I gesti che si ripetevano erano aria smossa che subito si ricomponeva, ma serbava memoria come accade alle cose e ai suoni. Gli anni chiedono dell’amore, delle sue occasioni, a chi accumula tenerezze e malinconia, e ne tesse abiti per la notte quando gli occhi guardano il soffitto e i minuscoli chiarori sembrano lampade che rivelano il senso di ciò che è stato. Nelle stanze, sulle pareti e nelle parole che piano si rincorrono stanno viottoli nell’erba, strade senza pretesa che conducono lontano, vicino è tutto ciò che è pace nel cuore inquieto il vero si nasconde ma interroga e conta le albe passate. e i giorni e le vie percorse, tra pietre divelte dalla furia del nuovo. Sui muri il segno aggiusta l’inquietudine di tante proteste, e il luogo dove tornare ha perduto le tracce dei colpi di tosse, gli scalini scavati, il profumo di caldo e di cibo, la sera. Il passo ha il presente e il futuro e i particolari s’affollano, vociano e mostrano istantanee su cui scorre il pensiero e morde l’assenza.
Si rincorrono soli e temporali, come un tempo I ragazzi nei cortili, nubi e alberi grondano acqua e luce e la terra beve: restituisce dove il pensiero non arriva. Poco oltre s’elevava un bosco al cielo nelle radure correvano fiori e gambe prive di stanchezza, ora la sera racchiude polle di ricordi, il tavolo la luce, la finestra il cielo. Prima della scuola, allora le mie ginocchia erano strie di polvere e di sangue, le tue erano linde e accorte. Accanto su una pietra antica era così gentile la tua mano che toglieva il sudore dalla fronte, e il fazzoletto odorava di sapone e casa. Sarebbe servito al gioco, poi, ora guardavamo il cielo che scolpiva nubi e meraviglia.
La pena è un vento senza vela né riparo, è polvere degli interstizi del pensiero. Ciò che depone uova di serpe lo fa secondo arbitrio, non usa chiedere perché dietro ogni angolo s’acquatta una scelta, animale per brevi consolazioni, o risvolto d’anima da comprendere appieno. Il dolore ha segni di silenzio, e chi sente il calore che toglie ne ha rispetto, distoglie lo sguardo, è pudore che vede ed attende che la carta muti il suo segno.
Penso al tuo autunno così eguale e così diverso, qui gli alberi ancora sentono l’estate quella che da te rifulge piena. La città si è scrollata la calura, corre nelle gambe degli scolari, allegri per l’aria e per gli amici. Nelle strade troppe auto visi sempre tesi di ritardo, più tardi aprono i negozi, ma chi cammina ha una meta, un luogo, e il passo dell’affanno. Ci sono da te i ragazzi in strada? Qui escono alla sera mentre il rosso nel cielo già s’estenua, si siedono nei bar, ridono, passeggiano, I baci non attendono la notte ed è un scivolar di passi indifferenti al traffico, mentre fervono attese e parole sussurrate, nelle strade colme di chi torna. Nella mattina I ragazzi erano in piazza, le bandiere sventolavano, cartelli e slogan ritmavano l’andare, loro sentivano le grida da lontano, l’autunno a Gaza, l’omicidio che non rispetta l’età e le stagioni. Avevano Il cuore colmo, che traboccava rabbia, compassione e pianto, e hanno camminato a lungo, gridato e chiesto pace sino ad essere afoni maltrattati mai muti. Con loro camminava l’amore, felice di aver chiesto vita.
Nel consueto persiste una luce e non si coglie se non viene mostrata, è l’intorno che l’aiuta, un riflesso, un cremisi, un indaco, qualcosa che tolga mentre si versa e riempie. Guarda nello specchio, oltre te posa lo sguardo e vedi ciò che da dietro muto ti osserva. Non è silente, ti scruta, in te cerca la luce e ciò che la mostra. Come fa la roccia prima d’esser capita, dall’acqua che distrattamente la lucida, e tra altri infiniti sassi, non s’accorge che tutti le danno qualcosa avanti l’esser limacciosa. Intanto si concede e scorre spensierata, felice d’essere sapore e densità, fresca come il nuovo che si scarta e ci sorprende ciechi al suo sguardo. Così ho visto te che bevevi la luce e il volto troppo schiariva, pur sorridendo ha i suoi diritti la pelle e non merita la consuetudine del vedere. L’acqua era poco distante, aggiungeva un lampo al pensiero, e cadeva nel silenzio ch’è prisma del sentire mentre scompone suoni e colori: tenevi il rosso nelle gote Il carminio delle labbra e posavi in essi la fiducia del cuore.
