mescolo tempo e vita con passione e sono curioso, mi occupo più o meno di sviluppo territoriale compatibile con chi ci vive, annuso il presente.
Difficilmente troverete recensioni di libri o di film tra queste note, anche i versi citati sono rari, perché mi piace la poesia come fatto personale. Ci saranno pochissimi giudizi, gran parte dello scrivere sono impressioni. Per le analisi sono noioso e lascio perdere. Non troverete un canovaccio prestabilito, ad altro è riservato questo luogo, di fatto è uno zibaldone del senso del mio tempo.
Gran parte delle mie opinioni sono parziali, si basano su tesi affini e non assolute, sono verificate per quanto possibile, per voglia, per interesse. Ho dei principi basati anch'essi su un'etica appresa e rielaborata, su concetti di giusto e ingiusto che cercano di contemperare il desiderio con la realtà. Di mio ho aggiunto una sensibilità verso l'uomo, la sua carenza di protezione di fronte alla violenza, all'arroganza. Quindi mi muovo in un relativo che per parte piccola o grande è mio e per buona parte mi viene da ciò che ho appreso. Non insegnato, appreso, perché ho aggiunto una discreta propensione al rifiuto e alla libertà connessa. Quindi, traete voi le conclusioni perché tengo a poche cose per davvero e il resto è opinabile.
Ammiro l’ordine tuo rigoroso, lo continui in pareti pastello, nei libri in attesa, ben distinti da quelli già appresi. ti accompagna una scelta corte di cose che attendono il tuo cenno e volere. Ammiro la tua agenda nel tavolo, sola, le caselle con i nomi accennati, gli orari di color lineati, in obesi caratteri, a margine, note. Sono annuncio di appuntamenti già dati, giorni che scorsero e riposano quieti: li penso governati ed amati.
Il mio ordine sparso è luogo di tempeste furiose, di colpe notturne, di bulimiche scritture sconfitte, i libri s’accumulano, le pile si sorreggono mute, rifletto, respingo le ragioni sensate, convivo con geometrie di senso dai desideri create. Non si può chiedere troppo all’ingegno comunque ci è stato donato, e non trovo colpa nell’innamorarsi del volo e dello scavo, nel correre l’insaziabile orizzonte, dischiudere porte, vedere luci mai osate capire, sapere che tutto il poco raggiunto è meno di quanto ci sarebbe bastato. Aggiungere desideri a quelli non ancora esauditi e poi non trovarsi smarrito. Ma nel tuo pensiero mi riposo, riconosco le geometrie del governo delle cose e dei cuori, le penso come le carte di Alice: i battaglioni affiancati della regina di cuori che avanzano lieti e divorano il tempo. Il tuo che ordinato si offre con un piacere che azzurra i pensieri, mentre il mio s’attorciglia e nasconde, d’infinito s’illude esagera, ride, dispera e rispera. Un sasso che s’arrotonda nel flusso, a volte è felice, di tanto inconsistente sentire, e nel curioso conoscere abbandona piccole parti di sé, all’acqua e all’aria senza nulla richiedere. In questa sera che accumula notte e genera stelle mi chiedo se a te accade di donare il tuo ordine lieta di riceve scomposte parole. O forse è nei tuoi sogni che succede di lasciare che l’ordine fugga e come un cane d’autunno possa godere delle foglie in cui rotolare.
Un cane continuamente abbaia. né vicino né lontano, da ore è lui la notte per chi veglia. Instancabile continua, ferma un attimo, per illudere silenzio e cuori, poi ricomincia. Nella solitudine che lo travolge, non c’è mattino, e nessuno lo consola dalle strade. Sente lontano qualche auto, fari che scrutano case, alberi bruni, verde d’erba diaccia, e un branco di betulle sotto la collina. Chi veglia con lui scava nella notte, vede spettri diurni delle cose, funzioni che attendono il mattino. Ma ora sono livide e silenti, attonite nello sguardo che le vede, impudiche si mostrano solo per essere parvenza, forma e cosa. è un attimo, poi la notte abbraccia e sparge nella mente il buio.
In quell’attività dell’anima, ch’è scrutare nel mio specchio, vedo segni del tempo, un lampeggiare d’occhi, i tratti che conosco, ma anche il me che m’è sfuggito.
