La sera durava sino all’infinito racchiuso nella prima lucciola, e una punta di nostalgia di quiete, incontrava il richiamo agli affetti. C’erano state, ma prima, ripetute grida nel buio, ma quel buio non c’era nell’ultimo gioco, nella confidenza bisbigliata sedendosi accanto, e aveva taciuto sino allo scadere della fiducia in sé, poi improvviso nel primo brivido di solitudine era stato evidente, il buio. E si stupivano gli occhi per le pozze di luce gialla che ora tracciavano i lampioni li c’era dentro e il fuori della notte. I marciapiedi erano luce riflessa, la scia verso casa, con la corte trafitta dal grido d’un rapace, e il cuore nell’ansia della corsa. Era bello il rimprovero contenuto nell’abbraccio, vedere le cose che avevano atteso e sentire il buio che s’acquattava sul davanzale come il gatto quando ci guardava, tranquillo, per capire.
Poi, a notte, emerge la fatica vitale dissipata sotto forma di gorgo. Nel caldo il presente diventa egoismo che elimina sentire. L’altra sera, ma ormai accade ogni notte, è mancata l’energia elettrica. Troppi condizionatori accesi, troppe luci, una festa paesana in più e cabine enel sottodimensionate per questi carichi assurdi. Si sono interrotte le serie di Netflix, i film di Sky ma anche le eterne discussioni dei soliti tuttologi. Le televisioni sono intrattenimento e teatro dei pupi. Ciascuno sa già come andrà a finire il discorso, il sequel, persino la gestualità è nel copione. C’era più pathos in una tribuna politica democristiana alla Jacobelli, Vecchietti e Zatterin, che nei conduttori attuali, sempre uguali e sempre convinti di essere loro l’idea del mondo e non i testimoni di esso. Con una politica fatta di scelte di vita allora, anche dalle domande compiacenti, emergeva sempre una idea del mondo che autorizzava a schierarsi. Oggi vorrebbero essere ringraziati i gestori dell’informazione perché ci risparmiano una faccia della verità, perché ci evitano di pensare. E così nella noia, il problema torna ad essere il caldo, il meretricio di un simbolo per il matrimonio del potente di turno, ma l’hanno già fatto, si ripeterà, perché lo sfregio è parte del guadagno economico dei pochi. l’impressione che tutto sia in vendita, rafforza l’idea che esista solo il presente. Solo il momento conta, non più la soluzione dei problemi, ma l’assistere partecipando a se stessi. Così si risucchiano i gesti in una scansione di fatti che si concatenano in sequenzialità a portata di giornata. Il domani non torna, non chiede, neppure si desidera e i pensieri, lo stesso tempo non hanno molto da dire. Cristalli di vissuto sciolti nel possibile.
Quando emergeranno le conseguenze di ciò che sta accadendo, nessuno di quelli che le hanno sostenute e generate, riconoscerà l’errore fatto. Sarà colpa di chi non si è ribellato abbastanza, di chi si è astenuto dal connivere. La responsabilità viene rifiutata, c’è sempre qualcosa che verrà invocato a discolpa. In fondo il processo di Norimberga è stato una eccezione e con pochi colpevoli a fronte di 50 milioni di morti, di nefandezze indicibili. Però qualcosa il vivere e i fatti ce lo insegnano. Vivere con una parte ha gradi di compromesso che riportano alla responsabilità. Se si fa trading on line con le industrie di armamenti, con l’energia, la farmaceutica e le banche, contano i guadagni o come vengono fatti per la propria etica ? Scegliere di non stare al gioco, di non aiutare chi si pensa sia un omicida di stato comporta delle scelte. Non di stare fuori dal mondo, ma essere nel mondo. Questa certezza di essere dalla parte sbagliata, di non vincere mai davvero, rincuora, mi dice che è sempre l’evidenza a cambiare le cose oltre a quello che si può fare. Un senso di onnipotenza se va e c’è la misura di sé. Essere minoranza è congeniale al dubbio, al non avere fedi trascendenti. I dogmi, i proclami, rassicurano chi avrà sempre ragione, vincono più che convincere e al loro rovesciarsi cercheranno di convincere che è la storia, la logica, a determinare le conseguenze non le loro colpe.
