Ciò che è accaduto appena pochi giorni fa, ovvero una indicazione partitica non coerente su quale governo vogliano gli italiani per il Paese, non può nascondere che il dato del cambiamento è maggioritario, seppure non omogeneo. Infatti la somma dei voti di Pd e di movimento 5 stelle è oltre il 50% dei voti espressi. Se si scorda questo la considerazione che farò sembrerà incongrua, ovvero che il Presidente della Repubblica dovrebbe rispettare l’indicazione maggioritaria espressa e non cercare di assicurare comunque una governabilità. E’ il comunque che a mio avviso fa da discrimine, perché il dato elettorale non ha detto questo e se per governare si tornerà a governi tecnici e a sottostanti larghe intese, la volontà maggioritaria non sarà stata rispettata. Le ipotesi a questo punto, diminuiscono e quella principe è costituita dall’incarico a Bersani per fargli costituire un governo che vada davanti alle camere per ricevere la fiducia su un programma di cambiamento. Non un incarico esplorativo, ma un mandato pieno che potrà essere accettato o bocciato dalle camere, nella chiarezza, davanti a tutti. Se questo governo non avesse successo, il prossimo Presidente della Repubblica, potrà proporre un governo del Presidente, per ritornare al voto, evitando che l’idea di soluzione dell’attuale capo dello Stato si proietti e condizioni, ciò che vorrà fare il prossimo tra un mese.
La governabilità, intesa come soluzione della grave situazione economica del Paese, da risolvere con il governo dei tecnici, è uscita sonoramente sconfitta dal voto e mi chiedo se la scelta fatta allora, di “responsabilità” non abbia inciso negativamente sulle soluzioni possibili, prima tra tutte quella di andare immediatamente al voto, ma anche su quelle economiche di prospettiva. Ma ciò che è fatto è fatto, sarebbe solo grave reiterare l’errore. Io credo che governabilità non significhi un governo qualunque governo purché dotato di maggioranza, come pure penso che il popolo è davvero sovrano se indica una strada e questa, con i mezzi a disposizione viene seguita. In questo colgo il valore e i limiti della democrazia, anche quando le scelte sono diverse da quelle che vorrei. Però i limiti si superano nella chiarezza, i ruoli tra maggioranza e opposizione sono chiari e le responsabilità di chi si oppone a tutto, altrettanto chiare e vuote.
C’è un’Italia che potrebbe dire ho già dato. Io faccio parte di quest’ Italia. Non è una minaccia, è una semplice costatazione di inutilità. Il mio pensiero è : non capisco, anzi non voglio più capire perché ho capito abbastanza. Mi sono fatto carico, sono stato responsabile, eppure non ho capito, non i problemi, quelli erano abbastanza evidenti, ma i miei vicini di casa, città, Paese, che dovrebbero risolverli con me. Anche i guerrieri tornano a casa, non solo i generali. Il teorema è: se torneranno a casa tutti i politici così esecrati (e neppure tanto visto il risultato di Berlusconi) ci sarà il nuovo. Il nuovo, così affascinante, liberatorio, il condono tombale sulle colpe di omissione, di disinteresse, di non aver scelto mai per un cambiamento stabile, ci salverà. Ebbene, non sono adeguato a questo nuovo immemore e se l’ho già fatto una volta di uscire dalla politica in prima linea, lo posso fare ora a maggior ragione, visto che non ho più incarichi importanti e responsabilità collegate.