Allora indugio nei pensieri, le tracciate mappe, i solchi, ricordo e seguo: è lieve il dito e sfiora, ascolta ancora il dire, delle oggettive vanità.
Chi mi vede, scivola su tutto questo, chissà che cerca, ma anch’io mostro l’ardire, d’esser sopra il ripiegar la schiena e tengo per me, e per pochi altri davvero, il senso di quelle strade che costante indago.
Di tanti anni, e ripetuti errori, un po’ per volta m’è uscito il riconoscere (il ricordo è così mutevole e creativo), che a dire ciò ch’è accaduto, solo i segni restano oggettivi. Il pensiero si sospende e più non guarda, sente il sapere che una mano ancora lascia impronte di calore sulla mia.
Ed è un andare, nel guardare ancora, andare in scelta compagnia, andare e restar qui, in cerca di me stesso.
Un pomeriggio d’autunno, come tanti d’allora, nell’adolescenza piena d’indecise voglie. Tra riottose stanchezze, si formavano furori, passioni, proterve libertà, bisogni d’amor nuovo. Il prima era casa, vincolo e certezza, ma c’era dubbio, rossori e vampe al viso. Pomeriggi percorsi di febbre, d’inutile pensare e di rimorsi a sera. A noi spesso vengono dati ripetuti segni, non li riconosciamo per creare speranze prive di volontà.
Ora come allora, la luce spegne rami e cose, liquida attraversa i vetri, costruisce il ricordo su tracce di ferite. Ciò che non è stato detto nessuna memoria aiuta. Restano lembi di sentimenti lacerati, a sventolare nello scirocco della sera, orifiamma dei tempi sciupati, delle sequenze dei giorni d’insoddisfazione eguali. Nella sera incauti uccelli, cercano briciole nell’erba, suonano nel tepore della casa voci amorevoli e nel cuore le malinconie d’allora.
Non c’era motivo o forse non lo percepivo, ma le cose, lentamente, si erano voltate e da baluardo delle giornate, assieme alle abitudini, si erano ribellate. Era il mio modo di vivere e ora si ritorceva, riottoso al ragionare fatuo, manifestava una precisione puntigliosa nel mostrare l’inutile più inutile allo star bene. Cominciava dalle cose che si erano accumulate ed erano instancabili nell’esercitare una richiesta costante di scelta e di ordine. Con la loro presenza, un tempo rassicurante, ora richiamavano incontrovertibili logiche generali che non riguardavano me e il mio piccolo mondo, ma una severa dimensione del potere dell’ordine sulle vite. Dicevano che ciò che era stato benevolmente concesso, il tempo posticipato, non poteva continuare ad essere tale, né ritornare ad una dimensione in cui tutto poteva ancora accadere nella misura del desiderio. Quel mondo si era esaurito, era già stato e ora non più.
Non c’è antidoto alla logica che ci portiamo appresso, solo il rifiuto della fretta del decidere e l’attesa del ristoro del sonno, perché non si deve per forza capire tutto subito, né tanto meno razionalizzarlo sempre. Ciò che non si capisce o non si accetta è comunque un peso, ma almeno lascia spazio al mistero, all’apparente inconciliabilità di ciò che ci accade con il mondo di cui abbiamo notizia. Questa inconciliabilità rende estetico l’ordine personale con la vita e ci fa capire che ci può essere un disordine senza colpa grave a cui si contrappone un ordine senza umanità. La misura del nostro piccolo mondo, della nostra sofferenza e del nostro piacere è un fragile equilibrio ma non per questo, l’una e l’altro sono privi di effetti nelle nostre vite. E bisogna capire che non la felicità ma già lo stare bene, il progetto dello stare bene, include la speranza e quindi una mitigazione forte del razionale che ci indurrebbe a non perdonarci.
Quello che non abbiamo e che sarebbe giusto avere, dovrebbe servire a vivere trovando passione e compassione per noi stessi, per le speranze di cambiamento, per non subire la dittatura della logica della necessità.
L’individualismo di cui ci si ammala, fa perdere il senso della misura. Risponde ad altro. Non è logico e asserve a dipendenze di giudizio. Porta in sé l’aporia dell’indifferenza e del lasciare che gran parte delle cose si facciano per loro conto purché ci sia ordine estetico. La colpa poi le concilierà con il voler determinare tutto ciò che è utile. Possediamo davvero un noi, che apre gli occhi, consente di guardare avanti ed attorno e che libera? Non lo so per davvero perché si è prigionieri di un ragionamento assoluto, l’io elevato a discrimine, socchiude gli occhi e scarta tutto ciò che non è razionale a sé.
