lo so

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Lo so che il respiro lungo di questa notte, ancora calda, è la somma dei respiri che si muovono nei letti, l’affannare rotto dei desideri, l’aria impercettibile che si fa strada tra le labbra.

Lo so che questo respiro, che per un attimo si sospende, contiene tutti i sogni in corso, quelli scordati al levarsi, quelli che scivoleranno via con l’acqua del mattino.

Lo so che questo respiro riempie le strade, che viene tagliato in minuscoli pezzi dalle ultime auto e ricomposto dal camminare incerto verso casa, dal vagare senza meta.

Lo so che il respiro sale dai ciottoli e dalle pietre, dove s’era posato filtrando da persiane e imposte chiuse. Lo so che riempie gli spazi tra le case sino a traboccar sui tetti, che così riassume le veglie assopite, che spegne le luci delle stanze prima d’arrampicarsi irresistibile verso il cielo.

Lo so che questo sospiro ci unisce e ci divide, che ci spartisce, come coltello affilato, tra chi possiede una storia da raccontarsi e chi ne è privo. Ma so che ciò che divide ha sempre una speranza di riunirsi in un sogno già sognato.

Lo so che ciò che è diverso non lo è mai davvero eppure è irripetibile finché s’assomiglia ad un desiderio inappagato.

Ed io penso, sveglio, che questa notte non ha ancora l’odore delle tempeste d’autunno, ma sospira i ricordi delle nostre estati. Che la vita ha bisogno di noi. Che la tua estate e al mia sono così simili che ogni aggiungere è necessario e superfluo. Che l’aria tiene assieme, ed io respiro la tua e tu la mia, un poco tanto finchè sentirò il tuo cuore. E che questo ci è necessario perché contiamo noi, solo noi.

In un letto un desiderio s’è sovrapposto all’altro, incessantemente, sino alla quiete. Poi, nel sonno, dall’angolo di una bocca è scivolata una goccia di saliva: sembrava rugiada che aspettasse il sole, mentre il corpo si lasciava andare al sogno.

era la festa del santo patrono

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Era la festa del santo patrono. Per tutti. I credenti, gli atei, gli innocenti, gli ignavi, i benpensanti, i delinquenti. Per i passanti meno, però si adeguavano. Dalla periferia verso il centro, era un crescendo di esteriorità, di frasi ribadite, di tappeti rossi per la processione, di persone che attendevano. Chi una grazia, chi di farsi vedere, chi di pregare in modo appropriato ed eccezionale. Vicino al portone della chiesa, aperto come mai durante l’anno, sostava la banda. Ottoni, legni e tamburi, colletti slacciati, cappelli per traverso, qualcuno addirittura senza, era il capannello dei bandisti che nell’attesa, parlavano d’altro. Di cose frammischiate, spesso oscene. Le ragazze dei flauti e dei clarinetti erano per loro conto, ogni tanto qualcuno dei giovani s’intrometteva e allora i discorsi deviavano in sfottò. Appena oltre il sagrato, l’aere sacrum dove i ragazzi la sera giocavano a pallone o amoreggiavano sugli scalini bevendo birra, c’erano bar e tavolini pieni di persone. C’erano gelati che gocciolavano troppo presto, scollature interessate, gambe accavallate, bibite e aperitivi che coloravano bicchieri di rosso, verde menta, giallo, arancio. E tra i tavolini, all’ombra di ombrelloni giganteschi, era tutto un chiacchierare senza comunicazione, un ascoltare e dire distratto, poco interessante, ma indispensabile ai vestiti da mostrare, al ruolo da mantenere, ai saluti da ricevere e da dare. Arrivarono per tempo i fabbricieri, con mantelli bianchi e cappelli di velluto cremisi. Poi le confraternite con gli stendardi ricamati. Infine le faglie dei portatori della statua. Gente di commercio, colli taurini di fabbri e macellai, sottili figure di sarti e tabaccai, venditori di spezie e coloniali, vinai, commercianti di tessuti, calzolai. Insomma taglie umane diversissime, dai sottili ai grossi. Alcuni, i portatori, rivestiti di mantelli blu oltremare fino alle caviglie, con calzini bianche che spuntavano dall’orlo per finire dentro a scarpe a punta con la fibbia dorata. Gli altri con mantelli di vario colore che definivano estrazioni e devozioni di cui pochi ricordavano il motivo e la nascita nel tempo.