Quand’ero bambino le scuole iniziavano ad ottobre. A settembre si era nostalgicamente liquidata la vacanza e riottosamente, ma anche con la curiosità del nuovo, iniziava qualcosa che aveva già l’odore dell’inchiostro nero. Quello che il bidello avrebbe versato una volta a settimana nel calamaio del banco e che sarebbe stato costantemente inquinato con pezzettini di carta assorbente dai compagni in vena di scherzi. Intingere un pennino di bella fattura in quel calamaio voleva dire pescare un grumo che forse per uno scolaro cinese sarebbe stato una delizia ma per i nostri quaderni era una disgrazia. Penso che Rorschach abbia tratto dal suo inconscio scolastico l’interpretazione delle sue macchie per la psiche. Ed effettivamente la macchia aveva un effetto strettamente connesso con l’atteggiamento mentale verso la realtà dell’alunno. Chi ci scherzava, chi strappava, chi irrorava la macchia di lacrime grosse e calde pensando al presente immediato e al futuro prossimo, entrambi punitivi. Con difficoltà si imparava a scrivere in corsivo, con qualche piccola punizione si sostituivano i quaderni sempre scarni di pagine da strappare e per l’arte c’era la carta da disegno Fabriano. Da solo o con la mamma, andavo in quella cartoleria vicino a casa, chiedevo i nuovi libri, i quaderni, le matite colorate, l’album da disegno. Il profumo di quella botteguccia era cedro e cotone, cocoina, col sentore di mandorle amare, mescolato e reso unico dal sottofondo di colonia della proprietaria e da una nota persistente acidula d’inchiostro. La signorilità della proprietaria concedeva anche la possibilità della “sniffata” senza comprare qualcosa. Sarebbe servita durante l’anno per una sosta che rimetteva in ordine necessità e desideri ed era sua la pazienza di ascoltare un bambinetto, la stessa di chi possiede la bellezza e la elargisce generosamente. Quello della cartoleria era un profumo che restava dentro, come l’imparare, anzi ho imparato un profumo prima di compitare e di far di conto. Come un fiume, tutti i gesti, le ore, i pensieri, secondo la vulgata allora corrente, dovevano confluire nella scuola. Ma era un fiume di attività di distrazione, di sensi di colpa, di eroico apprendere che si gettava vestito di grembiulino nero e colletto bianco, nella scuola: E qualunque cosa si fosse compiuta, sarebbe stato un nobile inizio, magari fatto di spintoni, cartelle gettate, graffi e urla, ma era un inizio intinto di sacralità sociale.
Non sapevo nessuna di queste parole, però già avevo capito tutto quello che c’era da capire per sopravvivere.
Si alzava all’alba. A nord il sole, già a settembre faceva fatica a svegliarsi e i monti attorno ne custodivano la luce a lungo prima di lasciarlo sorgere. Un caffè, del pane e burro, le poche parole possibili da scambiare con il marito, il saluto e poi scendeva verso il lago. Qui il racconto si interrompeva, forse rivedendo i luoghi, ascoltando il ricordo di quelle parole nella lingua sconosciuta, ripensando al tempo e a ciò che ne era venuto. La sollecitavo. Ancora. Sorrideva e mi guardava, riprendendo la narrazione da una umidità che si sovrapponeva sui vestiti e che veniva tenuta a bada dal mantello e dallo scialle. Camminava in fretta fino al piccolo molo. Acqua e nebbia. La barca lunga, di legno, su cui saliva e se trovava posto sedeva, ma più spesso restava in piedi. Lo preferiva per vedere quello che accadeva e come le sponde si riempivano di colore quando la nebbia si alzava.
Iniziava la traversata e la barca scivolava in un’acqua scura, densa di profondità e di umori, era raro che vi fosse troppo vento, ma la pioggia era frequente e gli scialli si alzavano sulle teste mentre i mantelli assorbivano l’acqua. Una sera le mostrai una illustrazione dei promessi sposi dove c’era la barca su cui salgono Lucia ed Agnese, e lei la guardò con attenzione. Si, assomigliava. C’era una sorta di copertura su parte della barca, ma la sua barca era molto più lunga e grande. Tra sedute e in piedi, c’erano almeno una ventina di donne e due uomini al remo. Uno davanti che spingeva e uno dietro, che indirizzava la prua con il remo. Non si stupiva più di tanto, a Venezia si remava così. La traversata durava quasi un’ora e poi scendevano parlando e ridendo nel sole di settembre. Sarebbero tornate nel tardo pomeriggio con la stessa barca, contente di avere una casa che le attendeva. Lavoravano tutte nella stessa fabbrica e alle sette erano già al lavoro. Prima c’era la vestizione, accurata, con grandi camici bianchi da indossare. Lavavano le mani, più volte e poi indossavano guanti di filo, i capelli venivano raccolti in una cuffia che lasciava solo il viso scoperto. Poi avrebbero messo una mascherina di garza fitta su bocca e naso. Restavano fuori gli occhi. Non si parlava e gli occhi sorridevano solo nelle pause. Era una fabbrica di medicinali, esigente per la pulizia, che controllava salute e modo di lavorare, la precisione e la costanza nei gesti. Alla precisione e alla sua costanza nelle mani, era abituata da quando aveva lavorato a dipingere ceramiche fin da ragazzina. La pazienza di fare cose complicate e l’abitudine al nuovo erano venute col tempo. Credo abbia lavorato per almeno tre anni in quella fabbrica, prima di passare dalla Svizzera alla Germania. Ricordava quegli anni con il piacere di aver fatto un lavoro inusuale e bello. Si capiva dal sorriso che emergeva riandando a quando era ragazza e aveva un marito che la amava. Attraverso il suo narrare parco e legato ai sentimenti vedevo il mondo di famiglia dell’inizio secolo che si dipanava davanti a me. Ed era semplice come le sue parole che descrivevano con dolcezza cose grandi e piccole. Attraversare un lago all’alba per andare a lavorare e poi tornare la sera era un gioco e un’avventura, mentre era una certezza l’amore che l’attendeva e la casa calda.
