aleppo

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Di Aleppo ho un ricordo vivido. Mi sembrava invincibile nel suo essere una stratificazione infinita di umanità senza potere, invincibile come la storia che si legge, si vive, mentre l’altra, quella rombante, si svolge, ma è molto più fragile. Aleppo era solamente bella e così antica da essere intrisa di molte presenze.

Era stata e per questo era viva, non solo ancora viva, ma molto di più: sarebbe rimasta. La città vecchia sotto la cittadella, il suk, l’improvviso risbucare alle stelle dopo le infinite gallerie di botteghe, persone, cose. Il profumo dei fiori, della soda e del sapone, i tappeti che prima di essere colore, sono odore pesante di lana, di mani che hanno annodato, di acqua di torrente che ha lavato. E le lingue che s’intrecciavano, le contrattazioni, il lieve sentore di narghilè, di menta e di mela, i colori dell’oro che ha molti colori oltre al suo, le stoffe impilate in sequenze di sfumature infinite, un asino che attraversava la galleria. E poi, appena fuori, le case, la pietra bianca, il legno, le porte e le finestre istoriate, il sole e il caldo e poi la sera, le luci e il fresco. Ma questo era solo una parte della vita, che si mescolava nei vestiti attillati o nei volti velati delle donne, nella sensazione di identità e tolleranza. Una infinita tolleranza di chi aveva visto infinite guerre e passaggi e poteri che si erano sgretolati, ma avevano rispettato la città, la sua identità, il suo essere tutte le comunità che assieme l’abitavano. Fuori questo si vedeva per consapevolezza e nell’essenza di un commercio levantino che non conosceva religioni e appartenenze, dove il cristiano, il musulmano, l’ebreo, si mescolavano, uniti e differenti.

Appena arrivati in Syria avevo chiesto ad Hassan, la guida che era anche un Imam, di parlare di quanto stava già avvenendo. Era stato evasivo, parlava di torti bilanciati, di propaganda, di un’impotenza della forza a rispondere se non con la forza, ma ad Aleppo si era lasciato andare di più, parlando di malessere, di paura, di preoccupazione per i tempi che sarebbero venuti. Neppure lui, che pure viveva, frequentava chi poteva sapere, immaginava ciò che sarebbe venuto. Da casa, nei mesi successivi, ho conservato quel pensiero che non tutta la verità veniva dai giornali, che non si capiva bene quali erano le richieste, le forze in campo, e pur nella sofferenza che comporta sapere che chi hai conosciuto è in difficoltà, il pensiero era che si sarebbe risolto.

Mai avrei pensato che Aleppo o Damasco o Bosra, o nuovamente Hama, o addirittura Palmira, sarebbero state bombardate, che le distruzioni si sarebbero portate nei patrimoni mondiali dell’umanità, che nulla avrebbe avuto tutela. Ma se parlo dei luoghi è perché penso che essi contengono le persone, che un luogo, un monumento, senza uomini o memoria è nulla, non ha valore in sé. Poi sono venute le notizie, le fotografie, i filmati raccapriccianti e man mano, fuori, è sceso l’interesse, diventava consuetudine, normalità.

I potenti non pensano che il problema debba essere risolto facendo tacere le armi e la vittoria (di chi? per chi?) è stata affidata solo ad esse. Oggi solo i morti, se sono molti, fanno notizia per un giorno, a volte anche meno di qualche ora, ma il resto, cioè quello che dovrebbe provocare l’interesse, la condivisione, la pace, scompare con la notizia.

Il mio pensiero, in questi giorni pieni di colore, di felicità fuggevoli, di parole infinite su un futuro che mai come ora deve tornare nelle mani degli uomini, va a chi soffre in Syria, a quelli che si sentivano sicuri nelle loro case ed ora sono nell’arbitrio, a quelli che ogni giorno vivono perché vivere è più importante e piangono le persone, l’identità, che si smarrisce, ad Hassan e a tutti quelli come lui che mi hanno parlato di pace e di tolleranza, agli abitanti delle città e a quelli che nella campagna non sanno cosa stia accadendo, ma lo vivono con paura e senza speranza. Vorrei che in questa fine d’anno iniziasse, per me, il ricordo che non sono solo per me stesso a questo mondo, che tutto  mi riguarda, che se devo attenuare per vivere qui e dove sono, ciò che di atroce avviene in continuazione nei posti più disparati, questo comunque accade e il migliore dei mondi possibili devo (dobbiamo), portarlo fuori da me.

Queste righe sono di Hassan che fa gli auguri qualche giorno fa. Lui fa gli auguri a noi!