Fuori dalla piazza, il traffico man mano si spegneva. Ai limiti del tragitto della processione i vigili in grande uniforme, deviavano auto, pullman e motociclette. Lasciavano passare, a piedi i ciclisti, rispondevano alle domande degli ignari, facevano finta di non sentire i moccoli e le bestemmie di chi si vedeva stravolti i piani, le consegne, gli impegni. Era festa, anche per chi non lo sapeva o voleva. E festa doveva essere, mica ci si poteva sottrarre alla festa del patrono. Era la festa della città, dei suoi appartenenti, di chi aveva fatto la fatica di proteggere quel posto e i suoi abitanti. Così, più distante, verso la periferia, le case inghiottivano un traffico nuovo. Auto e camion ingolfavano le strade che portavano alle circonvallazioni. Non quella vecchia, quella delle mura, ma i nuovi limiti che dividevano la città dalla campagna. Il dentro e il fuori. C’era un silenzio rumoroso, da primo pomeriggio estivo. Le case erano piene di persone. Bambini svegli, vecchi e operai che dormivano approfittando del dopo pranzo abbondante, donne che rassettavano. Non pochi facevano all’amore nel pomeriggio, con i balconi semichiusi, con i rumori che filtravano dall’esterno inondando le case di novità sonore. Impiegati, artigiani, operai, stanze per studenti fuori sede, il tutto in case pastello, con pochissimo verde e alberi spaesati. Una umanità che pure c’era, ed era maggioranza, ma non appariva. Era isolata nelle idee, nelle preferenze, nelle attese. Si trovavano per le scale, nei cortili. Si parlavano per omologhe necessità. Si salutavano, ma la cosa finiva col saluto. C’era un’ attesa differenziata di futuro tra loro e partecipavano in misura diversa alla vita della città, come vi fosse una stratificazione che, se anche era in movimento, aveva velocità e vischiosità diverse e una possibilità di scambio difficile tra strati. In una di quelle stanze uguali e differenti assieme, su un tavolo posto a fianco della finestra piena di luce, c’erano carte. Alcune sparse, altre allineate in pile, a sinistra quelle scritte e a destra quelle bianche. Alcuni fogli erano finiti sul pavimento e rilucevano in una lama di luce, con i caratteri che potevano essere qualsiasi cosa: una lingua antica, disegnini di una mente distratta, frasi sconclusionate oppure ragionamenti affilati e rari. Nella stanza non c’era nessuno. Oltre si sentiva il respiro di una, forse due persone, un parlare fatto di sospiri. L’aria era calda e densa degli odori del pranzo. Un sugo, della carne, un sentore di vino rosso vecchio. Ma ciò che si sarebbe potuto fare, se ci fosse stata una lama gigante e affilatissima, era sezionare quella casa in verticale e scoprire che tra ciò che poteva essere scritto su quelle carte sparse e ciò che accadeva non c’era differenza, ma anzi le carte erano più ricche di racconto, mentre le vite si svolgevano simili, con desideri e voglie sovrapponibili, con stanchezze analoghe, con soluzioni uguali. E allora non si sapeva più bene quale fosse il racconto del passato, addirittura del presente, se c’era così tanta potenza in quei piccoli segni che rilucevano da tracciare finali più ricchi e diversi. Bastava saperli leggere bene e si sarebbe capito il futuro. Mentre questi pensieri si formavano, da fuori si sentiva il rumore del traffico diminuire, e la musica della banda avvicinarsi. Non sarebbe passata sotto quelle finestre, lì eravamo oltre la città vecchia, ma il suono non ci badava e allegramente superava i confini tracciati dal potere degli uomini. Il patrono avrebbe fatto una svolta stretta vicino al fiume e per strade piene di palazzi si sarebbe orientato verso l’altra parte della città che conta, avrebbe ricevuto l’omaggio dai balconi aperti, sarebbero caduti petali di fiori e piccoli coriandoli di carta, anche delle striscioline su cui qualcuno avrebbe scritto innumerevoli volte la grazia da ricevere e l’avrebbe fatta volteggiare nell’aria. Poi sul calpestato, avrebbero agito gli spazzini, ma per un poco la città vecchia sarebbe apparsa colorata più del solito grigiore che la teneva stretta, dai palazzi sarebbe uscito qualcosa che di solito ci si guardava bene uscisse, ovvero una trasgressione all’ordine. Il vecchio ci teneva acché le cose avessero un loro posto, come gli uomini. Il nuovo invece, oltre il fiume e la circonvallazione, non aveva queste tradizioni, erano persone che la città aveva collocato a distanza, forse per questo c’era un’aria di incredulità che serpeggiava. Anche nei confronti delle reali possibilità di avere un santo in comune. Però il suono della banda si spandeva nell’aria e superava i confini del censo e dell’appartenenza e forse faceva piacere a chi era incredulo perché metteva allegria con quei suoni pieni e sempre un po’ stonati generati da prove discontinue, da altri mestieri fatti di giorno e da una passione serale e festiva che faceva tirar fuori musica e armonia da uno strumento. In fondo suonare annullava le distanze, bastava non sbagliare troppo e si aveva la coscienza di aver fatto qualcosa che faceva piacere a sé a agli altri. E se ci fosse stato un osservatore imparziale e attento si sarebbe accorto che il suono penetrava in quell’insieme di cose che accadevano nelle case. Avrebbe sentito il variare dei respiri nell’altra stanza e le cose già scritte, uguali eppure possibili nel loro travolgersi e stravolgersi, si sarebbero, forse, modificate. La vita continuava scorrendo, eppure sembrava procedesse a fiotti, ad accadimenti, solo che quello era un giorno di festa e per un giorno ciò che era scritto poteva coincidere con la vita.