Bisogna far spazio, lasciare ad altri, ancor più adesso che la confusione aumenta e la lotta non è tra vecchio e nuovo. Non credeteci, non è questo il terreno di scontro, quello vero è il confronto tra un futuro difficile e vecchio e uno illusorio, ma nuovo. Il futuro difficile è avere la propria identità in un mondo in cui gli spazi di libertà sono drasticamente ridotti dalla globalizzazione dell’economia e della finanza, dove le politiche degli stati devono assomigliarsi nella generazione del pil, dove gli uomini sono oggetto di luoghi comuni e di felicità programmate. Uscire consensualmente da tutto questo, senza spegnere il frigorifero sine die è cosa difficile, ma non è impossibile, solo che ha bisogno di tempo ed è davvero poco affascinante. Però la domanda di quanto del nostro sviluppo risenta da questo inseguire un benessere fatto di cose e denaro e come questo generi poca felicità (termine abusato e spesso confuso con il benessere), c’è anche tra chi persegue il futuro difficile. Ma alla fine sono (siamo) noiosi e speso tristi, insomma poco appetibili.
Altra risposta ai problemi attuali, è quella che considera l’alternativa radicale dell’uscire dal mondo così com’è, come scelta di massa: sviluppo zero, eliminazione del passato, moralità della politica (un po’ meno di attenzione riceve quella collettiva e personale). Questa alternativa la possono predicare bene i milionari, fanno più fatica gli altri che sono ancora alle prese con un posto di lavoro, con un reddito che consenta la dignità, con un futuro che, pur precario, abbia in sé una qualche stabilità. Ma mi rendo conto che sono parole vuote, non ce l’ho con nessuno, al più con me stesso, per non aver capito per tempo che era fatica inutile. Devo anche dire che neppure mi diverto ad aspettare il cadavere del nemico, sta arrivando la buona stagione, i campi, il mare sono così ricchi di colori che non guardarli per chiudersi nel brucior di stomaco dell’ aver ragione è davvero una perdita di tempo.
Se non si partecipa non se ne accorgerà nessuno, non è triste pensarlo, è solo realistico. Bisogna vivere, guardarsi, oltre che guardare, sentire ciò che ci fa bene. Allora il gioco può non divertire più, si buttano le carte e si sceglie un altro gioco. Per chi può farlo è buona cosa e gli altri? Cazzi loro.
La mia generazione è cresciuta con l’educazione all’utile. Lo spreco era aborrito per penuria, quasi tutto veniva riusato fino a consunzione. Strano che un popolo abituato a vedere l’eccesso come un segno di maleducazione e sguaiataggine, si sia riconvertito allo scialo anche di se stesso e delle proprie convinzioni oltre che degli oggetti.
In tempi di nuova penuria, gettiamo via di tutto e di più e le nostre case sono sempre troppo piene. Non voglio però soffermarmi su questo, perché è un mio cruccio irrisolto, mi basta non buttar via me stesso, ma ciò che mi attrae è proprio l’idea dell’utile. L’utile vale ovunque, nell’intelligenza, nella politica, nelle relazioni, nell’amore. Qual’è l’amore utile, ad esempio? Direi di primo acchito, quello che ci muta, che indipendentemente dalla felicità che genera, ci porta verso un riconsiderare abitudini e vita. E il cambiamento è comunque una funzione vitale. Anche l’intelligenza utile ha un suo segno, che non sta tanto nella rivoluzione che produrrà, ma piuttosto in come cambierà il nostro modo di vedere le cose e quanto ci manterrà in sintonia nuova con esse. Analoghe considerazioni valgono per le relazioni, una nuova amicizia è utile, non per i favori che procura, ma perché ci fa stare bene. Così l’utile acquista, per me, un significato nell’età dello scialo, ovvero quello che mi muta e mi rende più confacente al mio vivere, è utile. Anche i desideri sono utili, da questo punto di vista, e così il futuro che vorrei per me e per gli altri, che condividono il luogo, il tempo, i problemi, la vita collettiva. E’ utile ciò che mi cambia senza rinunciare a me, quello che davvero è compatibile con il reale convissuto. In questo sento che nello sforzo di tanti che con onestà, convincimento e scelte di vita si danno da fare per migliorare le loro e la mia vita, ci sia un profondo senso etico dell’utile. Oltre il sogno, che pur resta mio, oltre alla discussione che pur appartiene allo scambio e al ragionare, oltre alla cecità che fa vedere solo una parte della realtà, oltre al dubbio che un buon compagno, credo che nello sforzo comune ci sia l’utile di mettere insieme e non dividere, di unire spinte e voglia di cambiamento in un progetto. C’è quanto basta non solo per confermare il farmi coinvolgere, ma anche la serenità che toglie il senso dell’ inutile.