Ecco forse il significato di farsi gli auguri è condividere, mettere assieme il legame, ed allora abbiamo bisogno di farci gli auguri tutto l’anno.

ricordo spesso specialmente l’ultima sera ad Aleppo in quel caffe’ a fumare, chissa’ se riusciremo a ripetere quei fantastici viaggi. purtroppo quel caffe’ con una buona parte del suk non c’e’ piu’ solo disastro e cenere, cosi’ come molti siti villaggi e citta’ della Siria, Bosra…………………. ogni volta che ci penso mi metto a piangere, mi dispiace dirlo ma le notizie che vi giungono sono solo una piccola parte, la realtà è molto più terrificante.
Grazie al Signore che noi stiamo abbastanza bene e riusciamo ANCORA  a trovare qualcosa da mangiare.
auguro a te e tutti gli amici un felice Natale e che il nuovo anno porti amore e pace a tutto il mondo

carissimi saluti dal profondo del mio cuore
Hassan

white christmas

Le lobbie marroni, i cappotti ben sotto il ginocchio, le camicie con i colletti a punta e le cravatte regimental di seta. Attorno tante luci, candele, scarpe nere che si imprimevano nella neve, suoni. Bing Crosby, white christmas, alberi enormi davanti al camino, pacchetti con fiocchi e carta translucida.

Qualcosa mi è sempre mancato all’appello, la soddisfazione piena era un attimo e già sembrava un’impressione. Nei giorni di vigilia, l’immagine americana del natale, qui a nord, veniva tenuta con il dito medio che agganciava il nastro del panettone Motta o Alemagna (io preferivo il Motta), c’erano saluti frettolosi per il gelo, mucchi di neve, chiazze di luce ben distanziate, sotto i lampioni. In periferia un freddo che faceva rintanare nelle case, finestre con luce gialla che si chiudevano al tramonto, fango, tanto fango, dappertutto.

In centro, i negozi erano pieni di luce sotto i portici. Ero contento di abitare in centro, ascoltare gli zampognari, e anche solo vedere i giocattoli era un vantaggio rispetto alla campagna che non aveva né luci, né negozi, né vetrine. Anche la neve si sporcava prima in campagna. Quindi se  non mi piaceva white christmas, me la facevo piacere nell’ illusione di una felicità incipiente.

Insomma ero già contento, ma mi sfuggiva qualcosa, come se l’assomigliare, nella testa, alle immagini patinate dei giornali o della pubblicità, non fosse sufficiente per essere felici. Non capivo che tutta quell’iconografia era la continuazione di babbo natale dopo la rivelazione che non c’era, che non esisteva un italian way of life, che le immagini erano la cornice, ma la storia la dovevo scrivere io. Ecco questo non me lo spiegava nessuno: sembrava tutto fatto ed invece era tutto da costruire. L’ho capito poi, ovvero quasi ci sono riuscito, ma qualcosa manca sempre all’appello.

il senso del menare il can per l’aia, ovvero Enigma vs Colossus

Difficile e predittivo l’inizio, diceva la mia insegnante di lettere, poi il resto è opera d’artigiani del pensiero logico. Ed io facevo inizi folgoranti, salvo poi seguire le mie fantasie per pagine tortuose. E’ questione di pazienza, le dicevo, se si legge abbastanza magari non si coglie il senso dello svolgimento rispetto al tema, ma quello della testa, sì. ( Non mi pareva vi fosse eccessivo interesse per la mia testa). Mi consolavo, pensando che le migliori cose sono quelle fuori tema e visti gli insuccessi del folgorante, ero passato all’inizio ansante, quello che sembra un cagnone fermo un poco enfisematico, un inizio senza corsa, fatto di pennellate rapide, convulse, come se il passato fosse davvero già avvenuto, mentre chi scrive sa bene che il passato è davvero avvenuto solo quando lo si è scritto, prima è una sequenza di fatti, di frames a cui non essendoci un filo logico (il filo è sempre nel futuro, perché lì si capisce cos’ è accaduto davvero), solo la logica delle parole può dargli un senso. Insomma io scrivevo storie che promettevano molto e poi menavano il can ansante per l’aia. Non mi capiva nessuno, neppure l’insegnante di lettere, che pure mi elargiva bei voti d’incoraggiamento e mi diceva, ma cosa volevi davvero dire? Io facevo il misterioso, alludevo, le parlavo della festa della sera prima e di quella della sera dopo, così lei capiva che ero festaiolo e un pochino m’invidiava, perché diceva, bella età, ma poi i nodi vengono al pettine. 

Ecco questa dei nodi che vengono al pettine mi è sempre parsa una partenza fulminante, per niente scontata, perché per me era il pettine che veniva ai capelli, ammenocché non essere un aspirante milite e mettere il pettine fisso e la testa mobile per pettinarsi. Faccenda questa dei nodi anche un tantino pericolosa, io avevo i capelli ricci e i nodi si scioglievano passandoci le dita aperte, ma forse si trattava di nodi più difficili e dolorosi rispetto ai miei, e se per caso cadevamo nella configurazione topologica gordiana, la cosa diventava critica, un qualsiasi Alessandro il grande, con un colpo di spada scioglieva il nodo, ma si sarebbe fermato a tempo? Ecco, queste cose mica le potevo spiegare alla mia insegnante di lettere, al massimo potevo dirle che il pettine Alessandro non mi piaceva e subire il rischio che ancora una volta lei non capisse nulla di quell’allievo che molto prometteva e nulla manteneva,

