conosciuti, che ne dipingeva un lato, che metteva sul bordo l’impressione sopraggiunta e che infine lo lasciava cadere volteggiando nella pila di fogli della sua memoria.
Poi il corpo si muoveva, gli occhi cercavano di essere sorpresi e occupavano nuovi spazi mentre vibrazioni, atomi rimescolati assieme al pulviscolo d’intelletto che staziona in ogni museo o biblioteca o montagna, foresta o mare, danzavano. Era la memoria dell’aria che finiva in uno stipo dell’universo dove tutto il possibile di quel momento si archiviava in attesa di un nuovo presente.
E il corpo era parte di quel possibile che coincideva con una delle infinite bellezze disponibili.
Allineando bisogni e soddisfazione di essi, manca sempre qualcosa. Non basta mai, come negli amori migliori. È questo che spinge a scrivere, a mettere in fila parole e concetti, oppure è l’assenza, il vuoto del non compiuto e possibile. I diari sono il dialogo con il sé profondo, cose da adolescenti che non crescono mai. Se è vero che tutte le età della vita coesistono e stanno silenti per dissimulare la complessità e al tempo stesso per non dare troppo nell’occhio ai severi censori della normalità sociale, non sono ferme, agiscono. Così nel poligono delle forze che contraddistingue le scelte, accanto alle necessità troviamo tutto sino all’innocenza e all’assenza di etica sociale. Difficile distinguere le influenze di ciascuna componente, servirebbe un gascromatografo dell’anima che distingua presenze e percentuali, ma sarebbero solo numeri, mentre basta un’ammaliar del bello perché tutto muti e ciò che sembrava importante diventi accessorio. I diari si scrivono a posteriori come noi fossimo il libro e leggessimo dentro una trama da comprendere, il gesto da interpretare, un pensiero che si fa insistente e diviene desiderio. L’adolescente si muove tra forze immani, quelle esteriori che comprimono e regolano e quelle interiori che non tollerano vincoli, che dialogano con i sentimenti. Da un lato sta il giardiniere che costringe e pota e dall’altro la pianta che sboccia e vuole trasformare se stessa, darsi un senso, seguire la pulsione. Il diario raccoglie strade, sentieri, percorsi. La ricerca della verità e del senso delle cose mai facile da mettere in parole.
Per molto tempo, lo faccio anche ora, mi fermavo in una vecchia osteria diventata bar, dove a volte incontravo gli amici. Ci fossero o meno, guardavo le persone attorno. Giovani soprattutto, un tempo erano coetanei o di poco più giovani e poi via via il distacco di età era aumentato. Guardavo, senza intenzione morbosa, lasciando che i gesti, i frammenti di parole mi arrivassero mentre immaginavo le vite. Erano libri da leggere, non ancora scritti eppure già in azione e non meno espliciti. Quando si immagina ci sono almeno due componenti, se stessi nel momento e il complesso di storie, nozioni, intuito ed esperienze che si sono accumulate. Se ci pensiamo bene in fondo tutto coincide in noi, si ricompone e ci porta verso uno specchio, verso la nostra immagine sfuocata ma riconoscibile. Le storie che leggiamo negli altri hanno molto di noi e delle nostre età conviventi, del luogo, dell’emozione che stiamo vivendo, del milieu a cui apparteniamo. Per questo è difficile separare, ma non estrarre e discernere, solo che ciascun elemento, ciascun tratto, che poi verrà tradotto in pensieri e in parole, è un’ approssimazione del compiuto che per fortuna non si compie. Capire che siamo destinati a restare interrotti spinge a fare, a essere, a costruirsi partendo da progetti che per loro natura sono sempre imprecisi. Analizzare l’imprecisione, il confine o meglio il limes, è il tuo compito, caro diario. Che tu sia scritto o meno, parli e rifletti, cerchi tranquillità nella bufera e generi tempesta, questo sembra essere il tuo compito mentre unisci passato al presente e generi futuro.