Oltre alle campagne elettorali, il vociare, le bugie smaccate, la voglia di sangue di chi si è sinora disinteressato o peggio dimentica per chi ha votato e ci ha condotto in queste condizioni, si può cambiare e il mio voto conterà davvero.
p.s. per chi non mi segue forse non è chiaro, ma voterò PD.
Portavo pantaloni neri alla zuava infilati negli stivali neri di cavallino, giacche di velluto chiaro e maglioni o camicie aperte. Mi piacevano (e mi piacciono i colli alla coreana), sentivo il cuore che pulsava all’unisono con il mondo. Il mio romanticismo era anche questo: passione in accordo con il fare, un buttarsi oltre perché ciò in cui credevo era più importante. Avvolgevo il tutto in un mantello nero a ruota che ho ancora oppure in un eskimo che finì a pescare con mio zio, quand’ero militare. Se c’è stata una costante in Europa per oltre un secolo e mezzo, questa è stata il romanticismo. Declinato in tutte le forme, ha infiammato, unito, rovesciato, diviso, creato, distrutto e costruito stati, economia, idee, scienza e sapere. Il novecento ha sepolto se stesso e il romanticismo, ma non l’idea che qualcosa possa far da collante al bisogno di cambiamento. Sarebbe triste un mondo che ripete se stesso, ma anche un mondo che muta con la sola tecnologia sarebbe altrettanto triste. Un imprenditore, padrone del vapore, portato allo scontro in fabbrica, mi diceva di sé che era un inguaribile romantico, forse intendendo che credeva nella forza che spinge oltre il singolo, che unisce e mantiene ben distinti gli slanci personali. Insomma credeva in qualcosa che non era il solo denaro, ma la crescita dell’uomo, e per farmelo capire bene paragonava la manifattura, che è fatta di forza, precisione, ingegno e trasforma, crea quello che prima non c’era e non ripete, rispetto alla finanza dove tutto questo non esiste e il denaro genera se stesso. Questo scontro tra padroni e operai, tra dominatori e liberatori era uno scontro tra romantici. Finito? Forse. Oltre al macro dato che alle aspirazioni alla libertà si sono sostituite altre aspirazioni, che creati gli stati ed esaurita la spinta coloniale ben poco rimaneva da fare, con la seconda guerra mondiale anche il romanticismo ha iniziato a scomparire dalle coscienze. Le ultime vampate del ’68 e degli anni ’70 hanno lasciato il posto al prevalere dell’individualismo, abbandonando il collante che ne permetteva il beneficio per tutti. Il mondo avanza sulla tecnologia e la passione è una virtù domestica da esercitare dove meglio si crede, tanto che è più facile unirla al sesso e al potere che ai progetti collettivi. Può bastare per un poco, ma credo lasci larghi spazi all’insoddisfazione senza nome. All’anomia che divora quando non si è parte di un progetto di futuro. Non importa se conduttori o passeggeri, ma un progetto è un veicolo con una forza enorme che trascina tutto in avanti.
