mescolo tempo e vita con passione e sono curioso, mi occupo più o meno di sviluppo territoriale compatibile con chi ci vive, annuso il presente.
Difficilmente troverete recensioni di libri o di film tra queste note, anche i versi citati sono rari, perché mi piace la poesia come fatto personale. Ci saranno pochissimi giudizi, gran parte dello scrivere sono impressioni. Per le analisi sono noioso e lascio perdere. Non troverete un canovaccio prestabilito, ad altro è riservato questo luogo, di fatto è uno zibaldone del senso del mio tempo.
Gran parte delle mie opinioni sono parziali, si basano su tesi affini e non assolute, sono verificate per quanto possibile, per voglia, per interesse. Ho dei principi basati anch'essi su un'etica appresa e rielaborata, su concetti di giusto e ingiusto che cercano di contemperare il desiderio con la realtà. Di mio ho aggiunto una sensibilità verso l'uomo, la sua carenza di protezione di fronte alla violenza, all'arroganza. Quindi mi muovo in un relativo che per parte piccola o grande è mio e per buona parte mi viene da ciò che ho appreso. Non insegnato, appreso, perché ho aggiunto una discreta propensione al rifiuto e alla libertà connessa. Quindi, traete voi le conclusioni perché tengo a poche cose per davvero e il resto è opinabile.
Ci sono dei punti fragili, linee di frattura dove ciò che si rompe ha un profilo netto e un dolore acuto. Sono grafie che l’animo mette a disposizione, non facili da leggere, hanno storie e vedono il futuro. Restano accoste se vengono rispettate, sono segni che possono colmarsi d’oro per essere saldati, ma preferiscono l’attenzione, il meditare sul vuoto e su ciò che tiene assieme. Prima erano uno e lo sono tutt’ora ma diversi e nuovi, bisogna capire come. Adesso raccontano.
Cos’è l’insieme e perché ha bisogno d’essere unito? È questo il senso dell’equilibrio, della sutura che connette e salda il passato, costruito col presente e futuro?
Rabbercia i pezzi chi non è cosciente di sé, chi si dibatte, chi è disorientato e non conosce ancora la differenza tra la profondità e lo stare a galla. Forse per questo ciò che si produce senza coscienza e convinzione, si sgretola e ha bisogno di integrità, di un passato che non sia gettato in disparte ma sia valore.
Sedevano con i loro camici bianchi in tre, due uomini e una donna. Lei prendeva appunti era a lato, l’uomo al centro e parlava con voce più bassa. Chiedeva del presente. Non usò mai la parola sofferenza, neppure dolore adoperò, trasse conclusioni senza chiedere del prima. La donna annotò ogni parola significativa. Ma come faceva a sapere che avevano lo stesso concetto di importanza? Era stato emesso un giudizio. Si sentiva.
L’effetto negativo poteva essere sciolto con una rassicurazione, la causa non aveva dignità d’essere indagata? Con la stessa voce che chiedeva, l’uomo al centro, propose di soffermarsi il tempo necessario per precisare. Lo scrisse.
Fu un punto di frattura, profondo e chiaro, generato separando il prima dal dopo, padre di altre successive fratture e fatica e dolore di suture. Così, avanti, all’infinito, che è poi un non finito, dove il peso, tutto il peso, del discernere ciò che è buono da ciò che non fa bene, ricade sempre su chi si tiene assieme e cerca, trova, i numeri, gli equilibri, così l’opera d’arte del vivere è una scultura mobile di Calder, un tener di buon conto l’aria e l’oscillare. Il senso è ciò che avrà equilibrio e movimento.
Solo se non s’è compreso la frattura non genera e non sublima, ma basta attendere e tutto tornerà ad avere un nesso tra ciò che è stato e ciò che sarà.
