Fumo notturno

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Fumare fuori, in terrazza, nel buio che avanza. Verso ovest, le nubi hanno ancora striature di grigio, qualche orlo rossastro. Ora la strada è spesso vuota, quando c’è qualcuno, sono auto, persone, pensieri che vanno, che hanno una direzione. Rumore che si dissolve, silenzio, rumore che si ripete. Dalle finestre illuminate delle case tra radure artificiali, qui c’era il bosco, televisioni che parlano, altri silenzi. Si ascoltano molto più gli oggetti delle persone. Qualche voce parla dentro le case, si crede che nessuno ascolti e si è più liberi.

Quando si è giovani si pensa sempre di non essere visti abbastanza, per questo ci si mostra, si parla ad alta voce, oppure ci si duole di non saperlo fare, ma poi tutto diventa relativo. Ma intanto si è perduta l’età delle passioni, quell’innamorarsi della possibilità sino a sentirla concreta. Non si pensa più di studiare qualcosa di strano, d’imparare il sanscrito, oppure indagare su una piccola curiosità che cresce per suo conto e di cui si diventa esperti. E di queste idee non si parla quasi con nessuno perché è una cosa nostra, una passione da condividere solo con chi può capire, perché quella spinta viene da dentro e siamo noi in divenire.

È strano che nella notte ci sia sempre un cane che abbaia, una finestra che si spegne, una voce slegata da ogni contesto. Le luci dei balconi sono immobili, la pipa si spegne spesso, i pensieri corrono ovunque. Si rimpiange ciò che si è perduto, ciò che non è stato o ciò che non è più possibile? L’aria è diventata fresca, i rumori degli aerei che vengono da ovest si confondono col brontolare lontano dei temporali sulle dolomiti. Ogni voce ha il suo suono, ogni silenzio ha il suo suono. Se posso rimpiangere qualcosa è non essermi spiegato abbastanza e aver lasciato pozze di incomprensione, oppure di essermi spiegato troppo e aver tolto ogni speranza. Né l’una né l’altra cosa toccano il futuro, aggiungono consapevolezza alla notte, a quel guardare il cielo che cerca le stelle e non sa mai ben collocarle dentro di se.

Andare

C’è viaggio e viaggio. L’uomo ha dentro di sé la spinta a viaggiare, l’umanità ha popolato il mondo in questo modo. Non è solo spirito d’avventura, volontà di conoscere, sperimentazione di se stessi, queste sono cose che subentrano o collaborano con necessità primarie quali l’ insoddisfazione del luogo in cui si è, il sentirlo minaccioso, insufficiente, angusto. Si va perché manca l’aria, anche se non è facile lasciare un luogo pensando di non tornarci più.  Eppure questa ė una costante nella storia dell’umanità e questo porta alla mescolanza dei popoli, che diventano tali in forza della cultura non del transitorio potere che possono esprimere. Non parlo solo dei migranti che ormai sono un dato strutturale dell’Europa e di molti altri paesi, mi riferisco invece proprio alla spinta ad andare insita nell’uomo e alla difficoltà che altri uomini hanno a riconoscere quella spinta, fino a scambiarla per una minaccia e non un valore. Molti preferiscono viaggiare solo nella fantasia di andare, di fuggire da una situazione in cui si sentono prigionieri, salvo poi difendere tanto strenuamente la piccola patria in cui vivono, a cui pensano di appartenere e che coincide più con un recinto che con un territorio libero. Così ci si confina nell’insoddisfazione. Si resta fermi e insoddisfatti perché si teme di non tornare, di non trovare ciò che si è lasciato e quella forza che dovrebbe rassicurarci di noi mentre andiamo, diventa paura di perdere. Cosa? Chi?

