Chiusa la porta ora l’aria è una lama che sfugge, la luce batte sui vetri, sgomita, apre varchi, chiede alle probabilità, che gli occhi socchiudono, che il sogno inizi. Là dove il verde si guarda e s’intenerisce di sé chiedi a chi tiene conto, dei fili dell’erba, d’ogni orma passata, del volo in ogni sua specie. Vedi come scava la luce nei muri, cogli l’ombra dei passi che addolcisce la pietra, E senti del cuore gli inciampi, il canto sommesso delle cose in disparte, e il dire tuo, nel pensiero che esita, diviene cura eccessiva del gesto, sino al sospiro che ammutolisce. Immagino la penombra, il rumore della quiete e l’offerta che sceglie, dal senso la forma del dirlo, accosti il sentire come fosse colore e dissona o converge del tutto la piena armonia.
Nel pomeriggio la luce s’è accasciata tra I covoni, stoppie dorate e uccelli in cerca di cibo, la mente compita parole, versi d’acqua salmastra, di canale tra campi, per loro conto escono parole, suoni che bevono senso profondo come una ferita e povero d’ogni nome. Le case sono contenitori, esitano, stanno a guardare il caldo di canna accumulato sulla riva, tra fango e radici. Mentre gioca il caldo col sonno la mente dondola e non assopisce, esce su realtà parallele, inoffensive e taciute silenzio fatto scivolare in correnti che accarezzano, in libertà senza luogo. Fuori il vuoto si riempie di calura e come nel deserto è l’aria che forma corpi e volumi, traccia immagini che l’impreciso risucchia. Vortici di stanchezza inerte, colore dell’ocra, fine polvere di lettere sgranate, sono quelli i pesi che tolgono e danno, in un mescolarsi di vista e allucinazione. Ma non è forse ciò che non è, il desiderio, non è l’ombra di un ritardo che sente il peso delle ore, vede il sangue e le vite, i destini spezzati, e vive in un angolo dove il primo sentire è polvere, grano nei carri, acque stanche d’uccelli e violenta calura
Ora la violenza del silenzio, della riprovazione, della presenza muta che toglie il sonno al potere cieco.
Ora la consapevolezza che porta l’amore altrove, lo schierarsi senza reticenza e senza passaporto, l’esserci perché non si tollera più la distruzione del presente e del futuro.
Ora la fuga dal servilismo, l’ostentazione muta del diritto violato.
Ora la forza anarchica della risata che confina i potenti nella solitudine del ridicolo.
Non meritano le nostre canzoni, i nostri slogan e allora silenzio, esecrazione. Ogni giorno finché non cambia.
I suoni si gonfiano dalla vecchia radio; morbidi sul rumore di fondo assomigliano a colpe mai perdonate. Onde medie e valvole imprecise, per scelta, oggi riportano ai tepori rumorosi d’infanzia, agli elastici un po’ lenti, alla voglia di rimettere a posto indumenti negli accordi che sbavano appena. Basta tendere l’orecchio e s’ intuiscono pensieri, che infilano imbuti di note: pare, m’era sembrato, mi pareva, bianchi e neri di suoni, simmetrie di sentimenti, rimbalzi. La musica ? Non ci salverà, come i ricordi.
Il pensiero è altrove, nella luce d’inverno che corre presto nella notte, rossa ed umida in cerca del calore, che fa vibrare di carezze il cuore.
nel lavoro si predicava: Tu puoi trarre il massimo da me se mi consideri persona e non cosa. Se la mia opinione vale e non viene usata contro di me. Se valorizzi ciò che posso dare attraverso quello che do, posso essere fedele ai progetti dell’azienda che poi sono i tuoi se mi meravigli con una nuova conoscenza e così i progetti diventeranno i miei. Ciò che non puoi fare è essermi indifferente.
Esisteva un piccolo negozio di dischi, una stanza incastonata tra un’osteria e un ferramenta, con due cabine anecoiche e i dischi stipati in verticale in mobili di formica. Ci si sedeva su una panchetta all’interno di una delle cabine, si chiudeva la porta pesante con una piccola finestra e si metteva la cuffia. All’esterno un signore, forse proprietario, ma di certo possessore della musica, metteva il disco e lo faceva assaggiare nel pezzo scelto o in uno a sua discrezione. Mi piacevano molto i pezzi che lui sceglieva, preannunciavano un piacere sconosciuto, che poi avrebbe avuto modo di diventare parte di me. Mi convinceva con un annuncio di bellezza, un inizio di conoscenza e di passione. Non funziona così anche per le grandi imprese tra gli uomini?
Si diceva che in fondo non abbiamo altri criteri per scegliere in un gruppo: gli amici, i nemici, gli indifferenti.
Vale anche ora, gli indifferenti a noi, non contano.
Ognuno di noi contiene la propria malattia e su questa costruisce vita e relazioni.
Ne ha sensibilità, ma la mette in disparte, la maschera di necessità.
Scrivo di marginalità, penso cose strane e futili, uso quello che conosco per indagare con lo sguardo a lato. Mi interessa vedere intorno dopo aver guardato negli occhi, perché lì dentro ho trovato pezzi di me.
Conoscere la propria malattia significa averne intera la paura, vedere che l’indifferenza è appena dietro l’angolo pronta ad azzannare.
Quindi non è vero che l’indifferenza non conti, specie quando si maschera di cinismo, non è più inazione e azzanna la volontà.
Curare la propria malattia, significa capirla e temere il cinismo che non fornisce interessi veri. Solo le passioni sono a lato del cinismo, agiscono con chimica strana che combina occasioni e sentire. E se quasi mai si completano negli enunciati che le avevano generate, forniscono, comunque, la materia del vivere.
Scrivo spesso di piccole cose per me grandi e mi occupo di cose vere, mi saturo di realtà ogni giorno, al contrario di quando si parlava molto e si faceva poco o nulla e si viveva altrove. A lato. Allora restava quel vuoto, quell’inanità che genera la percezione della propria insufficienza colpevole.
Anche adesso.
Così la mia indignazione diventa passione e si scatena appena fuori della banalità di ciò che questo paese è diventato.
Ognuno è soggetto felice delle proprie passioni.
Per età potrei dire che non è più compito mio, che non m’interessa più. Ma in fondo la terza metà della vita, non è destinata a fare ciò che non si poteva fare prima, quello che non si è fatto è definitivamente perduto, ma il nuovo che è interessante, i nuovi percorsi e vincoli, le nuove virtù.
Ognuno di noi contiene la propria pazzia e ne ha nozione.
Spesso è l’unica libertà, la parte vera che si possiede, per questo è intollerabile viverla con continuità. La pazzia non conosce il limite tra il particolare e il generale. Totius ex parte. Era uno dei principi della magia antica, nel particolare c’è tutto il conoscibile dell’universo, tutte le contraddizioni, tutte le forze e le equazioni fondamentali. Per questo cerco la mia pazzia nei particolari, li lego alle passioni con sottili rossi fili di seta, scrivo di sciocchezze e m’intrido di realtà.