Fu così che determinai da allora che in ogni storia che si rispetti, anziché mettere in premessa ciò che poi sarebbe venuto, l’inizio sarebbe stato un parlar d’altro, e che il senso l’avrei criptato e nascosto tra le  frasi del testo successivo. Pezzetti d’una storia che non finiva in un comporre chiuso, ma diveniva una sciarada che continuava a svolgere il suo senso. Devo dire, sommessamente, per chi avesse capito l’andazzo linear circolare dello scrivere, che mica ne posseggo la soluzione, al massimo ne intuisco il divenire. Turing, genio assoluto e co inventore con Newman di Colossus, la macchina per decrittare i codici che i tedeschi creavano con Enigma, mi avrebbe sputtanato in un attimo e m’avrebbe raccontato per filo e per segno la storia, quella che ancora non so come vada a finire, ma la mia insegnante non era Turing, era bella e discuteva volentieri, per questo perdeva il filo del discorso. L’avessero saputo i nazisti, l’avrebbero utilizzata subito, non si sarebbe capiva molto del messaggio, però era un bel vedere. Lei spiegava benissimo, molto e d’altro, ma chi m’affascinava era Gadda, chi volevo essere era Boccaccio, per via degli ormoni giovanili applicati alla letteratura, entrambi mi sembravano perfetti.  Glielo dissi, lei mi rispose che c’erano altre sorprese nella letteratura. Non le credetti che al 78%,  finché non scoprii Calvino. Lui non lo sapeva, ma alla stregua di Borges e della riscrittura del Don Chisciotte, la lezione di “una notte d’inverno un viaggiatore” io l’avevo già svolta, solo che non l’avevano capita.

Il segreto si nasconde nei dettagli, parimenti al buon diavolo, oppure nella pancia dove sembrano dormire le parole, e il rasoio di Occam serve a far la barba, l’inizio è solo un inizio a cui se ne sovrappone un altro, così in sequenza perché se è vero che se si vuol sapere dove vuole arrivare questo scemo (Totò), ci sarà sempre uno che capisce e dice: ma mi faccia il piacere (idem).

il parente

Era fuori luogo vantarsi dei figli, o degli altri parenti prossimi, la discrezione e il tener serrato l’orgoglio faceva parte dell’educazione. Era un eccesso, i figli crescevano con l’idea che nulla o quasi fosse sufficiente, che ci fosse sempre un obbiettivo più in alto da raggiungere, che la considerazione delle madri e dei padri fosse surrogata dall’amore, quello magari non mancava, ma i risultati erano altra cosa. Quindi mai fermarsi, mai essere contenti, cercare di eccellere, poi dipendeva dalla riottosità di ciascuno, dall’indole, come si diceva allora. E quella, l’indole, a ceffoni o altre punizioni, si correggeva. Era troppo, ma non guastava quella discrezione che teneva nel circolo delle parentele e degli amici l’evidenziare i meriti, con qualche mezza parola, qualche apprezzamento. L’ostentazione era espressione di volgarità. A questo sfuggiva il parente, da citare come esempio, e a seconda di chi comandava c’era sempre un congiunto, più o meno lontano, da ascrivere alla parte in auge nel comando. I nonni e i padri socialisti, furoreggiavano, anche i liberali, però vecchio stampo si sottolineava, non mancavano. Una curiosa prevalenza di ascendenze che, vista la frequenza, di certo avrebbe dato a queste formazioni politiche la maggioranza del paese, ma visto che non era stato così, forse tutti questi padri pensavano ad altro, Più occulti, c’erano quelli che, nel cuore, erano sempre stati da quella parte, non importava quale, ma da quella parte, quella dell’interlocutore, ed era quella che li aveva sempre guidati. Anche nel segreto dell’urna, certo. Misteriosamente assenti, o espunti, i fascisti. Strano per un paese che nel 1940 aveva 75.000 antifascisti censiti dall’Ovra e il resto? Probabilmente allora, come adesso, l’antipolitica e l’indifferenza erano la vera maggioraanza del Paese. Ma di queste cose si parlava poco, casomai c’era la piazza per manifestare la curiosità e la presenza politica, a volte il bar, l’osteria, le case erano più riservate.