Ma la storia di chi pensa che governi solo il potere è diversa da quella in cui confido, perché una fede sotto sotto ce l’ho ed è nell’uomo, nella somma positiva che genera la sua voglia di vivere. La stessa voglia che prima gli fa credere alle chiacchiere che non includono la realtà , che accreditano la sua visione di comodo e poi lo spingono a disfarsene. E così mi fido di ciò che accadrà, dell’evidenza che fa combattere le battaglie che si pensano giuste, che non rincorre un consenso di potere, e alla fine, questa storia anche quando si sbaglia, riconosce il proprio errore. È questo vedersi in movimento, nella gioiosa fatica dell’incerta direzione contraria che fa sentire vivi e dentro al mondo. Quello che ci approssima è quello che è più vicino a noi e che determina il senso al presente e al futuro.
Il 28 giugno 1914 è domenica. Mio nonno e la sua famiglia abitano a Karlsruhe. Lui e’ un uomo giovane per noi ma già maturo nella sua epoca. Ha bei baffi neri e folti, capelli neri. Lo sguardo è fermo, deciso, con una tenerezza particolare negli occhi. Sua moglie è piccola, magra, dolce e bella, hanno due bambini, entrambi nati in Germania, uno è nato da poco, è mio padre, la sua sorellina ha due anni. E’ una famiglia felice, stanno bene economicamente, hanno una bella casa, il nonno ha un lavoro autonomo. Guardiamolo un po’ meglio. Ha da poco superato i trent’anni, ma ha parecchia vita sulle spalle. Lui e i suoi fratelli sono emigrati, pur avendo un lavoro e un piccolo patrimonio nel paese dove, da sempre, la famiglia ha vissuto. Con loro sono emigrate anche le sorelle. Sono passati per la Svizzera, fermandosi due anni assieme e poi si sono separati. Chi è rimasto in Svizzera, chi è andato in Francia, lui ha scelto di andare in Germania con la moglie, che l’ha seguito sin dal primo momento. Sono sposati da pochi anni. Lavora molto, il Toni, ma è contento di quel paese da poco unito in cui si è fermato. Pensa di stare il tempo necessario per accumulare un buon gruzzolo e poi tornare a casa, sui colli, a gestire la locanda, l’appalto dei tabacchi, rimettendo in ordine le case, i campi, e comprandone degli altri. Non è un contadino, nessuno lo è mai stato in famiglia, i terreni servono per la locanda e per l’osteria, per fare vino, un po’ di granturco, animali da cortile, ortaggi e mandorle. Abitare sui colli non è facile in quei tempi, e soprattutto dopo l’unità d’ Italia, il Veneto si è ulteriormente impoverito, per questo sono emigrati. Di Sarajevo, di quello che è accaduto la mattina, non sa ancora nulla, lo saprà il giorno successivo. Immagino che ne avrà parlato con la nonna la sera dopo, accennando senza calcare la voce per non preoccuparla troppo. Le avrà detto che per loro non cambiava niente, che sarebbero rimasti nella loro casa di città, con i nuovi agi acquisiti e che queste vicende, loro, le hanno già vedute. Non si ricorda, la nonna, dell’uccisione di re Umberto a Monza, e dello zar in Russia? E cos’era accaduto? Nulla. E poi la Bosnia Erzegovina è già difficile da pronunciare, chissà dov’è. Sono paesi oltre il mare, agricoli, come il Montenegro, il regno da cui viene la regina d’Italia. Tutto è lontano dal Baden. L’Italia è alleata della Germania e dell’Austria, cosa può venirne di male a loro? Nulla. Hanno anche preso gli attentatori, quindi ci sarà il processo, la condanna e poi basta. Loro hanno lavorato senza risparmiarsi, vengono da anni prosperi e felici, sono persone normali e un po’ speciali, hanno coraggio: il futuro sarà positivo.