Mi chiedo se chi è stato romantico lo sia per sempre, come fosse una cecità dello spirito che impedisce di vedere altro. Eppure mutiamo, non siamo quelli dei nostri anni giovani, se ci furono idee forti queste si sono attualizzate, più che invecchiate con noi. Mi impressiona sentir dire ai funerali di un compagno, di un partigiano, di uno spirito forte, che è stato fedele agli ideali della sua giovinezza, mi piacerebbe invece, che si dicesse che è stato sempre vivo, che di quegli ideali ha fatto motivo di una crescita personale che non si è mai conclusa e che non si è stancato di lottare per gli altri. In fondo questo fanno i romantici, vivono e lottano, provano passioni e cercano di condividerle. E sono un po’ fuori del tempo perché si richiamano a qualcosa che pare non sia specifico di un’età dell’uomo: la giovinezza. Mi pare sia così, forse lo dico per darmi speranza, per dirmi che se il romanticismo è morto non ha vinto il cinismo e che da qualche parte il fuoco è ancora acceso e che insieme si potrà andare avanti e che la libertà avrà un senso collettivo e che il mondo sarà un diverso terreno di competizione e di crescita per le idee e gli uomini, non solo il luogo per accumulare cose e denaro.
Mi chiedo anche quando, e se, sia finita l’età dell’innocenza dello sperare in qualcosa di comune. Me lo chiedo e lascio la domanda a ciascuno, perché in quel momento si inizia a diventare vecchi e non si smette più. Solo sperando contro l’evidenza si può essere giovani, invertire il corso del tempo reale. E allora gli ideali della giovinezza ritornano vivi, non gli stessi, ma quelli che permettono di sperare che cambierà e che spingono perché ciò si avveri.
Intelligenza, passione, fare insieme, credo sia tutto qui.
I miei sguardi, ciò che fotografo mi appartiene assieme a ciò che vedo.
Ciò che vedi nelle mie immagini sono io che vedo. Anche te. Non ti piaci? E ‘ perché sei tu che non ti vedi con i miei occhi.
Ricordati che il mio affetto non sarà mai il tuo, che io vedrò cose di te che tu non vedrai e che tutto questo sarà parte della mia verità su te.
E’ per questo che solo a volte coincidono gli sguardi, che il diritto a vedere non dovrebbe mai essere messo in discussione. Potremmo parlare a lungo tra noi di ciò che vediamo e scendere nella profondità di ciò che si sente. Sarebbe un grande argomento per capirci di più.
Non basta che sia bello, ma questo lo sai bene quando fatichi a gettare un’immagine che ha poca tecnica e tanto cuore.
In fondo con gli occhi cerco ciò che sento, quello che non dicono le parole, e se sono insoddisfatto è il mezzo che non vede come io vedo. Quasi mai mi basta, ma quello che ne esce, pur essendo altro, è ancora me.
Il diritto d’mmagine inizierebbe se mercificassi il sentire, se ne facessi oggetto di un vantaggio, ma non è così. Per questo non darò mai via quello che i miei occhi vedono, il mio cuore sente, la mia testa interpreta. Al più lo regalo.
Debbo fare una premessa autobiografica: politica attiva, con responsabilità diretta, ne ho fatta per molti anni, e ancora la faccio, sia pure con molta libertà. Non ho dubbi da che parte stare e non ho mai considerato che disinteressarsi o non votare sia una soluzione alle mie insoddisfazioni. Conoscendo le difficoltà delle mediazioni e del governare, non sono neppure un malpancista, semplicemente se è il caso dico no e me ne assumo la responsabilità. Fine della premessa.
Con quello che posso capire, si è avviato un rinnovamento della politica. Finalmente, sembra, che le fasi indeterminate del passaggio dalle ideologie alle rappresentanze d’interessi, si siano concluse e che una nuova possibilità di relazioni tra cittadini e politica si stia aprendo. Resta fondamentale una divisione tra interessi preminenti dell’individuo, ovvero il dettato liberale e la destra più o meno illuminata, e la prevalenza dell’interesse generale, ovvero la prospettiva social democratica, quindi la sinistra più o meno accentuata. Riformisti si dicono tutti, quindi non è una categoria della politica distinguibile, i centristi poi, sono un’altra categoria che media tra le ali moderate dei due schieramenti d’interessi e che si allea con l’uno o con l’altro secondo convenienza. Capisco che la cosa è semplificata, ma passatemi la definizione del contenitore. Venendo al contenuto, i gradi di libertà, che pure esistono, sono minori che nel passato perché il prevalere della finanza e dell’economia sui governi e sulla democrazia (i poteri reali oggi non hanno una verifica elettorale e sono semplicemente nominati sulla base di lobbies sovra governative), hanno di fatto ridotto le possibilità di politiche radicali, anzi gran parte delle politiche sono conservative e dedicate al rispetto di impegni sovranazionali piuttosto che innovative nella tutela dei diritti fondamentali, nella loro discussione ed evoluzione nel senso di avere più diritti reali e spendibili piuttosto che diritti dichiarativi virtuali.