Ognuno di noi è il prodotto di un numero grande di variabili e di scelte altrui. Le strade che generano e percorrono le vite sono il frutto di scelte che si intersecano con il nostro libero arbitrio. È il regno della possibilità e degli universi paralleli e molto più concretamente è la nostra storia che deriva da una catena ininterrotta di vite e presenze. Mi capita di pensare a mio nonno, di lui ho una fotografia, pochi pezzi di racconto degli anni di vita, storie di famiglie che si scindevano perché una morte toglieva la possibilità di continuare una attività, un commercio, l’integrità di un clan. Così un gruppo si spostava, cercava fortuna lontano dalla piccola patria che per secoli era stata il luogo della presenza unita. Mio nonno con l’intero ramo familiare non aveva fatto eccezione, ma questa è un’altra storia. Da questo nonno sono venuto anch’io, dalle scelte sue e soprattutto di altri, si è determinata la sua vita e quella di mio padre e mia nonna e come onde in uno specchio d’acqua, altre vite e scelte in un intersecarsi continuo. Quattro anni fa ho cercato il luogo dove si è annodato un tempo con altri tempi, ho capito che tra quelle doline, macchie di quercia, terreni aspri e case sparse, era accaduto qualcosa che era dolore, storia e continuità. Gli ho reso grazie, come sò e posso. Ognuno di noi inizia ed è continuità, questo il senso di essere flusso. Passato, presente, futuro. Non ci si perde nella memoria e lì si trovano dolcezza e gratitudine e senso.
Il 17 agosto era il suo compleanno. 17 anni li aveva lasciati nel secolo precedente e 17 nel nuovo. Era abituato a fare conti, confrontare numeri, vedere i risultati. I numeri erano curiosi a volte, ma non tradivano, si sommavano, sottraevano, dividevano, ma alla fine restava un numero che rappresentava qualcosa di univoco. Un dare e un avere. Lui pensava che doveva ancora avere molto. Aveva persone che amava, due figli, una moglie, un lavoro, una vita da vivere assieme, quindi i conti erano aperti, i numeri dovevano tornare. Quella notte ci fu il trasferimento che era stato comunicato in giornata. Poche parole in italiano ripetute dagli ufficiali, verso i sotto ufficiali, e poi giù fino alle orecchie dei soldati. Le sue. Tra soldati parlavano in dialetto, il battaglione era stato costituito all’interno di due province vicine. C’erano anche altri che venivano da regioni diverse e parlavano altri dialetti, ma alla fine ci si capiva. Lui era abituato a capire lingue e dialetti differenti, parlava anche la lingua di quelli dell’altra parte dei reticolati, ma non serviva, non c’era molto da dirsi in linea, c’erano solo urli e sfottò. Ed erano meglio i secondi perché significavano quiete. Venivano da un turno di riposo, dopo essere stati in linea dal 13 maggio al 23 luglio, sempre da quelle parti, ed erano stati dimezzati: 1806 uomini e 36 ufficiali morti. Poche centinaia di metri conquistati, erano passati da quota 224 a quota 247. Numeri che erano piccoli dossi e buche che lì si chiamano doline. Buche in cui si ammucchiavano vivi e morti, pietre e ordini, assalto e fortuna. Numeri. Si contavano muti, la sera, poi c’era la notte per pensare e la speranza che la sera dopo si potesse contare di nuovo. Chissà cosa pensava ricordando maggio, giugno e luglio. I visi si confondevano, le persone e i fatti, tutto nel rumore degli scoppi, la corsa dell’assalto, l’acquattarsi nella dolina. Fare, sparare, correre e attendere la notte, non pensare, restare vivo. Nei momenti di quiete ci si aggrappa a quelli certamente vivi, alla famiglia. Contava la famiglia e lui, lui e la famiglia. Vivo. Durante il riposo e le esercitazioni si formavano gruppi, assonanze sociali, quasi parentele, ma sapevano tutti che erano su un crinale, vivere era questione di attimi, dipendeva da una coincidenza con una pallottola o una scheggia, dalla caduta di quello a fianco, dal caso. Fino ad agosto riposo, meno di un mese e poi il 17, il giorno del suo compleanno, di nuovo in linea, immersi nel caldo torrido del giorno, con la pietra che si arroventava e lì c’era solo pietra. I pochi alberi erano stati spazzati via dai bombardamenti preventivi, i cespugli bruciati dai lanciafiamme. Pietre a pezzi, sminuzzate, frammiste