La filosofia del momento è la razionalizzazione del pessimismo del vivere, del sapere già cosa accadrà e quindi negare nel profondo un progetto personale aperto alla sorpresa, al disordine della logica. Questo ci rinchiude unicamente nel sé immediato e non consente di posticipare perché presume che tutto finirà presto e che nulla sia davvero solido.
Le cose e ciò che accade, mostrano invece che non siamo un progetto razionale; con i costanti bisogni d’amore, di benessere nostro e di chi ci sta vicino. I bisogni non sono razionali e ci dicono che abbiamo necessità di introdurre la speranza, la fiducia nel corso positivo del nostro mondo.
Questo è un progetto poco ordinato e inclusivo, dove la relazione ha un aspetto sostanziale: noi siamo esternamente ciò con cui vogliamo avere una relazione. Questo implica il dare, e in esso c’è un passaggio che ognuno risolve a suo modo: il dare implica una idea di vantaggio relazionale oppure è un bisogno di equilibrio interiore? Se do perché m’aspetto di ricevere, ho già messo un limite, un giudizio, a ciò che riceverò e questo mi toglierà la speranza, l’inatteso dal vivere. Se invece il dare è “solo” un bisogno di rendere concreto ciò che sento, allora è un’apertura senza oggetto. Corro il rischio di essere solo e quindi di fraintendere ciò mi arriva, di attribuirgli significati impropri. Tutti abbiamo esperienza dell’innamoramento, momento in cui la comunicazione si basa enormemente sul dare, ma sappiamo, poi, che se questo dare non è equilibrato diviene un prendere, un pretendere, e il fraintendimento emerge con tutta la sua carica negativa.
Ciò che penso è che la necessità di un progetto personale implichi dosi molto misurate di razionalità, che la percezione del proprio ignorare sia cosciente e accetti il mistero, ovvero ciò che non si conosce e non si razionalizza. L’imprevisto è l’apparente irrazionale. Penso che la proiezione in avanti di un progetto personale includa il momento, la soddisfazione del desiderio, ma anche il suo divenire e quindi introduca prepotentemente la speranza come filo rosso del vivere.
Ciò che resterà incompiuto non si doveva per forza compiere ma già l’incompiutezza è un percorso che ha aumentato la consapevolezza. Le cose vanno ricondotte al proprio posto con la benevolenza che ci dobbiamo, sapendo che ognuna di esse pretende l’attenzione del ricordo o dell’incompiuto, ma non è solo l’ordine che le riporta a un rapporto interiore, è la loro carica di irrazionale che deve essere espressa, vista e messa da parte. Chi scarta tutto ciò che ha significato e il rischio che lo accompagna, ha paura di essere privato di qualcosa, si consegna al transitorio, alla mera razionalità e alla sua finitezza immediata. Vuol portare a casa subito un ordine interiore che non è suo. Se tutto è destinato a finire si consuma per la propria solitudine.
Ma non è forse questo il presupposto per impedire una risposta positiva al bisogno d’amore?
Per Te il vero e il suo simile erano indifferenti, solo nelle cose trovavano forza di parlare. Ti piaceva il colore, ma evitavi il marrone, però l’autunno ti era simpatico perché c’eri nata e la sagra in paese era una festa per te. Questo capire le cose e indossarle nei pensieri ti faceva sempre sentire in sintonia con ciò che ti accompagnava nella vita. Così diventava Te e si nobilitava. Era una tua magia. Dicevi ciò che credevi perché era Te, si poteva non condividere, pensare che c’erano forzature, ma il tuo candore rendeva plausibile ciò che dicevi, anche per noi che, dissenzienti a volte, lasciavamo che l’amore prevalesse ed eravamo teneri a modo nostro. Mi piaceva che la tua capacità di leggere la realtà fosse il segno dell’irruenza del vivere, del tuo vivere, che riordinava per sé ciò che stava attorno, oppure lo ignorava. Una forza vitale che in cambio non chiedeva nulla di particolare, solo amore come tutti, ma non da tutti. In questo m’hai insegnato che c’è una aristocrazia dell’amore e non bisogna mai mendicarlo.
