C’è una linea del caffè che definisce la stanchezza. Quante volte l’ho superata immemore e consapevole, vantandomene spesso e contando sull’invincibilità del corpo, sul suo abituarsi alla fatica, sul fatto che bastava poco per essere pronto a nuove prove. Superavo la linea e non ascoltavo ciò che già sapevo, cioè che le sensazioni si sarebbero attenuate e tutto sarebbe diventato una poltiglia grigia in cui l’importante era finire. Ora capisco meglio che non è la forza quella che porta a superare il limite – e neppure il coraggio o l’abbrivio che nasce dalla volontà– ma la mancanza di uno scopo che includa e comprenda, una confusione su chi davvero sono. Arrivare agli anni tardi e non essersi almeno intuiti, arrivare a una ginnastica di aperture e di chiusure basate sul superare in continuazione il proprio limite, non è mettersi alla prova o essere vitali, ma essere in un pantano in cui è difficile procedere verso se stessi. E’ pensare troppo a noi, se si capisce di più ciò che non ci soddisfa nel superare il limite?
Nell’avvicinarmi alla linea del caffè, ora cerco ciò che mi consentirà di rientrare, l’ultima tazzina, l’ultimo bicchiere, l’ultimo boccone, che sono poi immagine dell’ultimo sentire, dell’ultima emozione, dell’ultimo entusiasmo. Un attimo prima e restare aperti al discernere del sé, ecco l’ auto governo senza rinuncia.
Dire a sé e agli altri la propria regola vitale che consentirà di accogliere senza reticenze. Prima era a notte, ora nella sera, cerco l’ultimo caffè del giorno. Quello che ancora mi dà piacere e alla bocca non muta il sapore in amaro.
La stanza in cui sono stato all’Asmara, aveva pochi mobili. Un piccolo armadio di legno massiccio, il letto con la testiera di ferro, i comodini alti, anch’essi di legno pieno e scuro, un tavolino e una sedia. Sul ripiano del tavolo le mani, i bicchieri, unghie nervose, avevano lasciato il segno, il caffè forte e scuro aveva tracciato cerchi che si intersecavano. Una parte del legno era rimasta al riparo della luce e delimitava un rettangolo entro cui si era scritto, lasciato libri aperti, letto. Alle pareti bianchissime di calce, erano appese due stampe con spiegazioni in tigrino. In un angolo della stanza, su entrambi i lati, erano stati dipinti un cammello e una palma che arrivavano a metà altezza, con un colore che andava dall’ocra al marrone. Il cammello guardava curioso verso il ripiano dello scrittoio, la palma era carica di datteri. Un abitante della stanza aveva lasciato il segno ed era stato conservato. I mobili erano resti della dominazione italiana, venivano dalle case lasciate o forse erano sempre stati in quella casa. La cucina, dove facevo colazione e qualche volta cenavo, era ariosa, con una porta finestra che dava su un cortile e poi sull’orto. Sulla parete di sinistra stava una grande cappa, sotto c’era il fornello a due fuochi che occupava parte di una lastra, forse di pietra tenera, dipinta ad olio di un rosso acceso. Su parte di quel ripiano, la signora che mi accudiva, faceva fuoco e cucinava. Non ho mai sentito odore di fumo, il camino aspirava benissimo. Quasi per ultimo, in continuità con il ripiano rosso, c’era il secchiaio di granito, incassato nel muro. Aveva un robinetto di ottone, come quelli che si vedono ancora in qualche giardino. Non sempre, ma quando c’era, l’acqua si lasciava cadere in un flusso sottile, senza turbolenze, un cono che s’assottigliava in filo e che comunicava un senso di fresco. Tagliare con le dita quella consistenza trasparente faceva nascere la voglia di bere all’antica, porgendo la bocca con la testa di lato. Laddove il flusso batteva, c’era l’area chiara dell’acqua che detergeva la pietra e stabiliva la sua dolce, tenace, differenza. Una geografia dell’uso, che rassicurava sulla persistenza delle cose, della percezione del mondo. Il mondo si divide tra chi si aggrappa alle sicurezze del passato e chi si getta nel nuovo. Tutti hanno i loro motivi, ma nessuno è privo di radici e queste ovunque trovano linfa a cui attingere per nutrire il pensiero quieto del vivere.