 

marginalia

Sembra sempre che qualcosa manchi.

Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio.

La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa.

La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce.

Il tempo: troppo quando rimando.

Troppo poco, devo andare.

Meglio scrivere sul margine del tempo,

cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale

lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, contento delle sue conseguenze.

Dispettoso e allegro, pensoso.

Chissà dove andrà a parare?

Inseguirlo e meravigliarsi un poco.

Farò a tempo.

Arriverò in ritardo.

Ce la faccio.

Bello scrivere quando il tempo è poco,

e s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre.

La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede.

Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria.

La pioggia aspetterà.

Non aspetta. Cade.

Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo.

Aspetta ancora un poco. Per favore. 

o meglio così:

Sembra sempre che qualcosa manchi. Ora il tavolo troppo ingombro, oppure troppo spoglio. La penna sarebbe meglio fosse quell’altra che non ricordo dove ho messa. La luce laterale distrae troppo con le ombre, quella frontale però infastidisce. Il tempo. Oh il tempo: troppo quando rimando.Troppo poco, devo andare. Meglio scrivere sul margine del tempo, cogliere l’anfratto d’un pensiero che non si ripeterà uguale. Lo vedo che ora sulla carta si dipana, scorre e sfugge via, è contento delle sue conseguenze. Lui. Dispettoso e allegro, pensoso. Chissà dove andrà a parare? Inseguirlo e meravigliarsi un poco. Farò a tempo. Arriverò in ritardo. Ce la faccio. Bello scrivere quando il tempo è poco, però s’avvicina il temporale: bisogna chiudere le finestre. La luce di prima non c’è più, quasi non ci si vede. Ancora una parola, un’altra, un concetto che non può star per aria. La pioggia aspetterà. Non aspetta. Cade. Importuna e golosa spruzzatrice di vetri, arrivo. Aspetta ancora un poco. Per favore. 

bianche e perfette

Pare un buon segno al cuore

che, tra i vasi, 

il rosmarino, la lavanda, l’elicriso,

due uova bianche, piccole, 

perfette,

siano d’una coppietta di colombi.

Lui grigio, un po’ indeciso nell’attesa,

lei tenera di bianco

e già solerte nel saper che fare.

Han fatto un letto di legnetti,

dove posare quel perfetto bianco

e attendono pazienti,

ed io con loro,

che il miracolo si ripeta

allegro.