Sui successi familiari prossimi, c’era il riserbo, anche la scuola veniva derubricata nel: va bene, è stato promosso. Le bocciature erano un’onta, non un’occasione per capire di più, quel figlio riottoso. Era importante non mostrarsi troppo e il non vantarsi, era un bel tratto di non chalance, di stile. Forse per questa educazione, anche adesso, mi disturba il parente esibito, l’ostentazione che spesso dietro l’ illustre, riscatta i tentativi maldestri d’essere poco riusciti. In fondo è facile trovare schermi esterni e senza scavare troppo, tutti abbiamo di chi gloriarci gratis, anche se trovare chi ha fatto del bello, oltreché del buono, magari, è più difficile. Basta? Noi, di quali glorie discutiamo con noi stessi, cosa vorremmo davvero esibire? Nell’epoca dell’autostima, delle prestazioni incrementanti, vendersi bene fa parte della considerazione di sé, ed invece l’intraprendere silenzioso è messo in disparte. Sarebbe bello dire pianamente ciò che si è, non richiamare alle armi i parenti che hanno fatto quello che noi volevamo fare, mostrare la fatica, le mani, i sogni sognati e affermare sollevati: ci provo, vivo, a volte m’è piaciuto.

tilt

Il dottore la prendeva mettendole le mani ai fianchi, lei ferma sulle gambe e lui, sinuoso, muoveva le anche, la assecondava, con le spalle che assumevano un ondeggiare di danza. Non si girava mai, a volte si stendeva su di lei, alla fine soprattutto, e l’impressione era quella di un rapporto intonso, esclusivo. Il dottore, studiava medicina, giocava malamente a poker, fumava e tossiva molto. Il suo amore per il flipper era assoluto, e nel flipper versava gran parte del suo mensile di studente fuori sede. Eravamo in tanti innamorati di quella macchina, ma non con lo stesso trasporto e infatuazione, Il nostro era un amore a singulti, alimentato dal fascino sensuale che partiva dall’immagine, dal cinguettio dei rimandi elettromagnetici, dalla neghittosità che la pervadeva nell’essere violata. A noi piaceva vincere subito, di forza, e si vinceva una o più giocate, per il dottore, invece era un coito che aspirava ad essere perennemente sospeso. La sua passione era condurla sino ad un momento prima del limite che sospendeva la partita, il tilt, come fosse una questione di danza, di movimenti accompagnati. Nel bar c’erano due flipper, lui giocava sempre con lo stesso, quello che aveva una bella ragazza in mostra, vestita da cowgirl, con le luci in posizioni strategiche. Quando si giocava a poker, i flipper disturbavano, spesso li staccavamo, ma se c’era lui, ci si adattava. Credo per rispetto e per imparare. A volte si sospendeva la partita per guardarlo. Chi ha giocato con i flipper elettromagnetici mi capisce, non era solo questione di rimandare una bilia d’acciaio con le palette, ma di controllarla, accompagnarla facendola partire per trajettorie diverse. L’abilità consisteva nel far scorrere la bilia sulle palette sino al punto giusto e poi farla schizzare. E il sogno era che i funghi, si illuminassero a ripetizione suonando, che la bilia restasse imprigionata in un gioco di rimandi, che oltre ai punti, vorticosi di suoni, le trajettorie la tenessero in gioco. In eterno. Il dottore era un asso, nel trovare un accordo con la macchina, nel far volare quella bilia, tra funghi, ostacoli, molle, lampadine, elettromagneti, come fosse sospesa, fermando il tempo, mentre tutto avveniva con una velocità incredibile. Raccontavano di tarature delicate dell’interruttore del tilt, e pareva l’aggeggio, fosse una goccia di mercurio sospesa tra due  contatti, che chiudeva la partita, se agitata troppo, quindi bisognava muovere la goccia, senza vederla o sapere dov’era, sino all’ attimo prima del contatto. E si diceva, che per lui, per il dottore, dovessero tarare ogni volta con più precisione, per impedirgli di vincere troppo spesso. Favole da bar, quel che è vero, è che lui ci parlava davvero con la macchina, a bassa voce, non con le nostre imprecazioni, con gli scossoni e i pugni, lui, aveva la macchina sui polpastrelli, sui palmi, nella testa e la muoveva con forza gentile, suadente. Preso, presa.

Tilt è stata la prima parola inglese di cui ho capito davvero il significato profondo. Mi è tornata in mente, qualche giorno fa, quando ho letto della morte da centenario, di Steve Kordek, uno degli inventori del flipper. Era una parola, allora, molto usata per definire uno stato in cui spesso precipitavamo davanti alle difficoltà, ma non era definitivo, era un momento e poi la partita ricominciava. Anche nella vita, cosa non da poco.

Il dottore si è laureato, un po’ tardi, uno sfigato direbbero adesso, ha fatto il cardiochirurgo, il primario. Mi piace immaginare nella sua casa, un vecchio flipper in soggiorno e che le sue mani abbiano ancora lo stesso amore.

‘a frito’a

A fine gennaio, veniva preannunciato con piccoli conciliaboli di donne: se fa doman dopo pranso, bisogna ‘ndare comprare pinoi, uveta, sedrini ( si fa domani dopo pranzo, è necessario comprare…). E mia mamma o mia nonna compravano pinoli, uva passa, cedrini e lievito di birra.  E noi capivamo che si preparava la gioia vera del carnevale. Era l’altro versante delle mascherine di cartone portate sul viso, dei coriandoli sul cappotto, delle stelle filanti multicolori, di tutto quel fingere dei bambini votato all’esterno, alle corse, al fatto di non vedersi davvero, ed invece essere ciò che ci pareva, quell’essere altro che cessava sulla porta e mutava in casa, perché il carnevale continuava con i grandi e i piccoli assieme a tavola davanti alle frittole, o meglio in dialetto: ‘e frito’e.