Il profumo di un luogo, di una situazione vissuta, muta nel tempo e si mescola al presente, è un potente generatore di storia che agisce, ma ha radici talmente profonde e contorte che ciò che lo alimenta si perde dentro. Ci sono verità acquisite, magari da mettere in discussione perché ormai obsolete, sentimenti forti che sono i punti in cui salvarsi, un mescolarsi di rifiuto e accettazione, di desiderio e rinuncia, di tempo senza limite e fretta. Tutto in salsa quotidiana cioè scandito da quelle consuetudini che tengono assieme il giorno, ne sono trama finché non emerge una passione forte e imperiosa che scardinerà ogni priorità. Tu, caro diario puoi essere un insieme di frammenti, un mosaico a cui le tessere si aggiungono e mutano intento e figura, oppure un fedele registratore di indizi la cui chiave resta nel possessore della logica, ovvero in chi ti scrive. Leggere un diario è spiare dal buco di una serratura, si vedono solo parti della stanza, delle figure, si completa con la mente il quadro, ma cosa agisce e sosta nella penombra, negli angoli morti non è dato sapere, però se ne vede l’effetto. E questo, caro diario, tu sei: un libro mastro di effetti e di cause in cui resta un insieme ma la forza del particolare si smorza, per questo vorrei tu fossi un insieme di tracce, di storie che iniziano o che continuano mentre il loro cominciamento si perde in anni, esperienze, vissuto. Un insieme di storie che mescolano il parlato al pensato, la riflessione all’impressione e che il tutto sia un testo aperto che continua, annoda e scioglie, tace e attende il momento propizio in cui la pianta e il fiore, tutt’uno sembrano compiersi ma in realtà, insoddisfatti, proseguono e ancora generano. E’ così strano il tempo, caro diario, così galantuomo nel suo codice morale che ogni cosa trova un posto e si deve decidere se lasciarla o tenerla con noi, ovvero pensare che vi sia una circolarità, un ripetersi che ci rende prevedibili, oppure una linea che con fatica traccia se stessa e di cui tu sei testimone. Ognuno sceglie e in questa scelta mette un bisogno che fatica a distinguere la fuga dalla corsa verso il nuovo o l’antica mancanza dal circolare ripetersi di un rimpianto che muta e si rinnova. Se si toglie la colpa non resta l’innocenza, bisogna ricordarlo, e tu caro diario, non dimentichi, approssimi. Ricordalo.
Ognuno di noi è il prodotto di un numero grande di variabili e di scelte altrui. Le strade che generano e percorrono le vite sono il frutto di scelte che si intersecano con il nostro libero arbitrio. È il regno della possibilità e degli universi paralleli e molto più concretamente è la nostra storia che deriva da una catena ininterrotta di vite e presenze. Mi capita di pensare a mio nonno, di lui ho una fotografia, pochi pezzi di racconto degli anni di vita, storie di famiglie che si scindevano perché una morte toglieva la possibilità di continuare una attività, un commercio, l’integrità di un clan. Così un gruppo si spostava, cercava fortuna lontano dalla piccola patria che per secoli era stata il luogo della presenza unita. Mio nonno con l’intero ramo familiare non aveva fatto eccezione, ma questa è un’altra storia. Da questo nonno sono venuto anch’io, dalle scelte sue e soprattutto di altri, si è determinata la sua vita e quella di mio padre e mia nonna e come onde in uno specchio d’acqua, altre vite e scelte in un intersecarsi continuo. Quattro anni fa ho cercato il luogo dove si è annodato un tempo con altri tempi, ho capito che tra quelle doline, macchie di quercia, terreni aspri e case sparse, era accaduto qualcosa che era dolore, storia e continuità. Gli ho reso grazie, come sò e posso. Ognuno di noi inizia ed è continuità, questo il senso di essere flusso. Passato, presente, futuro. Non ci si perde nella memoria e lì si trovano dolcezza e gratitudine e senso.