a metallo di scheggia, reticolati, doline e trincee, teli sbrindellati e la comunanza di essere accalcati gli uni sugli altri. In attesa. Il tempo si comprime e dilata, lì per giorni si caricava con la molla dell’attesa. Non passava mai ed era sempre corto, immediato. La notte del 17 era fresca, come tutte le notti, si faceva sentire l’alito del vento del mare di Trieste che s’incanalava tra quelle valli strette, lambiva quei cumuli di pietre. A luglio, dal colle di Sant’Elia, il mare si vedeva e sembrava così strano che laggiù ci fosse una vita normale, che le persone andassero al lavoro, a casa la sera, dormissero in letti normali, facessero l’amore, bevessero birra fresca nelle osterie e a cena accarezzassero la testa dei figli chiedendogli com’era andata la giornata. Li, anche se non formalmente, c’era la pace. Il Papa aveva parlato di inutile strage per tentare di fermare la guerra, non c’era riuscito anche se i re e gli imperatori erano tutti cristiani. Ma poi quelle parole così comprensibili e adatte ai tempi non erano esse stesse una contraddizione: quale strage può essere utile? Lui non pensava tutte queste cose, la notte del 17 agosto, sentiva che andava in linea, compiva gli anni, e sperava che quella pace poco distante nelle retrovie avrebbe potuto raggiungerla. Contava i giorni in cui restare vivo. Iniziava quella notte l’11.a battaglia dell’Isonzo, un numero palindromo. E bisognava conquistare quota 219 poi quota 246, la dolina della bottiglia. Ma tutte queste cose non gliele dicevano, quando la molla del tempo si scaricava, usavano parole semplici: baionetta in canna, tutti fuori, all’attacco. Qualcuno gridava Savoia, qualcun altro moriva subito, altri correvano e i feriti urlavano. Col cuore in gola, sparavano e correvano, vivi, finché durava. Era la notte del 17 agosto, compiva 34 anni, si chiamava Antonio, aveva due figli piccoli e una moglie e li amava tutti. Restò vivo e li pensò fino al 22 agosto, in quattro giorni morirono tra quota 219 e 246, 1594 soldati e 67 ufficiali. Numeri, ma Lui fu uno di questi e il suo luogo convenzionale di morte fu indicato in quella dolina delle bottiglie che ora non c’è in nessuna carta geografica.
Il cielo sopra le case, ammucchia nubi, le dipinge di tutte le tonalità del blu e guarda le luci gialle. Sente i rumori che si sgranano nell’aria sottile, già pregna delle goccioline di rugiada che troveremo domattina. Ammassi di case e ammassi di nubi, le seconde si sciolgono e riformano con una libertà priva di timori. Le case si stringono l’un l’altra per ragione di piccole speculazioni che hanno arricchito qualcuno e impoverito tutti. Il cielo guarda e nessuno alza il capo verso la sua libertà. Le previsioni non azzeccano più, ieri doveva piovere ed è stato sole tutto il giorno. Oggi era previsto sereno ma il cielo si è riempito delle nubi in ritardo e ha lasciato enormi chiazze d’ombra sui prati. Ho trovato una recinzione di pietra lungo il sentiero, dei dolmen a intervalli regolari incastrati in un muro di pietre da giganti. Oltre e dalla parte del sentiero, fiori sfacciati a mazzi enormi, i semi non si curano dei confini. Poco oltre il bosco che si scuriva incolto e geloso dei suoi animali. Sopra il cielo, alternando il bianco, all’azzurro, alla luce piena. Un albero, tra gli altri s’è illuminato e ho pensato all’allumer che metteva tra le parole le figure e i simboli. Quell’albero era il prescelto e parlava col cielo, gli altri in silenzio ascoltavano la luce. Il cielo sopra le case, ammucchia nubi, le dipinge di tutte le tonalità del blu e guarda le luci gialle. Sente i rumori che si sgranano nell’aria sottile, già pregna delle goccioline di rugiada che troveremo domattina. Ammassi di case e ammassi di nubi, le seconde si sciolgono e riformano con una libertà priva di timori. Le case si stringono l’un l’altra per ragione di piccole speculazioni che hanno arricchito qualcuno e impoverito tutti. Il cielo guarda e nessuno alza il capo verso la sua libertà. Le previsioni non azzeccano più, ieri doveva piovere ed è stato sole tutto il giorno. Il cielo ammucchia nubi, le spinge come pecore che lasciano ciuffi di lana sul filo spinato e poi libere si radunano sotto l’albero più grande.