Sopra il secchiaio, c’era una mensola con davvero pochi piatti e bicchieri, le stoviglie, erano dentro un vaso di terracotta forato, nell’angolo della vasca. Il tavolo, con l’incerata a quadri, stava al centro. C’erano quattro sedie di legno, proprietarie di una scomodità per me nuova e che testimoniavano a chiunque la loro costante presenza nel sedersi, come non ne fossero contente e volessero limitare l’uso di sé. Sulla parete destra c’era la credenza. Di legno, con i vetri molati nel sopralzo, con lo stesso stile primo novecento degli altri mobili di casa. Gli spazi e le pareti erano vuoti, l’aria correva allegra, le finestre sbattevano, non c’erano tracce di presenze pittoriche notevoli come in camera. Però si sentiva che molti lì avevano abitato, era stata la loro casa, avevano pensato, trafficato, costruito progetti e fantasie. L’assenza di superfluo nelle stanze, mi faceva pensare alla casa dov’ero nato. C’era un modo di pensare comune che si muoveva nelle funzioni delle cose e negli spazi. Nella mia casa, cucina e soggiorno coincidevano in una stanza grande, quadrata, e c’erano mobili simili a quelli dell’ Asmara, una cappa, la cucina economica e nell’angolo, vicino alla finestra, il secchiaio. La stanza si completava con la credenza e l’aggiunta di un’ottomana rossa, di legno massiccio e ben imbottita per diventare un luogo per il riposo pomeridiano. Le pareti erano imbiancate ogni anno da mio Padre, che ingentiliva la calcina con un rullo intinto nel blu o nel rosso pompeiano e che riproduceva un disegno damascato. Una stampa solitaria era in disparte, era un particolare della “tempesta” del Giorgione. Poi null’altro, le mie manate venivano cancellate accuratamente e così qualche piccolo disegno a matita, prima che la pedagogia di allora mi insegnasse che il bianco non si tocca. Al centro della stanza il tavolo, che con le sedie e la credenza, veniva dall’osteria del bisnonno. Quei mobili avevano percorso traslochi e vicende di famiglia, muovendosi su carri e poi camioncini, ma allora bastava poco per traslocare.
All’Asmara, mi chiedevo quando le cose avessero cominciato a vivere con noi, a occupare spazi, a soddisfare desideri oltre l’utile e generare ricordi. Capivo che le case erano grandi perché ero bambino, avevo pochi pensieri, molto da capire e da apprendere, ma potevo correre perché c’era spazio e giocare sotto la tavola. E non era proibito se non durante i pasti.
Non ho un giudizio sulle cose, accadono come i fatti. Hanno una sequenza, un ricordo, si accumulano e si accalcano, mettono in disparte l’utile e il necessario. Sono mute ma parlano e nel silenzio della notte, chiacchierano di più. I loro suoni hanno il senso delle stagioni. I materiali ricordano le loro origini, mostrano i nostri distratti sentimenti. Quando si disfano, chiedono soccorsi che ormai il consumo nega e finiscono. Finire è ciò che accompagna l’essere delle cose. Come il loro avere amore e poi sentire che è solo memoria.
Con gli anni la sensibilità diventa emozione, la voce incespica davanti a un pensiero, gli occhi non vogliono essere da meno.
Sentire non è più un verbo tra i tanti. Sentono i piedi la terra, il viso l’aria, colgono il nuovo verde gli occhi, le mani percorrono ciò che è sotto la materia? E allora perché non dovrebbe bastare un’immagine, un insieme di parole per riallacciare antiche reti di sentire alla realtà. Infatti è così, ognuno di noi ha vite parallele che stranamente si intersecano e formano nodi d’emozione.
Un tempo era la musica a scatenarmi torrenti di sentire emotivo e riusciva a leggere la realtà, mettendoci dentro ideali e fatti, in un susseguirsi che poneva le giuste domande e dava risposte. Poi è venuta la parola e ciò che includeva, ossia il pensiero capace di mostrare oltre l’apparenza e il banale, la realtà, il vivere dei singoli e dei molti. I bisogni si svelavano oltre le maschere, era richieste di aiuto, di attenzione. La politica era – ed è ancora – per me questo. Ma soprattutto era – ed è – materia di sentire, comunità, legame. Quando ora mi capita di percepire le stesse tensioni comuni, capisco che c’è un noi che non separa, ma accoglie. E mi commuovo. Anche finché porto innanzi le mie analisi in pubblico o privato, esse rifiutano di essere solo parole, di non avere un legame con la realtà.
