Stasera stavo un po’ così, accade. E quando se ne conosce il motivo non è meno doloroso, ma che fare con quel disagio verso il tempo e ciò che porta con sé ? Francamente a me non piace il malumore, non ci sguazzo dentro neppure quando lo ritengo logico o giusto. Un conto e’ la melancolia, quella la conosco, un conto è il malumore. Già la parola definisce un disagio che sembra provenire all’equilibrio degli umori dell’antica medicina di Ippocrate e mi pare di dargli troppa importanza se pensa di risiedere altrove che dal cervello. È un sentire transitorio da dipanare e separare da altre cose che hanno acuzia, siano esse fisiche o mentali. Sono sentire che implicano, per affrontarli, l’uso di altre energie e risorse. In fondo per questo malstare, si devono chiarire le cose con sé, e con il divario tra ciò che si vorrebbe e ciò che si è.
Non mi convincono, e non invidio, i satolli, i cinetici, i soddisfatti, li sento in cerca con altri modi d’essere. Vivere senza pelle e’ una scelta, qualcosa che ti ricorda in continuo un’ appartenenza, una condizione. Uscire dai malesseri strani e’ possibile, basta sentire meno, oppure diversamente, ma anche il sentire e’ una droga auto prodotta, come le endorfine, e crea dipendenza. Si può scegliere di disintossicarsi facendo scorza, mutando la percezione in indifferenza, ma bisogna sceglierlo, cambiando il modo di sentire se stessi e gli altri. Difficile.
Il secolo scorso è stato il secolo dei sentimenti, nel senso che il ruolo del sentire è stato valutato come condizione alta dell’uomo. Forse anche sopravvalutato, perché tutto questo sentire non ha impedito eccidi immani e inumani, dislocando il sentimento in sfere che non avevano apparentemente relazione con le atrocità che venivano commesse. Gli aguzzini dei campi di sterminio amavano i loro bambini, in primavera guardavano i prati fioriti, ascoltavano Bach e Beethoven, leggevano Goethe e Rilke, quindi sentire non significa essere buoni, neppure e’ una vaccinazione contro qualcosa, pero’ se diventa una scelta crea domande e le domande possono far male.
Il vantaggio delle domande è che hanno risposte e una risposta sincera, anche se fa male, è una terapia che fa crescere, mutare se stessi di fronte alla realtà che accanto ai disastri mostra positività sorprendenti. Certo queste ultime non bastano, solo che ogni tanto ci sarebbe voglia di riposarsi dalla sequenza di distorsioni dell’umano possibile che portano a un continuo racconto della sofferenza e vedere anche il bello che ci attorniato e che spesso non conosciamo. Non è sostitutivo del vedere la realtà ma unisce la speranza alle scelte. È quello che vorrei nella realtà esterna: una tregua e un cessate il fuoco che duri, che lasci vivere, crescere, trovare soluzioni, dare spazio alle cose semplici e belle, all’amore, alla poesia che vede dentro e oltre.
A noi il tempo che viene, e ognuno trovi le ragioni dell’umore in sé e le sciolga se sono aggrovigliate, ma che la realtà ce lo lasci fare, che basti un analgesico mite.