Nei paesi si festeggia, tavolate, cibo e musichette, le voci scivolano tra dialetti e cori: specialità tipiche del posto, ma appena fuori non c’è più nessuno, a sera solo voci da finestre illuminate, luce di lampioni, perimetri di case.
Segni d’una notte che non mente che non avvolge e non rassicura. il tramonto s’è riempito di nubi gialle e grigie, la città lontana proietta voglie in cielo, ma le stelle cadenti si nascondono e neppure un desiderio durerà a lungo.
Vicini lampi annunciano la pioggia. che verrà, presto, grigia, e sporca d’abitudini, pur di non lavare il mondo, s’infilerà tra gli steli e bagnerà i fiori del campo, gorgoglierà in grondaie di rame rosso verde, si getterà tra scacchiere di chiusini giocando con polvere e lamiere, ma non con noi che abbiamo chiuso il cuore,
Non con noi che circondiamo l’amore di rifiuti, non con noi che non ci stendiamo più sull’erba e non guardiamo chi è vicino, chi è lontano, ma ancora ha forza di collocare un desiderio in cielo.
La linea dei monti si è fatta azzurra e il cielo si è coperto. La girandola sul balcone è ferma, c’è calma di vento. È san Lorenzo, le pleiadi faranno fatica a mandare messaggi, così i desideri s’accucciano nel fresco della sera. È l’ora dei marinari, del silenzio che scende con le voci che sbagliano il tono. I ricordi si presentano e dicono di altre età, come eravamo, cos’è rimasto e il molto lasciato da parte. Puntuali le Pleiadi tornano a stupire, come ogni cosa che mai si ripete ma torna ed evoca. Il tempo corre su specchi deformati, se con attenzione si decifra una immagine essa è già connessa ad altro e diviene un preciso oscuro generatore di emozioni. L’orologio scandisce il suo tempo, una continuità che rassicura e sovrappone contenuti. È il contributo di ciascuno al tempo, non a quello biologico. Mi interessa molto più la meccanica che muove gli orologi che non ciò che segnano. Un po’ di fumo da una vecchia pipa che m’ha seguito fedele mentre il mondo mutava. Si parla a se stessi, si enumera ciò che va per suo conto e la direzione, come per il fumo, è quella del vento che ora ristagna, pensoso. Una voce poco fa, dalla radio, ha evocato la Barbagia, così sono tornate alla mente le notti in cui il cielo risucchiava ogni luce verso l’infinito e splendeva di galassie, stelle, pianeti, come osservasse la meraviglia di chi lo guardava. Attorno i rumori degli animali e delle cose che aggiustavano se stessi al freddo, dentro il buio denso che toglieva ogni orientamento.
L’esperienza del buio è l’immersione nel sé senza più logica e ragione ed è un cammino immobile trovare la quiete che rassicura mentre tutto attorno e dentro si amplifica. Cacciare la paura per non dipendere da essa. Nei notiziari si genera timore, si alterano le carte, non si dice ciò che non c’è nel porto di questa realtà manipolata, ma si mostra in filigrana l’insensatezza di chi non pensa che tutto abbia una conseguenza. Così si occulta l’evidenza delle precarietà, con la paura che rende inani e incapaci di modificare le cose. Cosa indispensabile a chi ha il potere.