Era mia nonna e l’amo come allora. Nella sera mi sembra di sentirla narrare e guardo il buio che si cala, ascoltando la sua voce.
Fa abbaiare i cani, il temporale ancora lontano, e apre nel cielo squarci di nubi contornate dai riflessi dei lampi. Rotola giù dai monti, il tuono, diceva mia nonna quando lo scuro invadeva il cielo e la stanza e i monti erano cornice per noi di pianura. Immaginavo allora i fulmini come grossi fagotti di luce, che scendevano rimbalzando su alberi e case fino ad esplodere nella pioggia e nel suono. Stasera c’è l’annuncio di cio che verrà nella notte ma il cielo è ancora quello del Tiepolo quando sovrapponeva agli azzurri, il grigio e il bianco per rubare luce all’immensità sconosciuta e donarla all’attesa. Chi verrà da quello squarcio ad occhieggiare gli uomini, i loro pranzi e parole dei riti d’agosto? Corrono adesso le nubi e nuovi azzurri si aprono mentre i cani continuano ad abbaiare e nel silenzio che viene dalle tavole sfatte, parlano tra loro di qualcosa che noi più non capiamo.
Spesso tagliano l’erba, il verde diventa tappeto, perde i fiori, la voglia d’essere seme. Le api cercano, ma solo per poco, poi vanno altrove. I bambini scendono tardi, giocano sull’erba con palle colorate, non ascoltano i richiami, proseguono discorsi che parlano a sé, o fingono mondi che loro soli vedono, ma non hanno ricordi. Attorno si ripetono i suoni, e in una bolla l’universo rapprende: il prato, le grida gioiose, i piccoli pianti, la casa che accoglie. Cos’è il sentire se non un animale scacciato, un cane che rincorre la palla, che non conosce il gioco ed è il correre felice il suo senso, così questo tempo e luogo si ripetono e noi abitiamo la differenza. Il sentire che interroga e si finge, che cerca nel colore bellezza, come usavano gli antichi nei templi, per stupire la grandezza e allontanare i presagi. È il futuro che si apprende: nell’età felice la conseguenza non esiste, così il dispiacere transita veloce, e la felicità è una corsa, una palla che vola, il sudore che vela la pelle, sciolto nella certezza di un abbraccio e di una voce amata. Nel prato che il verde nasconde, il tempo sussurra, storie indifferenti a chi non le coglie, le stagioni attendono, si ripetono mai eguali, sanno che solo il bianco e il nero sono la scena, la sostanza dei fatti, il luogo e il tempo, in cui cogliere il senso e mutare d’ accenti. Guardo e sono erba e albero che recitando invecchia, e mentre altri, i loro mondi stupiscono, siedo nel prato, con la mia nuova parte, che m’invento, attingo al ricordo, penso e poi taccio. In silenzio sono così dolci le voci, il muoversi armonico dei corpi, le loro storie che riempiono la vita e la scena del mio piccolo mondo.
La vita sobria è un rosario di verde, che sgrana nei giorni di attese discrete, di te, del tuo passo senza fretta. Nell’aria di ogni mattina diversa. la sobrietà delle parole attendono il suono il segno, la forma, e restano negli occhi, sospese nel corsivo pomeriggio. Ogni giorno rintocca, e raduna attorno un concerto di piccoli segni, il libro aperto rilegge la frase, per il piacere che attende d’entrare, come accade alle bocche prima del bacio. Ho visto pietre spaccate dal gelo, che mostravano la fatica del carbonato, nell’essere stato vivo e poi sasso, come accade alla memoria d’un gesto mio, che ha rotto il tempo allora, mutando attorno i colori, e molto ha mutato. Sul terrazzo vige la gioiosa confusione delle piante che rispondono con tenerezza al poco e variano il verde secondo il mio umore, acqua e cura è ciò che richiedono i corpi, e che il dolore di un sapere lontano abbia ancora speranza. Prima della sera, raduno ciò che è venuto e m’arrendo al sentire che non tace, così mentre la notte beve la luce l’umore attorno si mescola al mio.