 

prima del temporale

Mangiavo piccoli dolcetti al cacao: cocoa short bread cookie. Fernet e caffè. Nel corso passavano ragazze con vestiti estivi corti e leggeri. Parlavano fitte, ridevano spesso. Qualcuna gesticolava e si toccava il corpo: stava raccontando qualcosa di sé. Gli uomini si fermavano tra una boccata e la successiva. Anche loro ridevano spesso, ma era una risata meno leggera, pesante di sottointesi.

Il mio sigaro era di dolce Kentucky, poco invecchiato. Lasciava un fumo denso e aroma nell’aria. Lo seguivo con lo sguardo e mi pareva un bel momento.

Appena oltre le case, con i balconi pieni di gerani rossi, s’annidava il rumore di chi andava di fretta. La città era nata dal gioco di un gigante che tirando linee dritte e curve, infine, aveva tracciato una spirale ed io ero al centro di quel dipanarsi di luoghi, ma anche sulla retta del corso. E lì ho visto staccarsi le ore nell’aria che non voleva cedere al temporale. Era così limpida e piena di tanti piccoli suoni tiepidi conosciuti, che si bastava. Tutto si accordava nell’attesa di qualcosa. Ho pensato. E tutti, quelli seduti e quelli che passavano, sapevano cosa sarebbe accaduto, ma lo stesso erano attenti anche se ostentavano una distratta noncuranza. Forse per questo, o per aggrapparsi a qualcosa di ben noto, il cigolio degli ingranaggi del campanile, sollevò ironici commenti. E qui ci starebbe un eppure, ma tra il rumore secco delle chicchere nel secchiaio del bar, risuonò alto un evviva! con quel tono squillante che hanno i tenori di coro. Si brindava al momento, alla presenza, a chi pagava, forse anche ai seni della barista. Qualunque fosse il motivo si sciolse un arcano maggiore, mentre cadevano le prime gocce di tiepida pioggia.

vigilia di ferragosto

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Nei paesi si festeggia: è ferragosto,

musichette e specialità tipiche del posto,

ma appena fuori non c’è più nessuno attorno,

solo voci da finestre illuminate,

luce di lampioni,

perimetri di case.

Segni d’una notte che non mente

che non avvolge e non rassicura.

Il cielo s’è riempito di nubi gialle e grigie

è la città che proietta le sue voglie,

ma le stelle cadenti si nascondono

e neppure un desiderio durerà a lungo.

Vicini lampi annunciano la pioggia.

e verrà, presto, grigia,

sporca d’abitudini,

pur di non lavare il mondo

s’infilerà tra steli e bagnerà fiori di campo,

gorgoglierà in grondaie di rame rosso verde,

si getterà tra scacchiere di chiusini

giocando con polvere e lamiere,

ma non con noi che abbiamo chiuso il cuore,

Non con noi che circondiamo l’amore di rifiuti,

non con noi che non ci stendiamo più nell’erba

per collocare un desiderio in cielo.

sterminata l’estate e il mare

La vacanza sembrava infinita. Non c’era una percezione del tempo, si procedeva sino a sazietà e il penultimo giorno era come il primo. Non si tornava mai prima di una fine naturale. Finiva agosto, finiva la vacanza. Erano quattro settimane precedute dall’inizio estate che pure era alterazione d’ogni abitudine e dovere, e quindi vacanza. Allora appresi il significato della parola sterminato e il suo applicarsi all’indeterminato tempo, luogo, spazio. Sterminata era l’estate finché durava agosto. Sterminata era la spiaggia che s’inoltrava tra le altissime dune, tra i fiori spinosi, tra le piante acuminate, tra i percorsi lunghissimi degli scarabei. Prima d’inerpicarsi su una cima, presa sempre di corsa perché scivolava e franava con noi, e prima di rotolarsi giù per un pendio sino al fondo di sassolini e sabbia, non c’era alcun pensiero di fine, di tempo. Era una corsa seguita da una corsa, un gioco che proseguiva in un altro perché oltre quella duna c’erano altre altissime dune, sino all’ultima da cui si apriva il mare. Messo di traverso al tramonto e più propenso all’alba, ma anch’esso sterminato e pieno di tempo, fantasia, cose. Fossero le vele o una nave lontana, i pesci enormi trascinati a riva la sera, i legni e le cose che ogni mattina faceva scoprire, fosse questo e il molto d’altro che mostrava, era comunque una piccola parte di quell’immenso che conteneva e si perdeva in una nebbiolina di calore, là, in fondo, nell’orizzonte. Incontinente il mare, ma contenuto in una testa ricciuta, in un corpo nero di sole, in un ansimare di fatiche gioiose. Contenuto, perché tutto sta dentro nella testa di un bambino, nulla è precluso e superare la paura coinvolge come il racconto che poi si farà d’essa. A cose fatte, nasce lo sterminato tempo di ciò che si potrà fare. Poi.