Mi rendo conto che sto tagliando con l’accetta, ma per rispetto di chi leggerà non posso far di meglio, disponibile però a qualsiasi discussione nel merito delle proposizioni che ho enunciato. Voglio solo aggiungere che alla globalizzazione dei mercati e della finanza non è seguita, né tanto meno è corrisposta una globalizzazione dei diritti individuali fondamentali, della democrazia, delle libertà collettive. Questo ha enormi ripercussioni sulla sussistenza delle economie con diritti, quella occidentale e italiana in particolare, ma soprattutto corrisponde ad un impoverimento crescente delle persone che vivono di lavoro e non di rendita o di speculazione, dei servizi collettivi, del mantenimento del Welfare, della stessa possibilità di esercizio dei diritti democratici conquistati. Una consapevolezza dell’internazionalismo dei diritti fondamentali, un ruolo della politica che guidi l’economia e non viceversa è un atto di tutela della possibilità di non avere prossime guerre basate sulla sovra popolazione, sulla povertà sociale, sulla impossibilità di mantenere squilibri così evidenti a livello planetario.
Tutto questo è una considerazione generale in cui colloco qualcosa di molto più piccolo e insignificante, che però mi mette a disagio, anzi diciamo che mi fa incazzare. E cioè la difficoltà del mio partito, pur con grandi passi avanti di uscire definitivamente da alchimie che devono tener conto di interessi molteplici e certamente non tutti nobili di persone. Preciso che il mio partito è il PD e che non ho nessuna intenzione di cambiarlo perché c’è molta più democrazia e partecipazione dentro questo partito che in qualsiasi altro in Italia.
La mia riflessione di questi giorni era: perché non si riesce a superare una soglia, sia pur alta, di innovazione della politica che davvero liberi tutte le energie represse che ci sono nella società? Perché, pur considerando le primarie uno strumento utile e non una panacea, se questo esiste esso non debba riguardare tutti, ma solo il 50% dei possibili eletti? Perché a risultati ottenuti, devo sentirmi dire che comunque questo è il migliore dei risultati possibili, senza aggiungere che c’è stata una mediazione e che alcuni tutelati potevano benissimo essere fuori, ma sono stati tenuti dentro perché servono e allora perché non dirmi anche perché servono.
Tutto questo non mi impedisce di considerare Bersani come la persona che ha mantenuto i patti, che ha dimostrato una serietà e una sobrietà assolutamente inusuali nella politica, che pur, non avendolo appoggiato al congresso, ha gestito bene una fase di cambiamento senza sfasciare il partito che ancora non aveva leganti o identità.
Questo agire mi tranquillizza, mi fa dire che da questa parte non verranno raccontate più di tante promesse irrealizzabili, che un processo è comunque in movimento, che chi ha voglia di fare, di partecipare spazio ne ha. Ecco credo che la ricchezza possibile di questo statu nascendi possa essere proprio nel superare i compromessi attuali riaprendo la speranza nelle possibilità della politica di cambiare davvero le cose. Molto si può fare a basso o nullo costo per modificare positivamente le nostre vite, decisioni coraggiose possono essere assunte e nuove alleanze internazionali possono trovarsi su interessi globali. Se non si troveranno, il clima, la sovra popolazione mondiale, la rarefazione delle risorse si incaricheranno di far detonare il nostro modo di vivere e di crescere. Ma questa è l’occasione di ritornare alla politica, di essere esigenti, di costringere le cose a muoversi ed evolvere oltre la ruggine dei privilegi Ed è quantomai necessaria da cogliere perché non ci assolverà nessuno, se per ignavia, o paura ci ritireremo nei nostri preconcetti, nei giudizi che includono il non fare, adesso è ora di esserci, di partecipare, pretendere ed è ancora possibile e pacifico.