Senza il tempo siamo immortali, per questo alle scie nel cielo affidiamo la determinazione di tornare. Si torna sempre da qualche parte. Il passato è già stato, ha donato e ha rimescolato i tarocchi. Emergono i luoghi, le emozioni, le persone che riconnetto o i fili in me e questa vecchia pipa significa qualcosa solo per chi l’ha vissuta. Nell’andare c’era tutto, la malinconia e l’ansia di vedere e provare, la misura e l’eccesso, ciò che rassicura a era il tornare. Una emozione antica dove l’allegria era avere un pavimento per camminare e il cielo come tetto per i sogni. Sta a noi governare il tempo e lo scoprir se stessi, mutando e accumulando la ricchezza del vivere e della meraviglia di veder oltre: che i vostri desideri siano esauditi.
A notte, poi, quieta è la strada l’asfalto più non suona sasso a sasso, si chiamano le pozze di luce sparsa. Alte stelle e nuvole, accolgono rari inquieti uccelli : il grido che non attende, la preda o il chiamo dell’amore che si cerca. Quando il bosco dorme, pochi lupi cercano chi è solo, chi, preso alla gola, si dibatte, è il pasto del branco ma sono fratelli, nell’assalire non eccedono, sazi, rientrano nel bosco. Chi li ha visti in paese ne ha parlato, con parole serrate, e schegge di paura, ma nessuno ha detto ch’erano pasciuti, che l’odio da rossi occhi traboccava ed era ansia di vendetta. Chi li ha visti ha detto dell’asino riverso nel campo, che guardava il cielo, gli uccelli neri e il branco, ma nessuno s’è mosso a difesa, neppure hanno urlato. Eravamo disarmati, hanno detto, come fosse abbastanza un’arma a fermare la fame. È allora che nel racconto s’è infilato il rapace, con la serpe tra gli artigli, esaltati ed entrambi rei di morte Poi silenzio sorseggiando il vino. Storie per la notte quieta, nella strada passa il porcospino insonne, la lepre chiara, la lumaca e la sua bava, nelle case restano sparse luci, pensieri stesi come alghe nel torrente che il sonno accarezza e poi scompiglia, mentre i sogni sommano il disfatto e l’attesa Un respiro lungo traversa la valle, la strada, scivola sui tetti di lamiera, muove il gallo più del vento e ad esso si con giunge nel caldo alito che spinge i cuccioli dell’ universo In sonno.
Ci si svegliava presto al mattino a Hiroshima, gli artigiani, gli scolari, gli operai e gli impiegati facevano colazione e uscivano per raggiungere i luoghi di studio e di lavoro. La bomba fu sganciata alle 8.14 e 45 secondi, impiegò 43 secondi a raggiungere l’altezza di 580 metri dal suolo ed esplose. Come programmato. Il B 29 “Enola Gay” compì una virata di 159° in caduta per 500 metri per prendere velocità e allontanarsi dagli effetti devastanti dello scoppio, previsti e noti. La missione era compiuta e ciò che accadeva poi non riguardava i militari d’equipaggio. I tre aerei tornarono alla base. Tra 70.000 e 80.000 persone morirono subito, poi si “stima” una cifra totale di 220.000 nelle ore e nei giorni seguenti. Stimare fu difficile perché bruciò tutto, anagrafe compresa e non si conosceva il numero di sfollati e visitatori in una città giudicata relativamente sicura. La stima fu basata sul numero delle magre razioni alimentari necessarie giornaliere. Numeri, cose che acquistano significato quando enumerano qualcosa e queste erano persone prima vive. Gli animali, i viventi non animali, le cose furono racchiusi nelle parole : distruzione totale.
Fino alle 8.16 e 28 secondi quali erano i pensieri delle persone di Hiroshima. Quali erano stati i loro sentimenti, attese, dolori e speranze nei giorni precedenti la distruzione assoluta del 6 agosto 1945. Certamente c’era l’attesa della fine della guerra, la normalità delle vite e dei lavori di ciascuno, la scuola, i sentimenti consolidati e quelli che sbocciavano. Tutto cancellato, tolto da ogni possibilità di esistere.
