Vorrei che tu capissi che m’interessa molto la tua vita, eppure non ti scrivo, anche se spesso lo faccio con la mente. Dirai che dicono tutti così, che ciò che conta sono solo i fatti, ma ne siamo ben sicuri? E a che servirebbe allora sentire e pensare a chi non c’è? Oggi ti parlerò di me non per suscitare la tua risposta ma per farti capire dove mi aggiro mentre non so cosa fai, come vivi, cosa pensi.
Non conosco i tuoi desideri, le attese che hai perduto e quelle nuove che sono nate. Basta questo non conoscere, per non sapere nulla? No, perché ci sono altre strade e momenti che hanno lasciato tracce e queste continuano a percorrere la loro vie, tracciare destini, pronunciare parole. Nei tabù che le nostre vite portano con sé ci sono i tanti modi della fuga, le parole che la descrivono, il dialogo che essa sottende e non interrompe.
È fuga il lasciarsi senza aver detto o mostrato l’ineluttabilità dell’accadere. È fuga il salvarsi quando la minaccia diventa prigione o ancora più provoca la perdita dell’identità. È fuga non pronunciare le parole che si sentono dentro per timore delle loro conseguenze. È fuga il scegliersi dopo aver a lungo cercato. È fuga approdare naufraghi sull’isola del proprio esistere, nudi e con la propria solitudine, di malintesa incomunicabile unicità. È una fuga creare schermi di parole, raccontarsi storie, rifiutarsi e rifiutare. È fuga lasciarsi scivolare nelle abitudini, nelle sicurezze che inquietano. È fuga accettare il gorgo dell’oblio, il rifiuto della memoria, la cecità per non vedersi cambiare e mutarsi.
Parole e succhi di significato che girano attorno a bisogni. Gli stessi con altri nomi, scoperte conosciute: il corpo non mente ma può essere tacitato, plasmato, ignorato, ricondotto al suo posto presunto. Non è questo il pericolo paventato da tanto pensiero umano incapace di ricucire sensazioni e pulsioni con il concreto accadere delle vite?
È domenica, e molto tempo lo passerò facendo le cose solite che a volte mi lasciano insoddisfatto per il divario tra il molto che mi propongo e il poco che poi faccio.
E tu che farai oggi? È il solstizio d’inverno, la festa della luce che comincia a rischiarare la notte, il buio del cuore. Ho ripreso alcune vecchie poesie, perché vorrei farne un piccolo libro che mescoli alcune di esse con il presente, col bisogno di parole nette, inequivoche. M’accorgo ancora una volta dei miei grandi limiti e di come essi generino cose che non finiscono mai, ma un aspetto positivo c’è: sono anche porte divelte, impossibilità di fughe. Questo vorrei tu ben capissi di me, non scappo proprio per la mia incompiutezza, per il limite ben presente che anche quando supero ne genera di nuovo.,
Non ti spedisco nulla, ma scrivo e continuo a farlo su carte che m’accompagnano, più per il mio bisogno che per i lettori.
Penso molto e spesso non solo a me ma alle poche persone che mi hanno colpito in questi anni. Penso a come vivono, cosa sperano e si chiedono. Vorrei sapere di più ma comunicare a distanza esige un’ attenzione e un legame particolare, che è quasi una telepatia, un’ affinità che continua e si alimenta reciprocamente. È quel sentire profondo di cui proprio tu mi spiegavi quando raccontavi di un tuo amore appena concluso ma intenso e forte ancora. E io ti dicevo che capivo per analogia, ma non era la stessa cosa ed ora lo comprendo meglio perché le vite sono fatte di ascolto profondo e molto meno di confronto.
Ho pensato che nella mia ricerca di un equilibrio interiore sarò ancora più silenzioso. Ho bisogno di capire meglio le cose e come io mi trovo in esse, mettendoci molto più ascolto, ironia e il distacco necessario.
Mi accorgo anche che il molto ascoltato, le domande fatte e che mi riguardano non bastano. E anche questo è un modo di non fuggire, perché queste domande dicono che è difficile essere ascoltati nel modo giusto e che questo dipende dalle attese che si hanno. Anche le attese sono delle fughe? E i desideri sono una risposta al fuggire, un fermarsi a un sé che muta rapidamente, che si consuma e al tempo stesso consente di riprendere fiato?
La fuga è un sentire profondo che non ha pudori e che nasce da un percorso. Bisognerebbe spiegare anche questo, ma chi ascolta non può fare questa fatica o almeno non la si può chiedere: o viene come una disponibilità oppure non c’è e questo motiva il silenzio di cui mi circondò, lo scrivere che resta segreto e quello più esterno che diventa allusione.
Penso anche che la fuga motivi molti impegni e il parlare d’altro senza passione vera, perché anche a quella serve un noi che dia dimensione alle cose che si fanno, un futuro e uno scambio limpido. Condizioni davvero difficili da realizzare.
Così le mie giornate si annodano di cose, di impegni lievi o forti ma è il muto dialogo interiore che alla fine determina l’umore e quell’apertura al desiderare che, a mio avviso, è propria dell’uomo e lo spinge a comunicare profondamente.
Pensieri solipsistici se non trovano uno sbocco, ma le cose non sono mai così assolute ed è la speranza e la ricerca distratta, si chiama caso, che lancia segnali e spesso si sbaglia, ma non cessa di pensare che da qualche parte il comunicare profondo esista.
Che sia una buona domenica.
Con un abbraccio