C’era un prima, un attendere insonne prima di partire, che faceva parte del magico rituale del lasciare, eppoi un dopo, un consumato tempo altrove che avrebbe reso estranea la porta, la scala, le stanze, persino i pochi giochi lasciati. Al ritorno la luce scemava prima, cambiavano gli odori, prima così forti ed estenuati di sole, e ora vellutati d’ombra odorosa di rosse fraganze e di frutta matura. Un senso di cominciamento, meno felice, era alle porte. Se sconfinato era il tempo della vacanza, lo straniamento del ritorno non faceva paura, casomai meraviglia. Cominciava qualcosa, e si era quelli di prima ma diversi, e ci pareva, nuovi.

tende a righe

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Un cane abbaia nella calura del meriggio. È un insistere malato, fatto di scoppi di voce senza oggetto, s’abbassa e poi riprende. A fermare il sole, sulla porta, c’è una tenda pesante, a righe. È fatta di quei tessuti che si trovavano un tempo ovunque, dai mercatini ai negozi. Ed erano gli stessi delle sdraio al mare, quando ancora erano fatte di legno e la tela era di canapa e cotone pesante tinta in filo. Abbiamo avuto tende simili ovunque. Ogni casa di parente aveva le stesse tende. La nonna, (non la mia, io avevo una nonna personale), abitava in periferia, dove le strade diventavano sempre più strette e tortuose e le case e i campi si confondevano. Lungo la strada s’addensavano piccole costruzioni, dietro c’erano piccoli appezzamenti coltivati a vigna, a granturco, a orto, ogni tanto un’ osteria che nulla aveva di diverso, dalle altre costruzioni, se non una piccola aia sotto la vigna, i tavoli e gli uomini che cercavano l’ombra fumando. Le case erano basse, sovrastavano di poco il granoturco maturo e viste dai campi sembravano spuntare tra gli steli come fossero parte del campo. Di fianco avevano un orto, le zigne, le dalie, una rosa rampicante, gerani e garofani in vasi di conserva. La porta che dava sull’orto, d’estate, era aperta; gli scuri delle camere accostati. I davanzali la mattina presto accoglievano cuscini e lenzuola, poi col crescere del sole e del caldo, tutto s’accostava, ma non la porta che restava aperta e riempiva la cucina di una luce densa di penombra. E la tenda pesante si gonfiava d’aria fresca interna che lottava con l’aria rovente che voleva entrare.

Il pavimento era di mattoni rossi allineati di taglio in spine e disegni. Giocavo per terra seguendo le commessure come cigli di labirintiche strade. Steso, sentivo il profumo acuto del pomodoro che scivolava sotto la tenda, e anche allora un cane abbaiava. Le ore pomeridiane erano silenziose, gli uomini al lavoro. Le donne facevano lavori da calura: qualche rammendo, l’uncinetto, e parlavano piano anche se nessuno dormiva. Ma il sole era un lottatore, gonfiava la tenda e gettava all’interno vampate di odori selvatici, caldissimi e forti: erbe, piante, granoturco che biscottava le foglie. Allora qualcuna delle donne si alzava, accostava la tenda e prendeva una caraffa di acqua freschissima, tagliava i limoni, aggiungeva lo zucchero e mescolava. Da ultimi, pezzetti del ghiaccio acquistato il mattino. Quel bicchiere imperlato di brina, il liquido fresco e nebbioso, mi sembrava un nettare e l’unica ragione per cui quel cane, che ne era privo, continuasse ad abbaiare sotto al sole. E invece era a catena come noi, ma noi non lo sapevamo.

che dire sull’attimo fuggente…

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Avevo 20 anni e non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.