Il 17 agosto era il suo compleanno. 17 anni li aveva lasciati nel secolo precedente e 17 nel nuovo. Era abituato a fare conti, confrontare numeri, vedere i risultati. I numeri erano curiosi a volte, ma non tradivano, si sommavano, sottraevano, dividevano, ma alla fine restava un numero che rappresentava qualcosa di univoco. Un dare e un avere. Lui pensava che doveva ancora avere molto. Aveva persone che amava, due figli, una moglie, un lavoro, una vita da vivere assieme, quindi i conti erano aperti, i numeri dovevano tornare. Quella notte ci fu il trasferimento che era stato comunicato in giornata. Poche parole in italiano ripetute dagli ufficiali, verso i sotto ufficiali, e poi giù fino alle orecchie dei soldati. Le sue. Tra soldati parlavano in dialetto, il battaglione era stato costituito all’interno di due province vicine. C’erano anche altri che venivano da regioni diverse e parlavano altri dialetti, ma alla fine ci si capiva. Lui era abituato a capire lingue e dialetti differenti, parlava anche la lingua di quelli dell’altra parte dei reticolati, ma non serviva, non c’era molto da dirsi in linea, c’erano solo urli e sfottò. Ed erano meglio i secondi perché significavano quiete. Venivano da un turno di riposo, dopo essere stati in linea dal 13 maggio al 23 luglio, sempre da quelle parti, ed erano stati dimezzati: 1806 uomini e 36 ufficiali morti. Poche centinaia di metri conquistati, erano passati da quota 224 a quota 247. Numeri che erano piccoli dossi e buche che lì si chiamano doline. Buche in cui si ammucchiavano vivi e morti, pietre e ordini, assalto e fortuna. Numeri. Si contavano muti, la sera, poi c’era la notte per pensare e la speranza che la sera dopo si potesse contare di nuovo. Chissà cosa pensava ricordando maggio, giugno e luglio. I visi si confondevano, le persone e i fatti, tutto nel rumore degli scoppi, la corsa dell’assalto, l’acquattarsi nella dolina. Fare, sparare, correre e attendere la notte, non pensare, restare vivo. Nei momenti di quiete ci si aggrappa a quelli certamente vivi, alla famiglia. Contava la famiglia e lui, lui e la famiglia. Vivo. Durante il riposo e le esercitazioni si formavano gruppi, assonanze sociali, quasi parentele, ma sapevano tutti che erano su un crinale, vivere era questione di attimi, dipendeva da una coincidenza con una pallottola o una scheggia, dalla caduta di quello a fianco, dal caso. Fino ad agosto riposo, meno di un mese e poi il 17, il giorno del suo compleanno, di nuovo in linea, immersi nel caldo torrido del giorno, con la pietra che si arroventava e lì c’era solo pietra. I pochi alberi erano stati spazzati via dai bombardamenti preventivi, i cespugli bruciati dai lanciafiamme. Pietre a pezzi, sminuzzate, frammiste a metallo di scheggia, reticolati, doline e trincee, teli sbrindellati e la comunanza di essere accalcati gli uni sugli altri. In attesa. Il tempo si comprime e dilata, lì per giorni si caricava con la molla dell’attesa. Non passava mai ed era sempre corto, immediato. La notte del 17 era fresca, come tutte le notti, si faceva sentire l’alito del vento del mare di Trieste che s’incanalava tra quelle valli strette, lambiva quei cumuli di pietre. A luglio, dal colle di Sant’Elia, il mare si vedeva e sembrava così strano che laggiù ci fosse una vita normale, che le persone andassero al lavoro, a casa la sera, dormissero in letti normali, facessero l’amore, bevessero birra fresca nelle osterie e a cena accarezzassero la testa dei figli chiedendogli com’era andata la giornata. Li, anche se non formalmente, c’era la pace. Il Papa aveva parlato di inutile strage per tentare di fermare la guerra, non c’era riuscito anche se i re e gli imperatori erano tutti cristiani. Ma poi quelle parole così comprensibili e adatte ai tempi non erano esse stesse una contraddizione: quale strage può essere utile? Lui non pensava tutte queste cose, la notte del 17 agosto, sentiva che andava in linea, compiva gli anni, e sperava che quella pace poco distante nelle retrovie avrebbe potuto raggiungerla. Contava i giorni in cui restare vivo. Iniziava quella notte l’11.a battaglia dell’Isonzo, un numero palindromo. E bisognava conquistare quota 219 poi quota 246, la dolina della bottiglia. Ma tutte queste cose non gliele dicevano, quando la molla del tempo si scaricava, usavano parole semplici: baionetta in canna, tutti fuori, all’attacco. Qualcuno gridava Savoia, qualcun altro moriva subito, altri correvano e i feriti urlavano. Col cuore in gola, sparavano e correvano, vivi, finché durava. Era la notte del 17 agosto, compiva 34 anni, si chiamava Antonio, aveva due figli piccoli e una moglie e li amava tutti. Restò vivo e li pensò fino al 22 agosto, in quattro giorni morirono tra quota 219 e 246, 1594 soldati e 67 ufficiali. Numeri, ma Lui fu uno di questi e il suo luogo convenzionale di morte fu indicato in quella dolina delle bottiglie che ora non c’è in nessuna carta geografica.