Nei mesi successivi, già alla fine di luglio, le cose cominciarono, invece, a precipitare. All’inizio non capivano, L’Italia era ancora alleata di Germania e Austria ma non entrava in guerra. E gli italiani cominciarono a non essere più graditi. anche il lavoro era diventato più difficile, così, credo, che se fecero una ragione quando furono costretti a rimpatriare. Con due bambini piccoli, vendendo il vendibile, ritirando i risparmi. Chiudendo casa con i mobili, le cose della vita costruita con fatica e dicendo ai vicini che sarebbero ritornati. Partirono con le sole valigie, fatti salire su un treno che riattraversò la Svizzera. Questa volta non si fermarono, ma sarebbe stato meglio. Chissà cosa pensò mio nonno, probabilmente non aveva voglia di ricominciare subito e i marchi oro e le sterline erano abbastanza per tentare un’ attività al paese. Poi, in realtà, non ricominciò nulla di definitivo e quei soldi consentirono a mia nonna di essere indipendente fino al 1920. Così tornarono e dopo pochi mesi, il nonno fu chiamato alle armi, per chiudere la sua vita in una dolina sul Carso, nel ’17. Era una persona pacifica, non aveva voglia di guerra, ma qualcun altro l’aveva attirato in una trappola del presente. Quel presente che non ha futuro quando le cose vengono spinte troppo da chi non ci pensa, anzi lo vuole determinare il futuro mettendoci la volontà di onnipotenza. Mio nonno invece pensava, e sapeva, che il futuro si costruisce con la giusta lentezza, ma lui era solo maggioranza. Non contava poi così tanto. Così fu uno dei 12 milioni di morti soldati. E la bimba fu uno dei 5 milioni di morti civili, morì di spagnola nel ’19. La nonna fece il possibile, anzi molto di più. Non si curò del patrimonio, seguì i figli e poi mio padre. C’era un posto per il dolore e uno per la vita? Lei fuse tutto e conservò di mio nonno il ricordo di un uomo giovane, dolce e deciso. Ne parlava poco, ma le poche volte che questo ricordo doloroso oltrepassava le labbra, era con grande tenerezza. Lei che non si era più risposata, che aveva affrontato e ricostruito la vita dopo la dissoluzione di ciò che aveva e dei legami con i parenti. Da come l’ho conosciuta, e l’ho conosciuta e amata molto, non le importò mai delle cose perdute, non ne parlava, ma delle persone sì. Era attenta agli affetti rimasti e al nonno, del resto s’era liberata con noncuranza.
E’ il 28 giugno, è domenica, la famiglia è riunita per la cena. Dalle finestre aperte entra il caldo già estivo, le voci un po’ strane della strada, la brezza della sera. Forse mio padre piagnucola o forse dorme, la bimba gioca. Magari c’è un po’ di nostalgia ma il futuro è pieno di tenerezza come il presente. Lontano è successo qualcosa che li riguarderà, non lo sanno. Anzi credo che mia nonna non abbia mai ben collegato le cose e forse è stato bene. Lasciamoli così in una piccola grande felicità, in una domenica di giugno di centoundici anni fa.
La palla volò altissima. Le teste dei piccoletti sollevarono il naso e la videro ben oltre le cime degli alberi. Ventidue piedi confusi, furono disattivati dagli occhi. E che occhi! Prevalentemente neri, grandi, intenti a parlare con i pensieri bambini e con qualche preoccupazione saettante. Logica della palla e previsioni senza scotto d’errore. Cadrà? E dove?
Devo tornare a casa, ha pensato qualcuno, improvvisamente sommerso dai divieti infranti.
Che bel sole ed è quasi sera, ha pensato un altro, innamorato del tempo per giocare, per stare assieme.
Entrambi e chissà quanti altri, volevano vivere come sanno fare i bambini quando il tempo non conta e gli occhi vedono tutto.
Verde e gialla, la collina retrostante, era velluto d’erba ed alberi pieni d’ombra.
La videro anche i due vecchi, e si allungarono sulla panchina al bordo del campo, scambiandosi un silenzio. Tra chi aveva già detto molto, succedeva, ed era solo la noia del sentirsi dire.
La palla infine cadde (solo il tempo era sospeso), con uno sbuffo di polvere, due rimbalzi stanchi e si fermò in attesa. Allora tutto si rimise in moto: piedi, voci, sudore nuovo di zecca e tra pedate e speranze il pallone s’ avvicinò all’unica chiazza d’erba, vicino al corner di sinistra.
Lì, per qualche oscuro disegno del creato, la vita e l’acqua avevano trovato un accordo e il campo da gioco assomigliava a se stesso con l’erba fresca e rasata.
Pensieri di un perditempo ai bordi di uno sperduto campo da calcio mentre mira l’anestesia del particolare, e dilaga ricordi la sera.