Se non riusciamo a convincere un vicino, a confrontarci con una cultura differente, se abbiamo così poca fiducia in quello che sosteniamo e che dovrebbe difendere le leggi che riguardano tutti allora cosa abbiamo creato veramente? Le domande le abbiamo dentro e coltivano la nostra insicurezza, non sono fuori di noi e sono esse che ci impediscono di capire e di vedere ciò che davvero ci attornia. Andare e tornare questa dovrebbe essere la normalità di un mondo che ha questa spinta a muoversi, altrimenti saremmo ancora un branco di ominidi dispersi tra il rift e gli altipiani etiopici.

l’assoluto è adesso

Si andava al mare. Su questa sponda dell’Adriatico. Per anni si erano frequentate le rocce e il mare cristallino dell’Istria e Croazia, poi era scoppiata una guerra e si era tornati alle solite spiagge. Sembrava una cosa dappoco, in fondo eravamo tutti civilizzati dall’ultimo conflitto, no? Eravamo europei, anche più di adesso, e in Europa non ci sarebbero state più guerre. Era un patto chiaro e semplice, tra Stati moderni e civili.

Così quanto accadeva si vedeva da distante, dal mare, che poi era lo stesso, a Barcola, a Costa dei Barbari, come a Lignano o Jesolo, si continuava a fare il bagno, a prendere il sole. Nessuno pensava che arrivasse una barca dall’altra parte, che ci fossero profughi, eppure con un buon motoscafo erano distanti un paio d’ore di mare. Però arrivavano le notizie degli scontri, gli eccidi, le bombe. Sarajevo e il suo ponte che saltava, Ragusa bombardata, Spalato, Zagabria, ma ancor più Tuzla, Skopje, Pristina, fino all’orrore di Srebrenica. Come un corpo che si risvegliasse impazzito, quella che per noi era ancora la Jugoslavia, si scrollava pezzi di carne viva e pezzi si staccavano, ritrovavano ragioni e assetti che risalivano a conflitti antichi di luoghi, religioni, di guerre tra turchi e cristiani.

Arrivavano notizie e durante l’anno s’aiutavano i profughi che s’ ammassavano in Istria e in Dalmazia, ma sembrava fosse lì lì per finire senza orrore. In fondo si relativizza anche se nei telegiornali, nelle fotografie degli inviati di guerra, l’orrore cresceva. Però la Bosnia, il Kossovo, sembravano così distanti… Come l’Africa adesso. Alcuni dicevano: sono fatti così, sono slavi. Come ci fosse un’abitudine all’atroce che riguarda alcuni e che periodicamente risale dal profondo e noi ne fossimo immuni. E così si andava al mare e non ci si pensava più di tanto. Era vicino, ma per le nostre teste tarate sui percorsi delle auto che ci portavano a quelle spiagge, sembrava tutto distante.

Anche oggi andiamo al mare e non capiamo cosa avviene sull’altra sponda, non diamo importanza, sembra non ci riguardi. Anche perché in Libia mica ci andavamo al mare, magari in Marocco o in Tunisia sì, ma quando mai in Libia. Basta restare da questa parte e poi passerà.

Noi andavamo al mare vent’anni fa o giù di lì, e si pensava finisse presto. Eravamo distanti dalla realtà più che dai luoghi, perché quella realtà non ci piaceva, come adesso, non era quella che avremmo voluto, non è quella che vorremmo. E allora bastava metterla distante e non pensarci più.

In ricordo di un uomo grande: Alexander Langer. Perché per essere uomini bisogna vedere e capire e lui non si rifiutò mai di farlo.

sterminata l’estate e il mare

La vacanza sembrava infinita. Non c’era una percezione del tempo, si procedeva sino a sazietà e il penultimo giorno era come il primo. Non si tornava mai prima di una fine naturale. Finiva agosto, finiva la vacanza. Erano quattro settimane precedute dall’inizio estate che pure era alterazione d’ogni abitudine e dovere, e quindi vacanza. Allora appresi il significato della parola sterminato e il suo applicarsi all’indeterminato tempo, luogo, spazio. Sterminata era l’estate finché durava agosto. Sterminata era la spiaggia che s’inoltrava tra le altissime dune, tra i fiori spinosi, tra le piante acuminate, tra i percorsi lunghissimi degli scarabei. Prima d’inerpicarsi su una cima, presa sempre di corsa perché scivolava e franava con noi, e prima di rotolarsi giù per un pendio sino al fondo di sassolini e sabbia, non c’era alcun pensiero di fine, di tempo. Era una corsa seguita da una corsa, un gioco che proseguiva in un altro perché oltre quella duna c’erano altre altissime dune, sino all’ultima da cui si apriva il mare. Messo di traverso al tramonto e più propenso all’alba, ma anch’esso sterminato e pieno di tempo, fantasia, cose. Fossero le vele o una nave lontana, i pesci enormi trascinati a riva la sera, i legni e le cose che ogni mattina faceva scoprire, fosse questo e il molto d’altro che mostrava, era comunque una piccola parte di quell’immenso che conteneva e si perdeva in una nebbiolina di calore, là, in fondo, nell’orizzonte. Incontinente il mare, ma contenuto in una testa ricciuta, in un corpo nero di sole, in un ansimare di fatiche gioiose. Contenuto, perché tutto sta dentro nella testa di un bambino, nulla è precluso e superare la paura coinvolge come il racconto che poi si farà d’essa. A cose fatte, nasce lo sterminato tempo di ciò che si potrà fare. Poi.