Aver fede nell’essere è fiducia in sé stessi. L’essere contiene tutto ciò che conosciamo, ciò che siamo e ciò che non conosciamo di noi. Tutto interagisce nell’essere, pesca nella memoria e nel futuro, è il tessuto che genera il genio e la sciocchezza. Questo non significa che tutto sia uguale, che non capiamo cosa ci fa bene o ci dà piacere e cosa è negativo, c’è un discernere che è un processo in parte cosciente e in parte si affida all’intuizione, ciò che ne esce è comunque contenuto nell’essere. Questa percezione che siamo più grandi e più capienti del giudizio che di volta in volta abbiamo su di noi, non è alterigia o peggio supponenza, ma piuttosto la percezione che quella parte in ombra che è sempre nostro essere, andrebbe rispettata, indagata con rispetto, accolta con umiltà. Pensiamo alla capacità di fantasticare, quella di immaginare scenari con veridicità elevate, la possibilità di ricordare, di elaborare un ricordo e riconnetterlo al presente. Il ricordo diventa vero nel processo che lo riporta al presente e contiene non solo il fatto accaduto, quanto mai impreciso, ma tutta la strada che lo riporta fino a noi, ossia l’essere com’è mutato. L’essere contiene il giusto e l’ingiusto, non sono capacità immanenti, ma forse ci sono tratti comuni della specie che affondano nell’istinto di conservazione e nei rapporti di clan che diventano archetipi trasmissibili. Questo emergere del giusto è connesso con un rapporto paritario tra specie, una sorta di armistizio che rende norma la cooperazione in funzione di un benessere. L’essere non cessa di essere tale nel gruppo, trova l’individualità come coscienza e mezzo di relazione e al tempo stesso accresce la sua capacità di crescita. La conoscenza è gli strumenti di comprensione si accrescono nell’analogia, diventano memoria di gruppo e sono trasmissibili, quando diventano limite è l’essere che si porta oltre e li infrange secondo un obbligo di fedeltà a sé che pacifica il confronto tra esteriore e interiore. Chi ci conosce davvero siamo noi stessi, è la solitudine della comprensione che sente il limite del comunicare. Il senso del vivere diviene la comprensione di ciò che è potenziale, che è presente ma non conosciuto. In questo consiste il vivere come approssimazione di ciò che siamo interamente, con la verità che rappresentiamo e che ci accompagna in ogni nostro pensiero, sogno, passione, scelta.
Ho letto a lungo. La luce ha tagliato la stanza, mi ha raggiunto, avvolto, abbandonato. Cercava curiosa le cose. Sembrava riflettere sul loro ordine perché si soffermava sulle pile di libri, sulle riviste, sugli oggetti messi in attesa. Ha percorso tre pareti prima di assumere una gradazione pensosa. Le nubi assorbivano il tramonto. In questa stagione rifulge di rossi e aranciati prima di scivolare verso le tonalità del blu. Già si vedono le stelle e l’impero della luce traccia le linee dei monti, attende la notte. Seguendo la luce, lo sguardo si è alzato dalla pagina, e sollevato dalla distrazione dal testo si è sentito libero. A volte il bello della scrittura, la sua precisione nello scavare e nel descrivere le altrui emozioni genera fatica e chiede di poter fare propria la bellezza e la bravura, ma prende, coinvolge profondamente, affatica. Così ho visto le piante aromatiche sul balcone. Ciascuna di esse aveva la difficoltà dell’estate, la lontananza dalla serra che le ha partorite. Le loro foglie sono poca cosa rispetto all’opulenza del sottobosco, i prati stanno riprendendo il sopravvento sulla terra rasata, mentre il fieno dell’ultimo taglio non è ancora nei fienili. Fiori ed erbe trovano equilibri, succhiano con decisione la vita, esondano nel sottobosco, gareggiando con miriadi di felci ed erbe da ombra e fiori e orchidee selvatiche. Le mie aromatiche si accontentano di una vita modesta in attesa di nuovi spazi e fanno il loro lavoro, con dedizione e umiltà pensosa. Dialogano con la luce e l’acqua, con il mio sguardo, chiedono comprensione per la fatica di vivere e regalare profumo. Però sono amiche della notte e i loro sogni sono nel profumo che si fa più intenso mentre il buio avvolge la stanza e le cose. La notte cancella l’ordine e il senso, fa emergere altre guide per i pensieri di chi ancora non ha sonno.
E il riposo è lasciar scorrere nuove regole, togliere barriere e prima di dormire alzare gli occhi al cielo per cercare la luna. La stessa che in questa notte, molti anni fa, veniva toccata per la prima volta da un uomo. Impieghiamo troppo tempo a lasciarci cambiare dai fatti, l’uomo non è diventato migliore da allora e ancor oggi un libro può spostare più a lungo il pensiero di un’impresa. Così le vite, nel loro mistero, racchiudono più desideri e sogni di quanti ne contenga l’orgoglio e la tecnologia che diventa storia.