La ricetta di casa era quella veneziana modificata, conservando quel tripudio di uva passa, cedrini e pinoli che venivano incorporati nell’impasto di farina, zucchero, lievito, un rosso d’uovo e un bicchierino di grappa (e qui interminabili discussioni se aggiungere o meno il latte), lievitati e lasciati riposare la notte nella terrina coperta vicino alla stufa.  In campagna, e anche a Venezia, ‘e frito’e si friggevano nello strutto fresco del maiale macellato a dicembre, spesso mescolato con dell’olio di semi. In città, da noi, solo nell’olio. Era una magia vedere che da un cucchiaio di pastella prendeva forma una palla che si gonfiava, prima bionda e poi bruna, rigirata e tolta prima che scurisse troppo e messa su carta paglia ad asciugare. Spolveravo di zucchero grosso, e mangiavo ancora bollente. La nonna mi allontanava con una frittella per mano, le frittelle dovevano aspettare i grandi. Solo a volte si mangiavano calde, ‘a fritola xe bona calda, e giù che i grandi ridevano, noi non capivamo visto che eravamo gli unici a mangiarle appena cotte e ci chiedevamo perché non le facessero al pomeriggio per gustarle calde. Allora spiegavano che non si poteva, sia per la quantità e le attese, perché era bello offrirle e c’era il problema dell’odore di fritto da non regalare agli ospiti A noi invece lo regalavano l’odore ed eravamo felici portatori de spussa de fritoin,  che ci avrebbe seguito su abiti e cappotti per un paio di giorni. Mica mi dispiaceva, pur zitto, l’odore avrebbe testimoniato al mondo che avevamo mangiato fritole e galani.

I galani, erano un complemento, rispetto alla regina frito’a, (la frittola era il dolce veneziano per eccellenza, diffuso dall’Istria a Milano, aveva seguito la Repubblica e la confraternita dei fritoini, che diventavano tali e potevano smerciare il fritto solo per diritto dinastico, ma questo l’avrei saputo molto dopo ) più rapidi d’impasto, tirati sottili come sfoglia da tagliatella, tagliati a rombi e fritti in poco tempo, subito tolti e messi a cedere anch’essi olio alla carta e spolverati di zucchero.

Due scuole di pensiero si dividevano nel pomeriggio arroventato dalla stufa ben carica e come per le permutazioni, si frangevano in molte varianti che consideravano con convinzione od orrore le alternative. I veneziani non mettevano latte e uova nelle frittelle, vino bianco al posto della grappa, ma noi eravamo di terra, non d’acqua, da noi esistevano, sia pure in campagna  galline e mucche e vigne, per cui, sia pure i quantità modiche, venivano aggiunti tutti questi ingrdienti, quasi a dispetto dei veneziani che avevano tolto la libertà ai padovani 500 anni prima.

Anche i galani (qui la grafia dialettale è inesatta, la tastiera non soccorre perché servirebbe la l tagliata essendo aspirata, e poi ci sono posti dove si aspira di più e altri meno, per cui grande è la confusione sotto il cielo piccolo del Veneto,  ma un veneto non dice galani, ma ga’ani e così fa scoprire da dove proviene), finché si gustavano, suscitavano discussioni non da poco, e c’era chi apparteneva alla scuola della bolla piccola e fitta su pasta sottile e invece altri di parere opposto che sostenevano la bolla grande e friabilissima su pasta leggermente più grossa, infine altri ancora invertivano lo spessore della pasta con le bolle di preferenza. Si diceva, se ciacolava per asserzioni, più che per opinioni.

Su queste discussioni e molto d’altro si perdevano i grandi, io asciugavo l’olio delle dita, sui quaderni e sui libri di scuola e nell’unto da ceffoni perdevo me stesso.

p.s. allego la ricetta di casa:

250 g di farina 00

15 g di lievito di birra

50 g di uva passa ammollata nel latte

50 g di pinoli

una manciata di cedrini (questa cosa della manciata mi piace, facciamo 50 g per capirci)

poco zucchero, 50 g sono sufficienti

un rosso d’uovo

scorza di limone grattuggiata

un bicchierino di grappa

Si scioglie il lievito in acqua tiepida assieme allo zucchero mescolato con il tuorlo d’uovo, si aggiunge la grappa e la farina con poca acqua. Si mescola a lungo finché le bollicine in superficie ci dicono che sta lievitando. Si lascia riposare coperto in un luogo caldo. (a casa mettevano la terrina vicino alla stufa tutta la notte)

Quando è lievitato bene, circa il doppio del volume, si incorpora l’uvetta, i cedrini il limone grattuggiato, i pinoli e il poco latte dell’ammollo, si impasta tenendo la pastella abbastanza fluida. Si frigge in olio bollente lasciando colare a cucchiaiate, si gira e quando è marrone non troppo scuro si toglie e si scola su carta assorbente. L’abilità è il cuocere dentro e fuori senza bruciare.