E’ la realtà che percepisco e che mi motiva. Qui non parlo più molto di queste cose, ma esse continuano ad essere parte importante della mia vita. Discrimine. Nel cogliere una conseguenza di ciò che penso, matura una scelta. Ma anche leggendo una notizia di cronaca, essa cessa di essere qualcosa che non ha relazione con me, è una consapevolezza che si trasforma in emozione. Un fatto che non è più solo accadere, ma parte della mia realtà. E quando le realtà si uniscono, da plurali diventano una. Così nasce l’analisi e il cambiamento, attraverso la razionalità e l’emozione. La prima mi spinge ad essere ciò che sono, la seconda mi sorregge e mi inumidisce gli occhi. E’ capitato anche sabato e poi domenica. Capiterà ancora. Spero accada sempre.
Il racconto procede a salti, come accade ad una cena dove l’interesse è altro e il contorno avvolge le parole. La loro precisione s’approssima, si spezzetta tra un boccone e il successivo, così ciò che ne emerge è un’impressione, uno schizzo a carboncino di qualcosa che comunque arriva e viene elaborato. I fatti si perdono in tempi comuni,: altri ruoli, altre situazioni, ma in una vita ci sono fili che sono principi e quando li si spezza si diventa altro. Forse per questo si tengono così da conto, perché sono identità. Ci si riconosce e ci si ritrova in essi.
A lungo ho meditato sul rancore, sui sentimenti negativi che esso provocava. L’ho scorticato per capire cosa celasse e ho trovato attese deluse, disattenzioni dolorose che testimoniavano dipendenze negate. Un paniere di cose non accadute, di altre conquistate e non riconosciute, fino all’epilogo di un abbandono per manifesta incongruenza tra energie profuse e risultati. Ma ne ho impiegato di tempo per capire che non era il caso, sottovalutando i segnali, l’aria fosca delle conversazioni, il procrastinare delle decisioni attese, poi la libertà del decidere, di condurre facendo errori e cogliendo quello che era possibile. Come finisce il rancore? Attraverso un gesto che è una decisione, una svolta e poi una convalescenza che ripristina la distanza dalle cose. Ci si impiega tempo. Quello che serve finché l’equilibrio viene nuovamente ritrovato, più avanti. In una condizione di vita che ha rimesso a posto le relazioni. Non è questione di torto o ragione ma di come si colloca l’attesa in una disponibilità di altri, uscire dal rancore significa ritrovare i fili intatti dei principi e la libertà di costruire con essi. Tra il rancore e l’invidia ci sono relazioni sottili, ma raramente si pensa, o almeno così mi è accaduto, di essere oggetto di invidia. E invece mentre pensavo che ciò a cui potevo aspirare mi veniva negato ed estirpavo con cura l’invidia dal giudizio, quello che facevo, il ruolo che ricoprivo era oggetto di invidia. Questo emergeva dal discorso che riandava a fatti e ricordi.
I ricordi sono una massa manipolabile, sempre molto sbozzata e riportata in un presente che è molto mutato per noi e per i fatti che accadono, ma se si usa un portolano che ci orienti rispetto ad essi, la rotta si legge e quei fili di cui parlavo, si ritrovano in mezzo agli errori e agli insuccessi che costellano ogni progetto del fare nella vita. I quel racconto a cena emergono persone e giudizi, avversioni che neppure avevo notato visto che il mio lavoro era spesso lontano, che i risultati erano numeri di bilancio, che le cariche erano giustificate solo se c’era una positività nel loro esercizio. Quello che allora non consideravo era che proprio la carica, per me ben meno di ciò per cui prima avevo speso e lavorato, era invece oggetto di giudizio e invidia. Qualcosa mi arrivava ma non ci davo peso e così ho continuato a occuparmi d’altro senza capire che il clima caliginoso, le parole non dette, la stessa freddezza per cui poi decisi di chiudere l’incarico senza nulla pretendere aveva un ambiente parallelo in cui si alimentava. Persone che non conoscevo o che conoscevo a malapena, parlavano male di me senza sapere cosa facevo, quali erano le difficoltà, i risultati raggiunti e quelli falliti. Nulla contava, bastava un giudizio e l’apparenza di una facilità che non c’era.
Male dire è colto nel suo significato più pieno e terribile dell’invocare il male su qualcuno, ma esiste una etimologia più profonda che dovrebbe indurre a controllare ciò che si dice e invece si banalizza. Non sono solo parole ma giudizi che poi prenderanno una persona, un gruppo e questo dovrebbe attingere ai fatti, alla conoscenza, non è gossip, non è leggero, si alimenta il peggio dell’uomo ovvero la sua disponibilità a credere ciò che diminuisce gli altri per esaltare se stesso. Pesare ciò che si dice è un atto dovuto, perché le parole pesano e generano errori in chi ascolta.