Ci sono quei giorni in cui ti prende il ghiribizzo, che è come un salto di gatto che poco lo scompone e appena un attimo dopo cammina indifferente. Ma dopo. Ed è la voglia di andare. Di andare senza tregua e senza troppa meta per un po’. Arrivare e ancora non sapere. Straniante e nuovo com’è quando entri nella stanza d’albergo di una città che non conosci. E’ notte, non hai visto nulla, solo le luci in cui affogano le strade e nascondono le case, viali sconosciuti, muri affiancati, gente che cammina e guarda. Non te, guarda e basta. E’ proprio gente, e almeno per un poco lo sarà, poi ti sembrerà d’averne un pezzetto d’anima, e sarà quello che porterai con te. Ma dopo, non adesso con la mano che cerca l’interruttore, mentre lo zaino pesa e la valigia preme sulle gambe. Finché scopri che per avere luce bisogna infilare quella stupida chiave elettronica in una fessura per il giusto verso ed ecco allora che il tuo piccolo regno s’ appalesa, impudico alla luce, con le cose ben ordinate, i colori della “casa”, il tocco che lo differenzia. E già ti chiedi quale cifra oscura contenga quell’ordine che ha rassicurato una cameriera al piano, dato tono a una direzione, identità miserrima ad una impresa, ed è stata pensata in qualche creativa riunione. Tutto questo anche per te. Ma in fondo le stanze d’albergo sono tutte uguali, al più suscitano qualche sentimento iniziale di scoperta e meraviglia per una piccola differenza, ricordi quella strana doccia in camera, ma proprio in camera appena oltre il bastone degli attaccapanni, che ti ha colpito così tanto da tornarci ogni volta che potevi. Ti sembrava allegro questo circolare senza schermi e senza muri. Però sai che non sono quelle la vere differenze, non lo è mai da nessuna parte per quanto particolari possano essere le stanze. E’ quello che vedi oltre la finestra l’interesse che ti ha portato qui. L’acquario è fuori e adesso è notte, il vedere polisemico che si svuota e rimanda a te, al perché sei fuggito e attendi il giorno. E mentre guardi la luce degli stop delle auto, spegni quella stupida luce che ti preme alle spalle, così lasci che l’oscurità colorata si ricongiunga a quella che ti porti dentro. E ti pare che tutto questo fondere e risucchiare, con tutte le similitudini ch’evocano il sesso in una notte stanca e vogliosa d’altro, è scendere caldo nella paura che ha bisogno d’amore, trattenere tepore e sentire che dopo un brivido, a cui altri sono seguiti, infiniti, sino a non poterne più, ti sei ritrovato squassato e inerme. Squassato nell’amore, qualunque esso sia, e ti senti inerme, per questo quando la coscienza ti prende, e ti vien voglia di fuggire dove l’inermità non si vede, dove amore è attendere che una luce fughi il buio e mostri la novità delle cose. E allora via via fino al senso. Se c’è un senso c’è speranza.
Si spengono i fiori di mandorlo e a terra si stende la luce: in anfratti d’erba riposa la sera. Tra lucertole assonnate chiude il giorno, che ancora rincuora e quiete le cose, preparano la notte. Tu torni, è la sera che benedice il passo, per te è il calore che ti abbraccia, il profumo di legna e di ferro, l’acqua che bolle e il catino che attende il viso dopo le mani offerte all’inverno. Così è caldo il volto, e i tuoi occhi limpidi cercano dopo la cura di sé, il bacio. Nel profumo della cena la parola, accarezza il verbo, la lingua antica, e caccia nella tana, le paure. Tu sapevi del vivere aspro e mi donavi del tempo la notte e il coraggio del sogno. Il mio cuore sereno, in te, dormiva.
E’ una delle ultime feste delle matricole, il ’68 renderà improvvisamente anacronistica questa festa, che riprenderà alla fine degli anni ’70, quando tutto sarà normalizzato. La fotografia è del 1967, scattata su fp4 Ilford, sviluppata e stampata in casa. In quell’anno l’università elitaria diventa università di massa, ma soprattutto comincia a mettere in discussione i meccanismi di trasmissione del sapere e la loro incidenza sulla società. Si capisce che il sapere serve per mantenere potere, soggezione e diseguaglianze se non mette in discussione il suo fine. La conoscenza fino a quel momento, ha liberato poco le persone e la società, se non è stata accompagnata dalla critica e dalla richiesta di cambiamento. Cioè non basta leggere la società, bisogna trarne le conseguenze. E’ una consapevolezza che cresce e diventa collettiva, ma quello che viene poi, dal 1972 è una sequela infinita di errori, di radicalismi, di alienazioni differenti, e altrettanto gravi. La lotta armata, le uccisioni di magistrati e giornalisti, l’attacco al cuore dello stato, i servizi deviati, gli attentati neri, i golpe falliti. Il poligono dei