A casa si spolverava con zucchero grosso, adesso si preferisce lo zucchero a velo, a me piace quello grosso.

foto d’interno con famiglia

Quasi tutti hanno gli occhi chiusi o altrove. La macchina fotografica è entrata nella casa, già ha modificato i rapporti tra l’apparire e l’essere. Atteggiarsi è più importante per dare misura dell’essere consoni al ruolo. Ognuna di queste persone ha una vita propria diversa. Siamo in Spagna, prima della grande guerra. L’interno è quello di una casa borghese, già si è superato il limite dell’affetto ottocentesco, il lei appartiene più ai genitori che ai figli. Il giovinotto segna il distacco pur mantenendo il legame. La posa, la camicia con il colletto rigido , il panciotto dal taglio elegante, lo fanno più adulto e un po’ zerbinotto. Ha già avuto le sue esperienze, i suoi amici lo attendono al caffè, è in apprendistato per il vivere.  In Spagna ci sono i casini, i circoli dei borghesi, dei nobili, della caccia e via dicendo, ma fa fatica ad espandersi il cabaret, soprattutto in provincia. La ragazza si affida alla casa, ai genitori, le troveranno un marito, ma i suoi occhi diretti, gli unici che guardano l’obbiettivo, fanno presupporre una ingenuità, mista a coraggio. Forse il marito lo proporrà lei, anzi il pensiero è già presente. Si esce di casa presto, per maritarsi e per riprodurre l’agiatezza da cui si proviene. Lo status è un contenitore in cui le vite si sviluppano, un incubatore. Sopra l’ottomana, simmetrici ci sono i ritratti dei nonni, probabilmente entrambi morti, sono numi tutelari del ricordo di ciò che si è. I genitori sono intorno ai quarantanni, forse più giovani considerata l’età dei ragazzi, ma già molto maturi entrambi, infagottati negli abiti che diventano corazza verso gli altri e verso se stessi. I mobili, la tappezzeria, l’ampiezza della stanza e le suppellettili, testimoniano una condizione agiata. Adesso possiamo chiederci quali pensieri si aggirano nelle teste, quanto il fotografo abbia celato nel mestiere e quanto abbia lasciato trasparire nelle pose, nella noncuranza del marito sul bracciolo, nel comporre un ritratto rassicurante, che si avvicina più a quella del pittore che a quello di chi ruba lo sguardo e il lampo di pensiero. C’è un’apparente calma e unità, ma avverto una tensione che diverge, ogni persona ha un obbiettivo proprio. Quella che sembra con meno futuro, ovvero con un presente solido da riprodurre, è la madre. E’ ancora nell’altro secolo e la figlia cerca in lei l’affetto, non lo specchio. I due uomini si stanno rincorrendo, il padre tiene a bada, ha un buon controllo della situazione familiare, il figlio avrà le libertà che lui deciderà. Complessivamente l’affetto circola, non sono assieme per caso, la fotografia deve testimoniare un’unità, un come eravamo che sia esemplare. Se ci riesca o meno poi ognuno è libero di pensarlo. Mi interessano i pensieri, li sento tutti diversi, l’unità è il vincolo familiare, ma le vite divaricano. 