Penso che in quegli anni, inconsciamente, si sia rafforzata l’idea che il giudizio nei rapporti sia un sentire indebito e pericoloso. Cosa ben diversa dall’intuito, esso portava a vedere non l’insieme ma il particolare, sostituiva la propria idea dell’altro, o ciò che si credeva giusto, con la persona e la sua umanità.
Si impara da ciò che si sa e si capisce, ma anche da ciò che dentro di noi trova i fili per connettere i fatti a noi stessi. L’inconscio ci vuol bene e ci aiuta a trovarci oltre le negatività, i sentimenti negativi lo sono per chi li prova. Avere una immagine di sé riportata da altri che ci fa pensare a come eravamo, fa pensare e capire cose che ci erano sfuggite, dispiace non aver colto allora, ma abbiamo vissuto e i fili rimangono intatti.
Quando qualcosa si incrina, o si ricuce oppure ci si dispone alla rottura.
All’inizio non lo si fa neppure consciamente, ma ciò che prima era semplice e accettabile, muta e prevale il sentirsi non capiti, spesso offesi. Questo genera omissioni, silenzi, rimbrotti e ogni cosa cambia di significato. Insomma ci si orienta verso un fine di separazione. E c’è un limite oltre il quale tutto precipita, diventa inevitabile. Non lo è per necessita, ma ricucire costa fatica perché provare sentimenti non è gratis, capire l’altro è un impegno.
Il conto sull’efficienza di una relazione, una sorta di economia dei sentimenti, prevale se ci si chiude, se non si costruisce/avverte il nuovo, dicendolo esplicitamente (non ho più nulla da dire è la rinuncia a dire il nuovo), e al contrario, mettendosi in attesa di qualcosa che non verrà. Credo sia questo uscire da una fatica che si ritiene solo propria che accelera la distanza, l’inevitabilità. E il lasciarsi andare all’inevitabile, è un togliersi la colpa di ciò che si doveva decidere. Forse per questo c’è un culto del destino per il quale le cose succedono senza nostra responsabilità. Non è così, ma siccome un po’ infingardi lo si è di default allora è meglio crederlo.
Si dovrebbe dire la stanchezza e la propria difficoltà e sperare che venga capita, perché solo l’accettazione della difficoltà, può cambiare entrambi e le cose. Se così non è, non era una incrinatura ma una rottura antica consumata da chissà quanto tempo e poi coperta d’ abitudine. L’abitudine non è un kintsugi d’oro che ripara ma un sipario che nasconde.
Da molto l’io aveva soverchiato il noi, ma si faceva fatica ad ammetterlo, perché non essere in grado di tenere in piedi un progetto è un fallimento. Però ci si dimentica che solo i progetti, l’entusiasmo e il costruire falliscono, ed essi possono conservare il buono del molto che si è fatto. E così può riprendere il senso del futuro con una conoscenza acquisita mentre l’arroganza, la prevaricazione, il dominio non falliscono, ma non costruiscono nulla.
Sono terra, acqua, aria? Oppure nella mia pretesa individualità, nella differenza che ostento, nell’offendermi dinanzi all’essere accomunato, in realtà sono pasta nel mortaio, mescolanza tra le dita di un demiurgo al quale incautamente mi sono affidato?
La mia libertà è nell’essere elemento e direzione,
non si racconta il ritmo della notte, mentre s’inceppa nel respiro scivolato dalle bocche,
non lo narrano le mani e il loro tatto nell’indifferenza inutile d’aprirsi,
non si legge negli occhi che l’anima socchiude in fessure di profondo rettile.
E cosa cercherebbe il nostro sauro mentre la coda interroga l’impalpabile terreno: qui ci sono lenzuola che s’aggrovigliano e non sabbia di pulsioni.
A chi dovrebbe chiedere ragione l’interiore sguardo, se non alla paura, l’unico legante che supera le specie, e s’accomuna nel buio, smisurata e fluida, nell’imbibire ossa di sicurezze chiare
Fuori, si sente il buio, penetra foglie, pali e fondamenta, la luce incauta vi aveva costruito il bello, il quieto, l’equilibrio indefinito che rassicurava e che si scomponeva nell’andare.
Ed era ben presente ad ogni passo, ad ogni sosta, si ritrovava sicuro nella luce di sé, di noi, ma non ora.