fatti, la stanchezza, le intenzioni diverse si combinano. Ci sarà la restaurazione e il lento scivolamento nell’anomia, nell’esasperazione dell’io perché il noi è insoddisfacente. Il sapere torna nell’alveo della trasmissione delle competenze, non discute più rapporti e fini, si tecnologizza e parcellizza ulteriormente. Si capisce che il sapere di per sé non salva, al più pone domande radicali, anche se aiuta a trovare risposte nell’analisi della realtà e bisogna decidere se ascoltarlo o meno. Nel frattempo la macchina del sapere si organizza, crea competenze alte ed esclusive, ma in campi ristretti, dequalifica come inutili economicamente le conoscenze umanistiche, punta sulla parcellizzazione che allontana le risposte complessive e fa trionfare la tecnologia. Ogni problema singolo ha una risposta tecnologica, ogni malattia del corpo e dell’ambiente riceverà una guarigione. E poiché non può economicamente attendere la coscienza del problema che crea, spesso la tecnologia anticipa la domanda, la crea. Il bivio tra un sapere che colloca l’individuo nella società e quindi la sottopone al suo vaglio e il sapere funzionale nasce ben prima del ’67, però in Italia diventa coscienza collettiva in quegli anni. I risultati di una meditazione caotica, non per questo priva di acutezza, di fortissimo discernimento, sfociano, anziché nella sabbia che è sotto l’asfalto, come si scriveva sui muri di Parigi, in un grigiore di cemento. Se prima del ’68 l’attacco al territorio e all’uomo, la speculazione, erano un fatto enorme e censurabile, questa pratica divoratrice diventa poi una corsa all’arricchimento di molti improvvisati prenditori. Cresce la scolarizzazione, il sapere eppure aumenta la malversazione, il malaffare grigio, la corruzione, la pratica criminale intelligente. Non c’è correlazione tra sapere e comportamento delinquenziale, ma certamente viene riscoperta da chi avrebbe nuove capacità di critica, l’infingardaggine, il girarsi altrove, il non vedere per interesse. Quindi il sapere abiura alla sua funzione critica e pur essendo di massa non migliora complessivamente la coscienza sociale. Dov’era l’errore? Forse nel dare al sapere una responsabilità che in realtà è dell’uomo, ma anche nella malintesa concezione che il sapere serva a fare e non ad essere.
Quel giorno, è l’otto febbraio, sono molto giovane e pieno di pensieri e speranze, giro per la città con la mia macchina fotografica. Cerco i volti e i particolari, come sempre, le situazioni accennate. Guardiamo questa situazione, dietro l’angolo del Pedrocchi si prepara una sorpresa, sono giovani che vogliono ridere con altri giovani. La giovinezza esplode nello scherzo e nell’ilarità conseguente. E’ un attimo poi qualcosa di diverso attirerà l’attenzione per ulteriore ilarità. In questa sospensione prima che qualcosa accada, è vissuta una generazione e la successiva. Non malamente, si è riso molto. I due della foto si stanno preparando alla vita, non so cosa sia accaduto loro, come le vite si siano svolte. Se penso a ciò che conosco, immagino che le difficoltà e i grovigli non siano mancati, che la crescita abbia avuto luci e amarezze, che l’indole si sia piegata, indurita, che abbiano appreso molto dalla realtà (che è sempre una dura maestra). Sono miei coetanei, e poi hanno avuto occasioni per usare il sapere che questa alma mater gli ha dato. Chissà, e come, le hanno usate le occasioni. Comunque i loro anni saranno stati pieni e di certo le soddisfazioni avranno equilibrato le amarezze. Sono anche certo che c’è stata molta speranza, ma che questa si sarà via via esaurita se non l’hanno alimentata di utopia e di sogni. Hanno vissuto, ma non sappiamo come abbiano impiegato ciò che gli è stato dato, se l’abbiano elaborato e siano diventati eretici rompendo paradigmi, oppure si siano smarriti in nuovi stereotipi del vecchio mondo. Stanno per avere una grande occasione e così li lasciamo, nel 1967, in attesa di una vita che ci sarà.
Ci sono case che attendono un ritorno. I balconi, non tutti, sono socchiusi. Qualcuno ha tagliato l’erba davanti alla porta di casa. Una tenda estiva è raccolta da un lato, il vento la disturba appena con movenze di ballo.
Il cancello è chiuso, ma attende una mano che lo muova con le accortezze che chi è di casa conosce : bisogna tirarlo a sé e poi spingere come fosse assopito. Aprendolo tutto c’è quel piccolo cigolio che il padrone di casa ha intenzionalmente lasciato, come fosse un saluto, un affettuoso riconoscersi tra uomini e cose. L’aveva sentito, nel sole di ottobre e allora ha ripensato al colpo di tosse del Padre all’ultimo gradino, la chiave che girava, poi il saluto, la corsa, l’abbraccio.