storie: tre

Era una zattera, una immensa zattera fatta di materassi e noi eravamo stati su una nave che ricordavamo, ma che era lontana nel tempo e nello spazio. Eravamo caduti dalla nave e finiti sulla zattera, approdata in quel magazzino gelido in cui non c’era nulla da fare. Avevamo contato i materassi, erano centinaia, impilati l’uno sull’altro, fin quasi il soffitto, per decine di metri di lunghezza. Dopo pranzo salivamo sulle pile, avevamo fatto una scala spostando i materassi, e dormivamo. A 5 metri da terra, immersi in un freddo che non aveva fine, seppelliti di coperte che non scaldavano, dormivamo. Non c’era nulla da fare, solo il bujo ci poteva riconsegnare alla vita comune, e dormire era un modo per far passare il tempo. Scendevamo dalle pile quando il freddo aumentava, il tetto era pieno di buchi e topi, e tirava assieme, aria, squittii e fumo. Quello nostro e quello della stufa. Allora scendevamo e, noi quattro, intorno a una stufa arroventata, bevevamo thé. Non ho mai bevuto così tanto thé in vita mia, a litri, per scaldarci, in bicchieri di vetro. A volte facevamo il caffè, con la stessa cuccuma. Teneva un litro e mezzo, era rossa, smaltata, smalterie di bassano, come quella che avevo a casa quando ero sulla nave. Il caffè veniva aggiunto a cucchiai, lo rubavamo in cucina, e poi bolliva a lungo e noi bevevamo, aggiungevamo acqua, bolliva e bevevamo. Per la stufa, andavamo a rubare legna e carbone lungo la ferrovia, appena oltre the wall, erano travi da segare, antracite che faceva un fumo terribile, tutto trasportato a mano, accumulato tra i materassi, nascosto. Mi pareva di essere in un campo di concentramento, ma non era vero. La sera potevamo uscire. Eravamo solo caduti dalla nave e su quella immensa zattera di materassi, dovevamo navigare durante il giorno. In due mesi avevo prodotto un foglio dattiloscritto, era già troppo. E lo stile non era dei migliori, ma mi sarei fatto, disse il maresciallo, perché i concetti c’erano, le doppie pure, erano le virgole che erano poche.  Da lì capii che la vita era a singulti, per frames talmente brevi che le storie dovevano aprirsi e chiudere nello spazio di un oggetto. Erano quelle storie e quelle vite che mettevo accuratamente a lato, che espellevo da me in continuazione. Io non ero lì, non ero in quel posto di detenzione con libera uscita, potevo volare, essere sulla nave da cui ero caduto e che sarebbe tornata. Asylum, era un libro di cui discutevamo, potevamo farlo, in fondo non eravamo lì per caso. Forse sembrava a noi, ma in realtà esistevano i reparti disciplina. C’erano troppe coincidenze. Eravamo tutti vecchi, come si poteva essere vecchi a 24 anni allora, tutti soldati semplici per scelta, comandati da ventenni. Confrontando le storie, emergevano assonanze, quasi tutti studenti universitari, alcuni sposati, qualche disertore riacciuffato. E noi quattro, che rappresentamo mezza Italia, ma dello stesso colore, dovevamo rigare diritto. O arrangiarci. Noi c’eravamo rifugiati sulla zattera di materassi, altri nuotavano altrove. Una vita parallela così forte non l’avevo mai conosciuta, con regole che mutavano le visioni del mondo, violenze strane ed assurdità che diventavano normali. Per questo si parlava di Asylum, anche se bastava varcare il portone per essere fuori. Ma non eri fuori, la diversità ti seguiva, non eri più come gli altri.  Da qualche parte facevo il 5° anno di ingegneria, da qualche parte ero sposato, da qualche parte mi interessavo di sociologia e del mondo che mi stava attorno, forse ero lì per questo, oppure non c’era un nesso tra le cose. Continuavo a chiedermelo, mentre mi mandavano altrove, sul confine orientale. Il freddo mi seguiva ovunque, anche nella nuova fortezza Bastiani. Ero diventato strano, con una doppia vista, vedevo tutto dall’alto e da vicino ed era insieme grande e piccolo, vetrino e ricercatore. Non andava bene, quando tornavo non mi riconoscevano del tutto, capivo che per sopravvivere dovevo ritrovare la nave od almeno imparare a nuotare. Era il mio primo naufragio, e se lo ricordo ancora così intensamente, è perché, parlando tra noi, ci salvammo con fatica, quasi tutti. 

Non so gli altri, ma sentivo che qualcosa era finito, e non sarebbe più tornato. Ed era davvero così.

storie: uno

Io che scrivo di notte, non sempre ho le idee chiare, e quanto ho scritto è lungo e neppure finito, quindi arriverà a puntate, e chi avrà pazienza, memoria e intuito rimetterà assieme il tutto. Forse.

La comincia così: avevo quasi 10 anni, li avrei compiuti dopo poco. I miei (le donne dovrei dire), mi lasciavano andare da solo ai giardini grandi. Quelli dell’arena, dove c’è Giotto. Io c’ho giocato in quella chiesa, voglio dire dentro, tra gli affreschi, e anche tra le rovine degli Eremitani dove era andato a pezzi il Mantegna, c’ho giocato per anni, ma questa è un’altra storia. Lungo la mia strada per arrivare ai giardini, c’era un palazzo nuovo che aveva sostituito una fila di case basse. Erano case belle, lungo il canale, come la mia, ma vecchie ed ormai fuori dell’idea di città che nasceva. Questo nuovo, era un palazzo alto, con un portico grande, pretenzioso. Il pavimento del portico era a tessere di mosaico multicolori. Nessuno aveva un pavimento così all’esterno e non era possibile giocarci evitando le commessure e neppure scriverci col gesso, ma si poteva correre e poi scivolare sulle suole e pensare all’estate che già invadeva la fine del maggio. Tutto era così nuovo, la libertà di andare, il primo caldo, la città che mutava, che si poteva lanciare il pensiero assieme alle gambe. Anche a quel fratello che era più grande e si prendeva tutte le palle che ti venivano regalate, oppure agli amici che avresti trovato ai giardini, alle corse, al sole nuovo nuovo, al compleanno. alla scuola che finiva. Si poteva pensare che i giochi del pomeriggio erano ancora intonsi, nuovi da scartare, come il panino in tasca. E si poteva cantare. E stavo cantando, cambiando le parole, mentre scivolavo sul pavimento a tessere multicolori fino a fermarmi di colpo. Un pensiero nuovo si era fatto strada e non assomigliava a nulla di pensato prima: ero felice per tutto quello che sarebbe successo, ma era finita la mia fanciullezza. Non ero più un bambino e la vita non sarebbe più stata solo giochi, piccoli doveri, amore dei miei, coccole e ceffoni. Sarebbe stata altro che allora non capivo, sentivo però che era finita e il dopo avrebbe avuto più peso, più responsabilità. Questa consapevolezza non mi avrebbe più abbandonato e il gioco fantasia/responsabilità avrebbe visto una natura prevalere sull’altra. Successivamente a questo ci sarebbero stati almeno altri quattro momenti altrettanto importanti e ogni volta la stessa consapevolezza che qualcosa finiva mentre altro iniziava. La differenza rispetto a quel primo momento fu che i successivi non sarebbe avvenuti perché era ora, ma perché altro li avrebbe determinati. Ma questo lo capii poi.