Ho ripensato alle biografie di Fermi, di Oppenheimer e alle tante vite di geniali fisici, matematici, chimici, tecnologi, che si affollarono attorno al progetto Manhattan, per costruire non una ma due bombe. Diverse ed entrambe inumane per la devastazione che avrebbero creato. Ho capito che per molti era una sfida scientifica, un ardimento nello scoprire privo di giudizio etico nonostante gli avvertimenti di Leo Szilard già dal 1938. Sapevano, non il luogo, non il giorno ma conoscevano la potenza letale che avevano inventato. Discussero tra loro, ma non fu una cosa seria perché non decidevano, fu prospettata al Presidente Truman l’opportunità della sola vista dell’effetto dell’arma in un’isola disabitata per indurre alla resa immediata il Giappone. Ipotesi scartata sia dai militari che dalla politica. La strategia di colpire i civili per fiaccare la resistenza del nemico, del resto, era già stata usata in Europa, pianificata con decisione dei comandi politici e militari. Avevano iniziato i tedeschi sull’Inghilterra a Coventry e altrove, gli alleati non avevano fatto da meno in tutta la Germania e non solo, con la nefandezza di Dresda, città senza alcun interesse militare. E ci fu una decisione strategica presa in tal senso, collegialmente per la Germania e i suoi alleati, durante un incontro dei capi di governo in Canada. Fu un ulteriore salto di disumanità con un esito che era più che prevedibile.
Su questo dovremmo riflettere, perché i dissensi tra paesi democratici furono davvero pochi, anche se ci furono, e nel caso del Giappone, la seconda bomba atomica fu un sostanziale esperimento sull’uomo. Il 6 agosto dovrebbe essere consacrato alla riflessione sulla normalità delle vite e sul loro diritto di esistere oltre le decisioni dei loro governanti. Se alla parola civili sostituiamo inermi si dovrebbe capire che ciò che accadde a Hiroshima non fu normale attività bellica, come non lo è a Gaza e non lo è stato in molti altri luoghi dal 1945 ad oggi, uccidere civili inermi è diventato al più un effetto secondario. Questo spinge le menti su quella relatività del giusto che fa compiere efferatezze immani. E non bisogna dimenticare mai che ogni pensiero terribile ha avuto attuazione dopo essere stato formulato.
Parlare di lavoro oggi quando ci è mutato tra le mani e la capacità di capirlo costringe a rincorrere i dati più che quello che esso contengono, porta a domande semplici, a parole che descrivono ciò che dovrebbe essere un lavoro: sano, sicuro, retribuito equamente, arricchente per chi lo compie oltre che per il datore, dignitoso. Ci sono mondi possibili ed economie alternative che contengono questo lavoro, difficili, certo, perché basati su giustizia ed equità, ma non fuori della portata degli uomini. Deaglio dice che bisogna partire dal lavoro com’è diventato oggi e su questo esercitare una comprensione e una guida che lo muti o almeno ne attenui gli effetti più impattanti in termini di precarietà. Ad esempio se la competenza diventa rapidamente obsoleta avere percorsi pagati di formazione continua che siano a carico di chi lucra su queste forme di innovazione dovrebbe diventare una componente del ciclo lavorativo. Portare il sostegno a chi perde il lavoro non verso la pensione ma verso un nuovo lavoro dovrebbe essere la caratteristica assistenziale di questo mercato mutato che non si basa più sul lavoro fisso e la competenza acquisita. Cambiare in questo modo il mercato tra domanda e offerta di lavoro non può prescindere dalla constatazione che gran parte di esso è ormai concentrato nei servizi e che la manifattura in Italia produce un quarto del PIL. Tutto questo e molto d’altro giustificherebbe una comprensione della situazione e un intervento da parte dello stato che progetti un nuovo futuro e non lo subisca. Difficile che lo faccia un solo Stato con successo più semplice se diventa un problema europeo. Quello di cui non si parla spesso è se il lavoro, anche quando c’è, sia sufficiente nella sua retribuzione per assicurare