Paul Nizan

Sul vivere gli aforismi si sprecano. Una parte non piccola delle riflessioni incastonate tra facebook e altri media web sono perle di saggezza che ruotano sull’insoddisfazione generalizzata che sembra le vite si portino dietro. Hanno successo. Fanno bene per qualche nanosecondo, ma non insegnano niente perché ogni insegnamento è fatto di fatica, pelle tagliata, di scelte. Fanno bene perché ci fanno sentire in compagnia nell’insoddisfatto brusio delle vite attorno. E sono variazioni sul tema: vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo, salvo poi sperare che la vita duri indefinitamente.

Ed io su questo vorrei proporre una piccola riflessione che non sia un proverbio, ossia il mettere da parte, il rimandare non è sbagliato in sé, è un posporre qualcosa che non s’intende affrontare. Ciascuno di noi sa perché non vuole affrontare nel momento ciò che sarebbe possibile. Anche una cosa piacevole si rimanda, questo vorrà pur dire qualcosa. Credo dipenda da una concezione del vivere che vuole avere tutto, che non si accontenta, e che però lo senta riprovevole. Ma questo non basta perché lo stimolo rimane e imporrebbe una scelta e quando questa si rifiuta, allora si rifà su altro, prende quello che ha a disposizione, lo muta e tramuta in simulacro, cerca di rivivere un tempo che non ha più. Ciò comporta la necessità di una giovinezza, cioè di una disponibilità infinita di tempo e la si colloca indipendentemente dall’età, nel presente, al posto del tempo proprio, delle proprie scelte nel momento, come si potesse riparare ciò che non è stato e rivivere anziché vivere.

Però non esiste una ricetta, ciascuno fa quello che gli viene meglio, attraverso oscuri meandri che scomodano il sado masochismo, che vivacchiano nella facilità delle abitudini, che colgono la contraddizione di ciò che è perbenismo, ma si adattano ad esso. In fondo è sempre più facile dire un sì piuttosto che un no, mentre vivere nel momento dà un significato univoco ai no e ai sì. Consoliamoci, anche il rivoluzionario ha una vita fatta di abitudini e fisiologie del corpo. Volendo dare la colpa a qualcuno, cioè togliendosene un poca sulle proprie scelte rimandate, possiamo dire che l’educazione gioca forte e il condizionamento sociale pure, in questa idea che il piacere si possa rimandare, che la vita sia dovere. E questo non distingue tra il pubblico e il privato, così ciò che è socialmente dovuto irrompe nella vita personale. Questo prescinde dall’età. Ma allora il processo di liberazione interiore è personale, solo noi possiamo decidere ciò che vogliamo fare di noi. Se tenerci un piacere, se vivere quando la vita accade oppure se rimandare ciò che vorremmo a un indefinito futuro, quando ci sarà il tempo delle decisioni e tutto sarà più libero e semplice. Non c’è giudizio in tutto ciò, ciascuno vive a suo modo; importante  è che si capisca che vivere bene è meglio che vivere male e che questo vale a 20 anni come a 80.

Che dire sull’attimo fuggente se non che fugge.

 

cuore di stagnola

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C’è un piccolo cuore di stagnola che attende nel vicolo. Luccica nel buio, si sta attenti a non pestarlo e nessuno lo raccoglie. Neppure gli spazzini l’hanno toccato: chi sposterebbe un cuore?

E’ un notturno urbano, molto italiano e poco americano, con le finestre che guardano la notte e un alito di vento incostante che muove gli oleandri, tra scrosci brevi di pioggia. Fuori dalle case il buio si separa da quello delle stanze. Luci diverse, piccole quelle di casa, grandi e sguaiate quelle di strada, ma pozzanghere di nero mostrano la forza della notte. Quella che solo i sogni rendono giorno. Assieme a quel piccolo cuore di stagnola.

Tutto dorme fino al canto dell’allodola, poi ci sarà lo stridio del nibbio che cerca nella luce ciò che può ghermire.

E ciò sembra dimostrare che non è nei sogni che alberga la violenza.