Oggi sarebbe il tuo compleanno, ma anche questa data non ti andava bene, per questo ti scrivevo e l’abbiamo sempre festeggiato quando dicevi Tu. Pochi giorni di differenza, una allegra dimenticanza del nonno. Fosse stato vero o meno, quella era la realtà, la Tua realtà, e non ce n’erano altre tra noi. Non è forse così che funziona davvero il mondo quando si libera da chi gli vuole imporre qualcosa e punta su se stesso?
Questo l’ho imparato da Te, ovvero che tra le molte libertà, quella di avere il proprio mondo è tra le più grandi e che questo non impedisce di vivere con gli altri, anzi genera generosità improvvise e partecipazione fuori d’ogni calcolo.
Con naturale coerenza e a tuo modo, hai vissuto e sempre fatto ciò che ti sembrava giusto, buono, piacevole. Hai lasciato che la vita ti scorresse dentro e l’hai accompagnata con grazia. Non per te sola e per chi amavi, ma per chi viveva attorno, rendendo agli altri una identità, il piacere di conoscerti.
L’amore e la gratitudine si fondono e non bastano mai, buon compleanno Mamma.
Singolare e plurale, continuità che sciolgono gomitoli di fato, eppure ognuna resta a suo modo eguale. Segno d’un armistizio che sa, quali strade frequentare, o le abitudini ch’è fatica lasciare.
Nella luce da est, già alle 7 di mattina, le auto erano scaglie variopinte d’un serpente che si muoveva poco e, in attesa di mordere qualche metro, s’attorcigliava nella libertà negata, con i suoi pari in amplessi irosi e pieni di rabbia. Salito in auto, avevo fatto i 100 metri fino all’incrocio e non mi muovevo. Ho guardato lo smartphone, ascoltato la radio, ma restavo senza possibilità d’immissione. A destra e a sinistra si stendeva una linea d’auto priva di soluzione di continuità. I paraurti si baciavano secondo un kama sutra meccanico, fatto d’impazienza e privo di piacere. Nessuno dava nulla a nessuno per cortesia, dovendo girare a sinistra, ho voltato a destra, nella corsia libera. Le strade che si conoscono dalle gite al mare potevano servire alla meta ed erano pure più belle, immerse nella pioggia e nella campagna. Muoversi per parallele e per tratti ortogonali o sghembi muoveva le labbra al sorriso di chi ne sa una più degli altri. Ho fatto 7 chilometri, ho cambiato comune godendo della vista di ville antiche e nuove case, le seconde molte e mai viste, le prime restaurate per nuovi usi. Qualche capannone industriale con giardino davanti, auto che venivano in senso contrario e con cui ci si sfiorava su una strada fatta per la quiete agricola. Sono arrivato alla provinciale parallela e ancora, ma diversa per protagonisti, c’era una linea d’auto, furgoni e camion, senza soluzione di continuità che si stendeva nelle due direzioni. Dovevo girare a sinistra, ho girato a destra e mentre guardavo avanti vedevo che i paraurti si baciavano e ogni tanto c’era un piccolo sussulto che apriva una speranza subito spenta. Altri 7 kilometri nella direzione che sembrava allontanarmi dall’obiettivo e la coda non finiva. Si sentiva nell’aria un pensiero ronzante, cattivo ormai, che centinaia di teste riepilogavano nelle scuse per i ritardi agli appuntamenti, al lavoro, agli impegni. Tutti si lamentavano, si vedeva nei volti tesi e nel muoversi di labbra, perché altri avevano fatto la loro scelta, perché tutti andavano in auto ovunque, perché le strada erano comunque insufficienti, perché il mezzo pubblico non era un’ alternativa, perché pioveva. Se un drone con telecamera si fosse levato avrebbe visto la statale intasata e ferma, le provinciali che tentavano di entrare in essa e non ci riuscivano. Avrebbe testimoniato l’accumularsi di strisce di mezzi impotenti, di rotatorie piene d’auto come nodi di una corda ormai frusta e rabberciata. Tutto questo in entrambi i lati della statale che attraversava un corpo di case e di terreni soffocati nei gas di scarico e nelle imprecazioni. Nel mio lato c’era la libertà di andare verso i luoghi di provenienza di quelle auto e il traffico era minimo e scorrevole, così sono arrivato a un semaforo che interrompeva il muro d’auto e ho girato finalmente a sinistra. La strada era d’altre necessità, stretta, lungo un canale senza argini né protezioni, ma era frequentata solo da quelli che avevano avuto altre mete e altre code in passato.