C’era un prima, un attendere insonne prima di partire, che faceva parte del magico rituale del lasciare, eppoi un dopo, un consumato tempo altrove che avrebbe reso estranea la porta, la scala, le stanze, persino i pochi giochi lasciati. Al ritorno la luce scemava prima, cambiavano gli odori, prima così forti ed estenuati di sole, e ora vellutati d’ombra odorosa di rosse fraganze e di frutta matura. Un senso di cominciamento, meno felice, era alle porte. Se sconfinato era il tempo della vacanza, lo straniamento del ritorno non faceva paura, casomai meraviglia. Cominciava qualcosa, e si era quelli di prima ma diversi, e ci pareva, nuovi.

la grande bellezza

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Mi racconti di come la città sia scivolata dalla speranza alla disillusione, di come la bellezza si sia velata, nascosta in sé, retratta per sdegno. La spazzatura che si accumula, la metro che si ferma, gli autobus senz’aria condizionata e l’impressione di un’ anarchia da rotta che induce il pensiero dell’abbandono. Ma chi non può andarsene, chi è affezionato alla bellezza. Chi la sente come propria motivazione, compagnia, sorella del vivere, che può fare se non oscillare tra la protesta che arrossa il viso e sbotta nelle parole poco ragionate di chi subisce un torto e la rassegnazione che, al pari della bellezza, ritrae in sé, attende tempi migliori; in fondo contando sul fatto che l’evidenza abbia infine una ragione?

Ti confesso che, distante e quindi poco addentro alla meccanica dei ricatti che indubbiamente si sono instaurati generando impotenza, sarei propenso al decidere forte, uscendo dall’infingardaggine, magari per poi pentirsi, ma almeno aver fatto qualcosa per mutare ciò che sta attorno, e quindi sé. Un paio di mesi fa, a Napoli, capitale anch’essa derelitta e conservata solo nelle parti in cui la bellezza deve mostrarsi perché evidente, visitai al museo archeologico nazionale, le collezioni classiche dei Borboni, ad essi giunte o per scavi a Pompei ed Ercolano, oppure attraverso l’eredità dei Farnese, e di quella statuaria imponente mi restò l’impressione, assieme allo stupore per tanta bellezza creata, che solo un tempo si potè conservarne l’idea del goderne, del mostrarla, dell’indicare l’assenza di misura proprio portandola a cultura, a meraviglia. Ciò che serviva ai potenti per magnificare sé, serviva poi a tutti, per cui l’appartenenza ad una città, a un luogo, a una stirpe, generava rispetto e cura, mentre ora, che in piccolissimi interessi s’era dissolta l’idea d’ essere partecipi di un tutto, emergeva una sciatteria e un disprezzo del bene comune che alla fine generava il brutto. Non è forse questa una delle idee che abbiamo della bruttezza, veduta nell’incuria di sé, della propria immagine, della possibilità d’essere anche per altri e non solo per sé? Per questo, quando mi racconti delle tue giornate faticose, sento il limite di un Paese che non trova una via d’uscita alta, che non crea un orgoglio e una cultura adeguata al tempo, ma si perde nella furbizia e nel tornaconto. Neppure i potenti sanno essere tali e si valgono di mille piccoli interessi che non sanno dominare e sono da essi ricattati. Quindi non il diritto e il giusto, ma l’abuso, il privilegio e la furbizia elargite che poi si riversano su chi è più debole e non può difendersi.