Le case attendono e ricordano. La calce assorbe la traccia dei suoni, li sovrappone con cura, come i cotoni nei cassetti. Li profuma, persino, con gli antichi sentori di pulito: la soda, il sapone di Marsiglia, la lavanda che ancora s’appoggia alla casa, il profumo del sole intriso nel bucato disteso.
Ci sono richiami conservati con cura: il calore che ha tenuto a bada gli inverni, il lampo dei vetri aperti alla buona stagione, il profumo del sugo a mezzogiorno, il caffè del mattino, la prima sigaretta nella luce nuova che esce dal buio e la brace che arrossa la notte.
Le case attendono con piccoli rumori di legni e d’insetti, si fanno compagnia con gli uccelli che posano sulle grondaie, becchettano i semi e i frutti non raccolti e fedeli rinnovano i nidi e i nati negli anni.
Nelle stanze, nel telefono, ci sono parole non dette. Attendono, assieme alle frasi con le sintassi leggere degli abbracci, le cantilene del dialetto, i racconti colorati d’affetto. Nella sera, che rimbocca la notte, qualcosa racconta, è l’indefinibile che resta. Bisogna lasciar scorrere i pensieri e si sente col sussurro delle stelle, allora lo sguardo si alza e il cuore rallenta, mentre l’umore della notte inumidisce gli occhi.
Non è ricordo è l’attesa; quella pianta che mette radici profonde e ascolta. Senza dire, ascolta.
Dovremmo essere fedeli alla nostra piccola pazzia. Della nostra libertà interiore e profonda è parte vera e dovrebbe essere coltivata (e vista) come tale. Confina con quella verità che non è sovrastruttura e che toglie la scorza della convenienza dai gesti, dalle parole. Li rende scabri, essenziali alla comunicazione, trasparenti. Adamantini. Limitare il motore di tanta preziosità offerta, travisa il suo senso perché essa pensa di non offendere, di essere vista nella sua nuda bellezza. Ma è possibile non toccare sensibilità, non essere fraintesi quando si è liberi di essere se stessi? Cosa ci rende liberi oltre alla piccola pazzia del dire e dell’essere?
La con fidenza, la fede nell’altro che è accettazione della sua verità profonda, che toglie gli eufemismi e le metafore, le comparazioni che diminuiscono la forza delle parole adatte al sentire. Nella piccola follia scompaiono i “come” perché essa rivendica la propria unicità. Anche nel tacere che perde ogni timore o giudizio ma è interruzione del dire, pausa che riflette e cerca nel profondo chiarezza e ciò che non appare.
Lei, non risponde caro dottore. E come potrebbe dai vicoli pomeridiani del suo sapere, dalle analogie che interpretano, confinano, restringono in scarpe strette l’andare innanzi. La stessa meta, anche se la scelta (atto benevolo di libertà e di servo arbitrio che abusa di causa ed effetto) è comunque lasciata non alla risposta, ma alla sua interpretazione e quindi alla responsabilità di chi la compie. E la scelta raramente risponde alla piccola personale follia ma è un compromesso tra volontà condizionate piuttosto che rappresentazione delle spinte interiori.
Alle mie domande lei, ne pone altre ed io mi perdo in difficili, ulteriori equilibri. Ciò che si nega è esso stesso silenzio del profondo e ogni libertà porta con sé lo stigma di una ritirata. Basterebbe ricordare che non le battaglie perdute ma la continuazione di esse in altro modo e luogo alla fine consentirà la vittoria di essere se stessi.
Dietro ogni porta che si è chiusa non c’è il ricordo ma una possibilità che è continuata e che è definitivamente altro dalla magia che ha permesso, un tempo, di scambiarsi doni fragili e veri. Ad essa si è sommata tutta la materia che sembra polvere e strada ma è stata essa stessa verità cristallizzata in altre infinite scelte. Avessimo ascoltato le piccole follie, ora le smagliature dello spazio tempo conterrebbero una piccola rappresentazione di sé. Una mappa, un portolano della profondità che si è raggiunta e che ha rifiutato il determinismo sociale ed è ora aiuto per ogni scelta successiva.
Questo le risulta difficile dottore ma ognuno di noi, lei, io stesso, conteniamo una perpetua ucronia quando non ascoltiamo la nostra piccola follia: il mondo prosegue indipendentemente dalle nostre scelte e se ci pensa, non è il conformismo che lo rende migliore.