In quel pomeriggio di sole, sotto quel portico che percorro ancora, ci fu un bivio ed io presi una strada, che con tutte le sue svolte non è mai tornata indietro e non ha mai avuto altro bisogno se non il riconoscerla come propria. Ma quel roberto, allegro e ricco di immaginazione, che pure c’era ed era ben lieto di uscire allo scoperto non era chi pensava di essere in quel momento. C’era, era una parte, ma non era tutto e così ho accettato di divenire un cantiere, una costruzione con due nature. In fondo tutti assomigliamo a palazzi importanti, così è per noi almeno, con una facciata che dice chi siamo a quasi tutti gli altri ed un cortile in cui far riposare carrozze e cavalli e che ci parla di noi a noi stessi. L’importante è che la distanza tra queste due nature non sia troppo grande, che l’una non racconti cose che l’altra non tollera. E qui mi fermo, la storia continuerà, divagando e senza pretese di obbiettività.

la rotta

E’ uno dei primi ricordi di cui mi resta memoria, segno che scavò un suo posto senza bisogno di ragionare. C’era un muro di sacchi di sabbia  tutt’attorno la cappella degli Scrovegni. Appena dietro, un lago d’acqua enorme, mai più veduto, che invadeva il teatro dei miei giochi di bambinetto. Con mia nonna, aggirammo il parco, passando sul ponte del corso, guardando attoniti, l’acqua invadeva l’intera luce delle arcate, fin davanti al teatro, sulla riva opposta. Di lì si vedeva l’acqua tracimata, il fiume interno che si era creato invadendo prima la “maresana” e poi le mura. Quelle mura avevano retto alla lega di Cambray ed ora erano impotenti, ma io mica lo sapevo, mi pareva così meraviglioso e naturale che ci fosse tutta quell’acqua grigio/marrone con chiazze arcobaleno, che correva ed allungava le dita, invadendo erba e pietra. Sciacquava piano, senz’onde quasi, e correva dove di solito io correvo, riunendosi più a valle, in posti in cui la nonna non mi lasciava mai andare. Era libera quell’acqua, più di me. Di tutto questo mi è rimasta l’immagine fotografica, il senso di stupore e le parole concitate dei grandi. La sera, a casa, la radio parlava del Po, della preoccupazione che era quasi una invocazione, una preghiera: basta, prima la guerra, poi la miseria di questi anni difficili e ancora disgrazie, basta. Non c’erano punti esclamativi, rassegnazione piuttosto. Quella notte il Po, ruppe, tracimò, invase, uccise, spostò popolazioni già provate in un esodo che per molti non ha avuto ritorno. Si riempirono le campagne e le città, di povera gente, donne, bambini, uomini, per lo più braccianti. Sfollati, loro che avevano accolto durante la guerra, chi fuggiva dalle città, erano adesso, erano ospiti d’altri. Si aprì una catena di solidarietà che coinvolse l’intero paese, anche noi demmo qualcosa, tra poveri ci si capiva allora. Per molto tempo la ferità divenne l’incubo annuale delle piene d’autunno. Poi, come accade per i disastri e le guerre, la memoria degli altri rimosse, coinvolta da nuove sollecitazioni e disgrazie, come se ciascuna disgrazia non fosse un problema a sé. Ne sanno qualcosa gli abitanti dell’ Aquila, che anche senza terremoti scompaiono dall’attenzione comune. A sessant’anni da quella che fu la più grande alluvione del Paese non c’è sicurezza che non possa riaccadere, ma forse non è neppure questo il problema maggiore. La tragedia ulteriore è la rimozione dell’accaduto, del dolore e del rivolgimento sociale che ne conseguette. Molti polesani andarono in Fiat, in Falk, nelle grandi fabbriche del nord, molti diventarono altro da sé, spinti da una forza che non aveva mediazione umana e quello che mi chiedo, anche in questi giorni in cui i giornali non hanno ricordato, e solo radio tre, si è cimentata con l’analisi e la memoria, quanto pesi non avere una memoria collettiva che tenga il disastro e la solidarietà, i singoli e la collettività nel nostro essere uomini. Tutti i giorni uomini, non solo quando qualcosa ci tira per i capelli.

Era il 14 novembre del 1951.