La dualità comunicativa che tutti abbiamo: vivere nella società, parteciparvi (chi più chi meno), e il tornare a sé, alle piccole grandi cose che fanno le vite, sono bene evidenti. Nell’esaminare ciò che si è fatto e non si rifarebbe, subentra un senso di socialità (può essere buona o cattiva la socialità), che può dire rivolto ad altri: non fare, ti brucerai. Oppure un piegare di labbra che testimonia il cinismo (se questo ha preso il sopravvento): devi provare, scottarti, poi anche tu, come me, finirai nella tristezza di ciò che non è stato.
I grandi (?) si dolgono di quello che hanno fatto ben più di quello che non hanno fatto. Ovvero di ciò che è stato e non di ciò che sarebbe potuto essere. Allora, capendolo, il mondo dell’impossibilità a fare adeguatamente si chiude (oppure si apre all’introspezione?) negli orizzonti delle piccole vite. Non ci sarà il sangue che circola veloce, che palpita nella sensazione che si è nel cambiamento e ribolle con esso, non più il vociare interiore ed esteriore che coincidono come fosse una corsa che arrossa le guance e fa luccicare gli occhi di futuro, non più il respiro lento e possente del mondo che muta e risuona nelle orecchie, ansito di bestia, che domata si offre. Non più e allora? Van bene le distratte notizie di giornale, artefatti anziché antefatti, cose che hanno l’agrodolce della mistificazione consapevole, come il piacere che nel farsi finisce, se non ha un suo destino. In questa vigilia di cambiamento del mondo, al più devo decidere cosa mettermi per apparire e non stracciarmi nel coinvolgimento, nella rivoluzione dell’essere dentro al mutare, nella battaglia, che vinta o persa che sia, è vitale. Sarà che le cose sono, e sembrano, piccole, un comico prenderà il posto di un barzellettiere, un giovane buon conoscitore delle strade del potere vuol prendere il posto di un maturo buon mediatore, un indistinto sovrapporsi di nomi che contano (e che contano mai?), configura il ventre grasso e molle del perbenismo che lascia a ciascuno fare ciò che vuole, basta non si veda. Il centro il peggior chakra ci sia. Cosa c’è di emozionante in tutto questo, se non che quest’arena è pur sempre il luogo in cui decidere se essere spettatori o gladiatori.
Un modo alto di alzare la schiena e il braccio ed armarli della forza di mutare è quello di avere un’idea grande di tutti e di sé, invece se è il sé che prevale, per quanto grande sia, al più stimola il sorriso, o il dileggio, nei tutti. E’ questo il senso micidiale del relativo che ci ha colpiti? E’ da qui che tutto sembra diventato eguale e quando qualcuno, anch’io, si ostina a dire che non è vero, che la diversità, il meglio, esiste, emergono quelle indistinte litanie di fatti, fatterelli, non importa se veri o verosimili, incontrovertibili per stanchezza di ribattere, e che puntano ad un’unica conclusione: sono tutti uguali. Non siamo tutti uguali. Se siamo tutti uguali, come distinguere lo scarico dal robinetto, l’acqua dal refluo.
Sarà così, per stanchezza o ignavia o superficialità, che nascono le abitudini che invadono e chiudono le nostre vite nella ripetitività, nel pascolo dei pubblicitari e degli esperti di marketing, sarà così che il vicino che soffre diventa un dato statistico e nella testa nostra soffre meno, che chi può, sbarra la porta di casa, che conta quello che ha, ed aspetta. Ho un pensiero che apparentemente sembra incongruo, ovvero che senza rivoluzioni e socialità l’economia langue, si avvita nella povertà del ripetitivo, che se la difficoltà, la sofferenza si chiude nel privato e non diventa palingenesi partecipata, il cercare i piccoli equilibri dello stare meno peggio, condanna ad esistenze senza costrutto. Vuote di respiro.