una esistenza libera e decorosa. Oggi questo non avviene se non in parte e segmenta la parte più attiva della popolazione tra chi ha troppo (minoranza) e chi ha troppo poco. Troppo o poco rispetto a una società che impone livelli di consumo insostenibili e funzionali a una produzione globalizzata che comunque retribuisce troppo poco gran parte del lavoro che impiega. Una via d’uscita sarebbe quella di aumentare costantemente il valore di ciò che si produce attraverso la ricerca e l’innovazione, ma questo è il settore in cui l’Italia spende meno. Altra consapevolezza da acquisire sarebbe quella che il lavoro senza limite a cui viene soggetto chi ha un contratto precario e non solo, isola ulteriormente la persona dal contesto lavorativo e sociale, non diviene parte di un gruppo che produce qualcosa di cui sentirsi protagonista ma è solo un fornitore senza identità collettiva. Questa parcellizzazione della persona che segue le tante altre presenti nella società della realtà digitale, impedisce una crescita comune. Si guarda il PIL ovvero quanti beni e servizi vengono prodotti ma non la società che li produce e così una nazione di schiavi potrebbe avere un pil elevato ma nessun diritto per chi lo ha prodotto. Ebbene una nazione di schiavi ha ancora la possibilità di un senso collettivo dell’identità derivante da una funzione, può socializzare l’ingiustizia e il sopruso e ribellarsi, una nazione di individui in competizione tra loro, con retribuzioni al limite della sopravvivenza non percepisce più l’ingiustizia come fatto collettivo, anzi la ingloba nella percezione normale della realtà. Questo è il campo in cui un nuovo partito e l’umanesimo socialista dovrebbe esercitarsi.
C’è una parola veneta, transete, che probabilmente deriva dal latino transeat, ed esprime il portar pazienza, il farsene una ragione. Credo sia un sentimento comune che, ad onta delle dichiarazioni roboanti della destra, coinvolge il Paese e i suoi abitanti. Però questo attendere che passi, non ha la filosofia e gli occhi antichi di chi ne aveva viste tante e sapeva che anche i forti, gli arroganti, i dominatori, passavano davvero, ma è più una sfiducia sulla possibilità di cambiare. La mobilità sociale non esiste più, i dati sul l’occupazione migliorano ma se si guarda a cosa c’è dietro, oltre al modo di rilevarli ( basta che una persona lavori un giorno a settimana per definirla occupata), c’è un mondo di voucher, di lavori presi e lasciati, di nero, di precariato senza speranza e un terzo dei giovani senza occupazione. Questo non è un dato transitorio, ma ormai strutturale se non si interviene sulle modalità di lavoro. Il sud cresce più del nord, è un buon segnale ma significa anche che il nord non cresce più, che le banche cedono i crediti difficili, cedono i prestiti fatti alle aziende in difficoltà e le condannano a morte. C’è un corpo ferito che aspetta succeda qualcosa che lo riguardi davvero, che il profluvio di parole porti via la spazzatura della corruzione, dei furbi che infestano ogni angolo di vita. Aspetta attenzione questo nuovo proletariato senza prole, ma non fa, non si muove. Un politico che stimo, ai suoi tempi democristiano, si chiedeva qualche giorno fa, cosa fa la sinistra di fronte ai grandi problemi dell’immigrazione, della povertà crescente, della sanità negata, dell’insicurezza diffusa. Diceva che una risposta la destra la dava togliendo libertà e promettendo l’impossibile a tutti per premiare i pochi, ma mancava la risposta della sinistra, che non può essere che nuova e diversa dal passato. Parlava del PD e il PD non è la sinistra ma al più un centro riformista che contiene pulsioni minoritarie di sinistra. E allora la domanda è: cosa fa il centro riformista di fronte a questi problemi, come pensa di rispondervi? Ancora con un neo liberismo che è l’antitesi del cambiamento reale dello status quo? Molti sono stanchi di parole, di obiettivi fasulli e non può essere il solo sindacato, la CGIL a coniugare la politica alla sofferenza sociale.