Nel buio, non c’è ritmo dell’andare e l’agro dell’insicurezza scioglie il tartaro d’ogni fondamento, toglie lo scandire dei segmenti, li trasforma in cerchi di gesso, vuoti delle parole che si rincorrono eguali.
E non chiede permesso il timore, educa senz’essere gentile, insegna la somma precarietà di ciò che a noi assomiglia ricordando l’impalpabile non essere della solitudine.
E a te, che come un bimbo non sai il risveglio, che temi la continuità dell’amore.
A te che devi allungare una mano per sentirti esistere, che scrolli il buio che ti svuota, e non balli, non scandisci i giorni, e ti disperi senza le parole esatte dell’alleviare, dico che non c’è un ritmo nel buio, non c’è una canzone che non sia l’eco dell’andar via, l’abbandono del cercare, il caso ilare del trovare.
A te resta il corpo, che si consegna ai piccoli lampi di stanchezza, la misericordia degli occhi che ora chiudono esausti a chiamare tregua e donarti lo sconcluso sonno
A volte guardando la stessa fotografia di sé, si riconosce un altro. E poi, in altra occasione, guardando la stessa fotografia, emerge ancora un’altra persona. Sono differenze di particolari. Chi ci ha visto e fotografato, chissà a cosa puntava. Voleva un sorriso oppure il pensiero che attraversava mente ed occhi? Voleva essere rassicurato, tenuto da conto, amato e lo chiedeva suggerendo l’espressione, oppure si ingegnava di trovare in noi la differenza che sino a quel momento non aveva visto eppure sapeva esserci. Il lato oscuro, insomma.
Molto più facilmente, avrà fermato un attimo purchessia, le cose vanno per loro conto ma hanno una coerenza e il contesto aveva lo stesso senso della nostra presenza: c’eravamo entrambi, c’era il sole o una pioggia battente, condividevano tempo e luogo, eravamo felici o indifferenti, in sintonia comunque. L’immagine era già nata come un rafforzamento del ricordo, utile per i momenti meno luminosi, un lasciare e tenere traccia d’essere stati. Cosa e come, contava molto meno, questo in fondo, serviva poi e lo si lasciava alla più fallace e creativa delle facoltà, ovvero la memoria, ma era importante che essa agisse anche per prove.
Le continuità hanno bisogno di prove, mentre le passioni, gli innamoramenti o le assenze esigono altro. Ad esempio si nutrono della poesia, del non concludere lo stato di benessere, dell’equilibrio del presumere, dell’assenza della verifica.
Guardando la fotografia, di me vedo un’aria ironica, lievemente sbarazzina, quasi incurante di ciò che sta attorno, come pregustassi un’ evoluzione. C’è un lampo negli occhi che può essere di ingenuità oppure di contentezza senza un motivo particolare.
Rivedo dopo parecchio tempo la stessa fotografia. È uscita da sola dall’immenso pozzo a cui attinge il salva schermo. Un memento che toglie dall’oblio il rumore del mondo che abbiamo fotografato. Ora mi riconosco vedendo altro di me. Mi studio, cosa chiaramente inutile perché nel vedersi davvero, funziona solo l’intuito e l’impressione. Dall’osservazione analitica emergono le difficoltà, i difetti d’immagine, la conformità alla maschera che è l’opinione di sé. Si colgono le cose che non vanno, ma è superficie, cos’è che va invece ? Tolto il narcisismo insito in ogni rappresentazione, resta il comprendere e la sua difficoltà ed è questo che si dovrebbe fare anche davanti allo specchio. Ancor più nel selfie, che è sempre un messaggio a qualcuno: chi sono, cosa guardo, a cosa sto pensando e soprattutto chi vorrei essere che m’assomiglia?
Dovremmo essere fedeli alla nostra piccola pazzia. Della nostra libertà interiore e profonda è parte vera e dovrebbe essere coltivata (e vista) come tale. Confina con quella verità che non è sovrastruttura e che toglie la scorza della convenienza dai gesti, dalle parole. Li rende scabri, essenziali alla comunicazione, trasparenti. Adamantini. Limitare il motore di tanta preziosità offerta, travisa il suo senso perché essa pensa di non offendere, di essere vista nella sua nuda bellezza. Ma è possibile non toccare sensibilità, non essere fraintesi quando si è liberi di essere se stessi? Cosa ci rende liberi oltre alla piccola pazzia del dire e dell’essere?