Di questo ho tristezza, come della spazzatura che si accumula agli angoli e penso che noi tutti diventiamo rifiuto nel perdere dignità, nel non usare fermezza e mano dura contro i furbi che nel privilegio sguazzano. Si corrompe un’etica, se mai c’è stata, del bene comune e con essa, dal basso, si compiono tante piccole sopraffazioni. Questo non tollero e, seppur distante, ti capisco. E sento come un ferire noi tutti il continuo non affermarsi del diritto, ma dell’abuso. Io spero ci sia una via d’uscita, lo spero per tutti noi e non per quelle frasi fatte che dicono che il pesce puzza dalla testa, ma per la convinzione che senza uno scatto d’orgoglio smotteremo anche noi in una china dove l’essere stati sarà solo ricordo e tristezza per non aver saputo, voluto, potuto.

anguriare non era un verbo

A giugno, improvvisamente, apparivano in ritagli di verde, accanto a strade che uscivano dalla città, sotto alle mura, in quello che era stato il guasto ed ora era prato senza giochi. Ancora, altre, erano vicine a crocicchi di periferia, oppure sotto agli argini dei fiumi che contornavano la città. Comunque mai in centro, erano giudicate, nella loro precarietà, poco consone ai palazzi, alle strade che avevano ricevuto innumeri passi importanti, però erano facilmente raggiungibili. Erano le “anguriare” in dialetto, e noi ci scherzavamo evocando un verbo per definire l’atto del mangiare anguria: io angurio, tu anguri, noi anguriamo, ecc. e giù risate. Le anguriare erano baracche precarie d’assi e travi, con vecchie panche e tavoli coperti d’incerata a quadretti rossi e bianchi. Allegre di bandierine verdi, rosse, blue, di carte veline ritagliate in casa, pavesate tra luci di nude lampadine. Bandierine e lampadine erano appese a fili di rame, vestiti di treccia di cotone, gli stessi delle case, e avevano l’anarchia del quotidiano tolto dalle case, con la stessa gioiosa precarietà che il moderno portava con sé.

Si arrivava a piedi o in bicicletta. Restavano aperte sino a tarda notte ed erano luogo di solitudine  o di conversazione interminabili davanti a una fetta d’anguria. Il bancone zincato, in quelle più pretenziose, oppure un piano di marmo, sotto una tettoia e di poco a lato, una grande tinozza piena d’acqua dove le grandi angurie sgomitavano e si raffrescavano per ore prima d’essere scelte, tagliate a mezzo e poi in quarti per essere consumate tra parole e silenzi, sputi di neri ossicini, pensieri,  risate. Le fette non vendute venivano messe sotto reticelle fitte che arginavano le mosche. Una parvenza di igiene dove nulla era davvero pulito, a partire dall’acqua che solo a volte veniva da una fontana vicina, ma più spesso da pozzi oppure addirittura dal fiume.

Mio zio prese il tifo in una estate molto calda in cui le anguriare fecero grandi affari. La colpa fu attribuita dai nonni, a frutti troppo maturi e a un melone che doveva essere già marcio. Fu portato all’ospedale, erano in sei in una stanza con le pareti bianchissime di calce, le suore infermiere avevano grandi grembiuli bianchi, le lenzuola erano rattoppate ma bianche e fresche di lisciva. Sopravvisse solo lui, era fortunato, lo fu sempre nella sua vita, oppure quella volta era solo più in carne degli altri. Mia madre si impressionò molto della malattia, dell’ospedale e del modo in cui si poteva morire. Lei piccola e suo fratello ancora più giovane ne facevano una simbiosi particolare. Così di quella vicenda, tragica e fortunata, restò traccia e ne maturarono divieti oscuri e scaramantici. Non si doveva mangiare la polpa rosea vicino alla buccia, meglio evitare gli infidi meloni, dopo aver consumato la propria fetta, disinfettare bocca e stomaco con un po’ di grappa. Se qualcuno fosse andato ad analizzare l’acqua  in cui venivano lavati coltelli e cucchiai per gli avventori dell’anguriara avrebbe trovato  che in quel catino dove l’acqua veniva cambiata al mattino, c’erano gli stessi patogeni della febbre tifoide che facevano compagnia alle angurie che galleggiavano nella grande tinozza. Il tifo era endemico ed ogni estate colpiva, ma per chi lo subiva o vedeva, l’aver trovato un rapporto di causa-effetto, scenografico e semplice, ne dava una prevenzione e una cura sciamanica che avrebbe reso immuni. Andava così e se le cose si sono scolpite nella memoria, e credo nei modi di trattare l’anguria, qualche forza nella parola-immagine ci deve pur essere.