La risposta alla precarietà, latita e prende forma l’accettazione di una normalità, dove è solo il merito non il diritto o la dignità a cambiare le vite, è una non risposta perché quella normalità è l’omissione della gravità dei problemi e la difficoltà della loro soluzione. La normalità in un mondo globalizzato e interconnesso, cos’è? Far finta di niente e sperare che passi, ma se non passa? Una ricetta sull’affrontare l’ineguaglianza crescente, l’impoverimento delle classi medie, l’illegalità e la corruzione come prassi economica e sociale è stata proposta dalla sinistra radicale europea, Pichetty ha trovato modo di rappresentare correttivi economici in tempi moderatamente brevi. Altra sinistra si sforza nel mostrare una realtà che vuole mutare in tempi lunghi e azioni costanti di riequilibrio sociale, economico. Ma questo elettoralmente non paga, chi vuole passi la nottata, lo vuole subito e soprattutto non ha intenzione di coinvolgersi se non vede certezze nel mutamento. Così il problema non sono le proposte ma quanto queste possano diventare un orizzonte condiviso, un modo per costruire le vite. Ripeto bisogna chiedersi cos’è la normalità e se quella attuale è quella che vogliamo conservare. Questo è il tema della sinistra, anche per tutti quelli che seppelliscono l’insoddisfazione in un’ attesa catatonica di qualcosa che comunque verrà ma non sarà quello che si voleva perché fatto da altri e per altri fini.
P. S. Cara Elly a calcio, in una partita di beneficenza, si può esultare con Renzi ma per fare riforme radicali che cambino davvero la vita delle persone e le convicano che la sinistra è alternativa alla destra, bisogna giocare con altri giocatori.
Aver fede nell’essere è fiducia in sé stessi. L’essere contiene tutto ciò che conosciamo, ciò che siamo e ciò che non conosciamo di noi. Tutto interagisce nell’essere, pesca nella memoria e nel futuro, è il tessuto che genera il genio e la sciocchezza. Questo non significa che tutto sia uguale, che non capiamo cosa ci fa bene o ci dà piacere e cosa è negativo, c’è un discernere che è un processo in parte cosciente e in parte si affida all’intuizione, ciò che ne esce è comunque contenuto nell’essere. Questa percezione che siamo più grandi e più capienti del giudizio che di volta in volta abbiamo su di noi, non è alterigia o peggio supponenza, ma piuttosto la percezione che quella parte in ombra che è sempre nostro essere, andrebbe rispettata, indagata con rispetto, accolta con umiltà. Pensiamo alla capacità di fantasticare, quella di immaginare scenari con veridicità elevate, la possibilità di ricordare, di elaborare un ricordo e riconnetterlo al presente. Il ricordo diventa vero nel processo che lo riporta al presente e contiene non solo il fatto accaduto, quanto mai impreciso, ma tutta la strada che lo riporta fino a noi, ossia l’essere com’è mutato. L’essere contiene il giusto e l’ingiusto, non sono capacità immanenti, ma forse ci sono tratti comuni della specie che affondano nell’istinto di conservazione e nei rapporti di clan che diventano archetipi trasmissibili. Questo emergere del giusto è connesso con un rapporto paritario tra specie, una sorta di armistizio che rende norma la cooperazione in funzione di un benessere. L’essere non cessa di essere tale nel gruppo, trova l’individualità come coscienza e mezzo di relazione e al tempo stesso accresce la sua capacità di crescita. La conoscenza è gli strumenti di comprensione si accrescono nell’analogia, diventano memoria di gruppo e sono trasmissibili, quando diventano limite è l’essere che si porta oltre e li infrange secondo un obbligo di fedeltà a sé che pacifica il confronto tra esteriore e interiore. Chi ci conosce davvero siamo noi stessi, è la solitudine della comprensione che sente il limite del comunicare. Il senso del vivere diviene la comprensione di ciò che è potenziale, che è presente ma non conosciuto. In questo consiste il vivere come approssimazione di ciò che siamo interamente, con la verità che rappresentiamo e che ci accompagna in ogni nostro pensiero, sogno, passione, scelta.