Non osare subito, quello verrà in un dopo molto prossimo, ma iniziare respirando. Respirare l’aria che non è solo nostra, che ha dentro un po’ dello scambio cuore polmoni di chi abita la casa, il quartiere, la città, il mondo.
Sediamoci al sole, sul muretto degli scontenti: questo è un paese vecchio, fatto di pensionati. Spesso talmente giovani che non lo sanno e hanno semplicemente mandato il cervello in pensione anticipata. Non parlo di chi si ostina ad avere speranze combattendo tra partita iva e call center, tra precario è bello e affitto da pagare. No, parlo di quelli che con il sedere al caldo, non partecipano, non si preoccupano, hanno una risposta pronta al loro disimpegno. Tanto…
Allora sediamoci su questo muretto e godendoci il sole, parliamo di cosa faremmo, se noi fossimo gli allenatori di questa immensa squadra di calcio che ha quasi 60 milioni di giocatori. Parlo di strategia di gioco, di rosa dei titolari da mettere in campo, di massaggiatori ed allenatori dei portieri. Parlo di quello che servirebbe per vincere la partita. In questo siamo bravissimi, tutti, ma confesso che da qualche tempo, in questo campionato mondiale in cui la globalizzazione ha portato squadre nuove, sconosciute, senza rispetto per i vincitori naturali, non capisco più molto. Capisco ad esempio qual’è il campo, ma non chi sono gli arbitri, e spesso neppure le regole e chi sia l’avversario. Qualcosa dev’essere accaduto nell’89 o giù di lì, ma non ho (abbiamo) ben capito come si sarebbero svolte le partite successive. Dovrebbe consolarmi che, visti i risultati, neppure i vari allenatori che si sono succeduti devono aver compreso molto. Però non mi consola, come non mi consola la sconfitta della lega e del pdl, né mi preoccupa la vittoria dei cinquestellini, di cui sento la proclamazione della stampa che osanna qualsiasi vincitore. Neppure la tenuta (di che, di cosa) del mio partito, il Pd, mi rincuora, anzi ho l’impressione che anche al suo interno ci sarà la corsa all’oblio per iniziare una nuova partita, senza nessuna analisi seria di quanto accaduto. Siamo un popolo di lotofagi, smemorati non va bene perché qualcosa bisogna pur mangiare per dimenticare, ma adesso abbiamo un’agenda che trilla di continuo appuntamenti, scadenze, impegni, e francamente pare non si sappia che pesci pigliare, oltre ai soliti. Eppoi chi ne ha le scatole piene non riesce più a vedere nulla di buono in chi si ostina a condurre la cosa di tutti, cambiare almeno un poco sembra la soluzione, basta una faccia, un provvedimento diverso, una svolta, ma se tutto è mediazione, il nuovo, anche qundo c’è, non riuscirà mai ad emergere.
Riassumo ciò che capisco: quello che chiedono quelli che non sono d’accordo, con l’attuale gestione della squadra, è il nuovo e la capacità di giocare con competenza.
Qui potrei fermarmi perché condivido e se questo è vero, qualcun altro dovrebbe dire cos’è nuovo e cosa significa competenza. Le mie sono convinzioni vecchie, si basano sulla mia storia e per me, nuovo, significa cambiare alcune persone che contano davvero, adottare provvedimenti mai presi prima e di buona ragionevolezza, tagliare qualche ingiustizia, spreco, rendita di posizione, potere non giustificato. Competenza, invece, per me significa non rinunciare al nuovo possibile, ma sapere di cosa si parla, non avere paura degli effetti del cambiamento, però conoscerli prima. Insomma non cambiare tutto perché nulla cambi, ma quello che è necessario e utile.