Comunque frequentavo le anguriare nella mia giovinezza, nel loro rischio calcolato, nel fascino della luce fulgida e triste che le stagliava nella notte, nell’accozzarsi di persone diverse senza l’abitudine e la conoscenza dell’osteria. Ricordo la loro freschezza nella notte, i lampi veduti in lontananza verso i monti, il parlare più quieto nell’ora tarda, le prostitute che venivano a mangiare una fetta d’anguria, sospendendo il lavoro sulla strada e sui prati vicini, ricordo le sigarette scambiate a fine pacchetto, la bocca impastata di fumo e di sonno e la bottiglia di grappa che stava su un lato del bancone. Nuda, senza etichette e un tappo di sughero, un bicchierino costava più della fetta, ma ci voleva. Per disinfettare, per disinfettarci dentro da quella vita di deriva che pullulava attorno nella notte e che non aveva speranza. Noi avevamo una nostra allegria, vita davanti, passioni tutte nuove, ma loro che lavoravano in strada o già a quell’ora andavano al mercato o nei magazzini vicini a scaricare casse, che vita avevano? Solo bestemmie dette piano, e lavoro, un lavoro che consumava e niente speranza. Quella era andata negli anni in cui sembrava tutto possibile, il buono e il meno buono, e a loro era toccato questo, ma almeno il tifo non c’era più 

cosa c’è di nuovo?

Tenere bene a mente questi nomi: Germania, Austria, Finlandia, Slovenia, Estonia, Olanda, sono gli stati che diranno se si potrà trattare con la Grecia. Quelli che hanno più sovranità degli altri. Tenere a mente anche questi quattro nomi: Germania, Olanda, Estonia, Finlandia: sono quelli che devono approvare l’accordo nei loro parlamenti. Questi hanno ancora più sovranità. Voi pensate che un’Europa che umilia una Nazione e non ha nessun processo di unione dei popoli in corso abbia un futuro? In queste trattative non c’è stata una parola sulle miserabili condizioni del popolo prigioniero del debito, non una considerazione su chi si è arricchito, non un pensiero che considerasse sia le banche salvate che le aziende fallite, nulla sul lavoro perduto, sulla diseguaglianza cresciuta, sulla povertà acquisita.
Questa non è la mia Europa, non è quella di Spinelli, ma neppure quella di Adenauer e Schumann. Non è l’Europa dei socialisti e neppure dei democristiani che avevano conosciuto la guerra e la necessità del rispetto comune e della pace, Non è l’Europa che mette assieme ed esclude la volontà di potenza, questa è altra cosa e m’ interessa poco.
Non c’è nulla di nuovo e non s’è  imparato nulla, non siamo più vicini, siamo prigionieri. E ciò che accade non promette nulla di buono perché ogni gesto verrà ricordato, ogni umiliazione tornerà a galla. E c’è un corollario in ciò che è accaduto: chi crea un debito pubblico ha una responsabilità che non è solo politica, ma personale. L’ha già fatto l’Islanda. È una cosa nuova, ci pensi chi governa: il popolo può chiedere conto, non solo la finanza internazionale.