Sono ritornati ricordi d’estate a notte, con il corpo che ancora emanava sale e profumo di pelle accaldata, gli occhi arrossati e la stanchezza bella di un giorno di mare. I chilometri intanto si accumulavano ma mi avvicinavo alla metà. Alla fine avevo aggiunto 10 chilometri alla distanza ma all’orario prefissato ero all’appuntamento che è poi durato 15 minuti. Le ore tra andata e ritorno, hanno maturato il pensiero che un premio me lo meritavo e l’ho riscosso in pasticceria, non era vicina ma eccellente. Poi il ritorno in una strada ormai svuotata, erano le 10.30 e ho pensato che è così ogni giorno. Se piove è peggio ma la coda che si allunga per molti chilometri è sempre la stessa, le imprecazioni le stesse, le considerazioni, le stesse. Così la vita si sciupa ma ognuno è solo, vuol restare solo, nella sua scatola di plastica e latta e pensa che la strada sia il problema mentre è solo la conseguenza.
La mente gioca per suo conto, è un grande pescatore di coincidenze. A volte una frase, una parola, risplendono : sono il tassello che s’incastra nel nostro puzzle di pensieri. Parole semplici, apparentemente prive di forza, banali come l’arancio slavato di questa luce che si fa strada tra nuvole di pioggia. Si sente che quel colore è l’astrazione dell’arancio e in esso realtà e idea di colore coincidono. La parola è ora sapida di significato ed è l’arancio di un dolce a fette, del suo sapore ricordato, è una casa sul canale, un fiore che rifulge disseccato.
La sensazione è che questo accada quando c’è una sospensione del tempo, che genera un equilibrio con una dinamica interna che non ha bisogno di moto, ma connette e comprende a fondo che tra il fuori e il dentro c’è un legame di significato.
Annullare le notizie ed entrare in una realtà che permane, dove il noi coincide. Uscire e sentire il sapore della pioggia calda d’autunno, fermarsi per dare un nome alle cose e assaporarne il sapore, come fosse un’onomatopea che non ha bisogno di rifare un verso. A volte le parole proseguono, nominano le cose come fossero nuove, acquistano ritmo, e suonano di vibrazione esterna. Diventano definitive. In quei momenti le parole scandiscono blocchi di emozione, di significato, che sono una scoperta per noi. Ci pare diventino importanti anche per gli altri e il bisogno di dirle è urgente, ma qualcuno che possa capire.
C’è un entusiasmo della parola, ma non so cosa sia davvero la poesia se non la realtà svelata nell’essenza. I poeti veri, quelli in cui si trovano i pezzi di noi, del nostro mondo interiore, ci fanno sentire disvelati, nudi e parte di un tutto improvvisamente chiaro.
La poesia di cui parlo è personale, accessibile e diffusa, e ci permette di leggere una realtà come libro comune a tutti. La si porta appresso, negli occhi e nelle connessioni neuronali. Sembra corrispondere a qualcosa di più alto e comune, tanto che la posseggono tutti i meno disattenti. Senza dirlo regala piccole felicità e introspezioni verso le cose, che sono un noi lanciato verso ciò che ci circonda.
Non ho opinioni precise di questo sentire, so che ad esso i poeti fanno compagnia, che legano indissolubilmente nel poco il molto e mostrano verità comuni, non importa se allegre o tristi. So che così rispondono affermativamente alle nostre domande. Forse ai poeti, ciò che a noi accade di rado, ovvero sentire che il pensiero e le parole sono un tutt’uno di significato, accade più spesso ed è con semplicità che fanno calare il sole mentre la sera ha lunghe dita intrise d’arancio e blu per toccare le cose, e noi vediamo questo colore nei palazzi, sulle pietre, nella pioggia che dirada, improvvisamente identico al nostro pensiero di sera e di colore.
E questo ci regala un attimo di comunione e d’improvvisa felicità.