La con fidenza, la fede nell’altro che è accettazione della sua verità profonda, che toglie gli eufemismi e le metafore, le comparazioni che diminuiscono la forza delle parole adatte al sentire. Nella piccola follia scompaiono i “come” perché essa rivendica la propria unicità. Anche nel tacere che perde ogni timore o giudizio ma è interruzione del dire, pausa che riflette e cerca nel profondo chiarezza e ciò che non appare.
Lei, non risponde caro dottore. E come potrebbe dai vicoli pomeridiani del suo sapere, dalle analogie che interpretano, confinano, restringono in scarpe strette l’andare innanzi. La stessa meta, anche se la scelta (atto benevolo di libertà e di servo arbitrio che abusa di causa ed effetto) è comunque lasciata non alla risposta, ma alla sua interpretazione e quindi alla responsabilità di chi la compie. E la scelta raramente risponde alla piccola personale follia ma è un compromesso tra volontà condizionate piuttosto che rappresentazione delle spinte interiori.
Alle mie domande lei, ne pone altre ed io mi perdo in difficili, ulteriori equilibri. Ciò che si nega è esso stesso silenzio del profondo e ogni libertà porta con sé lo stigma di una ritirata. Basterebbe ricordare che non le battaglie perdute ma la continuazione di esse in altro modo e luogo alla fine consentirà la vittoria di essere se stessi.
Dietro ogni porta che si è chiusa non c’è il ricordo ma una possibilità che è continuata e che è definitivamente altro dalla magia che ha permesso, un tempo, di scambiarsi doni fragili e veri. Ad essa si è sommata tutta la materia che sembra polvere e strada ma è stata essa stessa verità cristallizzata in altre infinite scelte. Avessimo ascoltato le piccole follie, ora le smagliature dello spazio tempo conterrebbero una piccola rappresentazione di sé. Una mappa, un portolano della profondità che si è raggiunta e che ha rifiutato il determinismo sociale ed è ora aiuto per ogni scelta successiva.
Questo le risulta difficile dottore ma ognuno di noi, lei, io stesso, conteniamo una perpetua ucronia quando non ascoltiamo la nostra piccola follia: il mondo prosegue indipendentemente dalle nostre scelte e se ci pensa, non è il conformismo che lo rende migliore.
L’unico ricordo comune europeo è la giornata della memoria. Se essa rappresenta non solo il ricordo di ciò che è accaduto e che ancora può accadere, dovrebbe essere una frattura tra un prima e un dopo che muta gli uomini. E’ davvero così oppure dopo la rimozione iniziale, la coscienza dell’orrore, il suo esplodere nelle coscienze, un’altra più sottile rimozione è avvenuta, ovvero che essa sia legata a un contesto e a persone precise che del male furono interpreti assoluti. Ma a quel male che si annida nell’uomo essi parlavano e trovavano consenso. Questo è ciò di cui ci parlava Primo Levi.
Da questa memoria non mi sono mai separato sin da quando ho letto, ero ragazzo, un libro di Pietro Caleffi e Abe Steiner sui campi di sterminio. Poco testo e molte fotografie, che mi sconvolsero sino a non capire il perché e la misura dell’orrore. Mi sembrava impossibile che fosse accaduto. Oggi non ho più la sensazione che quello sterminio non si ripeta, come non penso più che la democrazia assicuri il rispetto della libertà e dei diritti dell’uomo. Se penso agli ebrei, come ad altri gruppi perseguitati, penso agli inermi di allora e di adesso. Capisco quelli che si difendono, ma non quelli che usano la forza per conculcare, togliere, uccidere. L’indifferenza verso gli inermi e i presunti diversi, allora come adesso, è pervasiva, toglie la percezione del male. Lo rende relativo e cancella le vite degli altri che diventano definitivamente “altro”.
Giustamente si è osservato che se si giudica un male come assoluto le altre espressioni del male diventano di grado minore e non è così perché il male è anzitutto riferito alla persona ed è già assoluto in essa, poi diventa immenso quando si moltiplica nel gruppo, nell’etnia, nell’ appartenenza ad un popolo o a una cultura che lo identifica. Quindi non pensiamo che l’inferno sia avvenuto, sia stato attuato allora e poi non sia mai più, perché il male trova nuove forme per esprimersi e fare di peggio. Oggi faccio fatica a non vedere il presente, a non pensare che tutta la sofferenza patita non sia servita se non a diventare egualmente feroci e che l’insegnamento sia stato non quello di migliorare l’uomo ma di renderlo uguale nell’indifferenza al male fatto.
Faccio fatica a pensare con equità, a trovare ragioni e ad essere indifferente. Ho memoria e guardo il presente, mentre temo il futuro.