lasciami stare, va…

Un attentato al Cairo, le trattative segrete tra Europa e Stati Uniti su ciò che mangeremo, berremo, compreremo nei prossimi anni, la coda davanti ai bancomat della Grecia, un vecchio sconsolato che piange seduto a terra, una bambina appena salvata da un gommone che affondava e che stringe un orsacchiotto, un sindaco del nord che vieta le tende dentro una caserma perché non ci devono essere neppure quelle per ricoverare gli immigrati, la cattiveria gratuita di chi ha e che non vuole che altri abbiano qualcosa, gli occhi di una ragazza che fugge dalla Siria e quelli di un novantenne che scappa dallo stesso Paese, la rabbia che circola assieme alla violenza e colpisce gli inermi, i campi di guerra silenti che uccidono ogni giorno ma non fanno notizia, altri 186 corpi trovati a Srebrenica e seppelliti oggi, il Papa che parla della proprietà privata e traccia il limite tra essa e il bisogno, l’IS che progetta stragi e le compie ma trova sempre chi gli compra il petrolio, i morti davanti alle moschee all’ora della preghiera, i poveri che chiedono il necessario, il lusso sfrenato, la folla all’expo che parla di nutrire il pianeta ed è pieno di ristoranti, manovre di armate in nord Europa per mostrare i muscoli, persone che fuggono e che non stanno in piedi, le sofferenze indicibili e mute nel deserto, sulla riva, sulla barca, sotto a un camion, a piedi, una tromba d’aria e un uomo che dice: abbiamo perso tutto ma siamo vivi, la lettera disperata di un suicida, la follia che uccide i vicini, ecc. ecc.

Il mondo delle notizie cataloga e archivia, ma noi dove siamo in tutto questo? Cosa sappiamo di noi, cosa pensiamo del nostro futuro, mentre tutto ci accade attorno e l’inquietudine cresce?

Speriamo e vorremmo, ma cosa davvero perché questo sia il nostro mondo, la nostra realtà, il nostro presente che non s’accontenta e vuole il futuro.

libera nos

Libera i nostri occhi dal calzino bianco nella scarpa nera, dai sandali col fantasmino, dai calzoncini al ginocchio e dalle loro  gambe bianchicce e magre.

Suggerisci la libertà della noncuranza elegante che allieta l’anima e il suo trasparire.

Fa che i corpi stiano bene negli abiti senza voler dimostrare nulla.

Lascia che i colori riposino nel pantone, che gli abiti lascino guardare i visi, che la bellezza trovi se stessa senza assomigliare a chi non è.

Difendici dai pois e dai quadri scozzesi messi nei posti sbagliati.

Tieni a bada i colori forti nelle città che si sciolgono e portali in vacanza verso il mare.

Fa che i cappelli siano sbarazzini e sobri.

Difendi l’estate dei nostri corpi dal cattivo gusto e toglici dal suscitar ridicolo in chi ci vede.

Fa che lasciamo tracce leggere con le nostre parole, perché esse, come alito, se profumano di menta e di fresco, rendono più bella la vicinanza.

 

pare che i pensieri siano in fondo piccole mail

Pare che di ciò che siamo, restino a noi le cose importanti. Che sia ciò che vive in noi, che siamo noi: difficile chiamarli ricordi. Così il bello che ci è stato dato cresce e diventa parte di ciò che si è, porta verso un sorriso, oppure a un moto di malinconia, ma vive e mai lascia indifferenti. 

Pare, ma non ne sono sicuro, che mentre ci preoccupiamo del momento, chi ci ama si preoccupi di noi. Senta la notte come assenza e il giorno come possibilità quando non ci siamo.

Pare, che se mettessimo in fila i pensieri, le gioie, e tutte le piccole conquiste che abbiamo fatto sin da quando ci siamo fermati per la prima volta su quel sorriso che ci sorrideva, queste e molto d’altro, annullerebbero ogni peso, ogni fallimento, ogni sconfitta che abbiamo subito restando noi stessi. In fondo non ci perdoniamo il tradimento di quel noi che abbiamo dentro, e che è l’unica cosa che possiamo donare. 

Pare, ma non ne sono sicuro, che qualche volta ci vogliamo bene, che ci curiamo non degli altri, ma di noi e che quando succede si riesca a ritrovare, tutti assieme, il bambino, il ragazzo, l’uomo che siamo stati e ancora siamo. E pare che tutto questo dia una grande forza e contentezza, e aiuti non poco, a vedere che si può andare avanti, perché è bello farlo. Magari solo a volte, magari per poco, ma è bello e si ripete.