E poi farlo questo nuovo con competenza. Farlo, non annunciarlo.
Non so se i partiti o il paese siano all’ultima spiaggia, francamente questa immagine non mi ha mai convinto perché il mare è sempre foriero di novità e di vita, ma io spero che i partiti, il mio almeno, capiscano che anche in un disastro si distinguono i buoni dai cattivi, che qualcosa si può salvare, che oggi, cambiare subito, è l’unica strada per dare una possibilità al paese, ai cittadini, alla squadra di calcio a cui apparteniamo.
Non c’è nulla più della verità che cambi in profondità e rivoluzioni. Basta vedere ciò che sta mutando sotto gli occhi, interpretare, agire di conseguenza. E serve un Paese coeso per affrontare la più grande sfida dell’umanità dai tempi della sua nascita, ovvero far sì che il benessere diventi un parametro di misura mondiale, non locale, un costituente della democrazia tra popoli e che non sia la finanza a dettare le vite e le democrazie che governano gli uomini. Quindi emerga un’economia che diventi condivisa.
Nel nostro Paese, abbiamo la possibilità di avviare un processo che può portarci davvero a pieno titolo in Europa. Ben oltre la sovranità di un piccolo Paese e dei piccoli governanti che esprimiamo, può nascere un processo politico in cui nuovi protagonisti entrino in gioco senza buttare la competenza. Non è una novità, ovunque questo viene fatto, e quale sarebbe la carta in più che potremmo giocare? Quella che non fa nessuno, ovvero l’autoriforma radicale della politica, un potenziale talmente forte, che pur nelle mutate condizioni mondiali dell’economia, nessun paese europeo è stato in grado di mettere in campo. Allora nella nuova politica della squadra di calcio, non ci può più essere l’ AlfanoBersaniCasini, ma neppure Berlusconi e D’Alema, o Veltroni. Grillo deve tornare a farci ridere, se ne è capace, Vendola lasciare spazio ai suoi che non hanno narrazione, ma problemi veri. Il parlamento sarà nuovo se farà leggi nuove con teste nuove. Ed in questo, e finisco, ho poca fiducia su quello che verrà da un partito vincente grillino che proclama di essere fatto di cittadini prestati alla politica. Lo dicevano anche i verdi italiani, con il risultato che praticamente esistono solo i comitati che difendono un campo di terra, ma non una forza coerente che difenda in parlamento le ragioni dell’ambiente. E’ il teorema del muretto, dei pensionati di testa, la politica è una cosa seria che si apprende con umiltà e intelligenza. Chi viene amministrato deve pretendere di star meglio, e non di pagare gli errori di chi non conosce il gioco che sta facendo.
Non mi dicono niente i teoremi se non servono a qualcosa, eppure sono d’accordo su moltissimo: via gli indagati, acqua pubblica e acquedotti funzionanti, non più di due legislature, via i privilegi, tagliamo parlamentari e stipendi della casta, a casa chi perde, a chi ruba il carcere e l’esclusione da qualsiasi carica, ecc. ecc. Ma voglio sapere come si sviluppa il Paese, come si mantiene il benessere, chi paga i costi del cambiamento, quanti disoccupati ci saranno cambiando modello, come si occuperanno. Chiudere un’acciaieria, un cementificio è sacrosanto, se fa male alla salute, ma devo occuparmi di chi ci lavora dentro, creare nuova occupazione per quelli che vengono messi fuori squadra, prevedere come andrà a finire, avere una strategia. Ecco in questo serve la competenza e se posso permettermi, a me che il sindaco sia un cinquestellino o del mio partito, poco importa se è competente e bravo e tiene in ordine conti e città. Se invece è un lamentoso, che dà sempre la colpa agli altri per nascondere l’incapacità propria, allora può essere nuovo, giovane e pure bello, ma non mi serve a nulla.
L’impressione che mi è rimasta dopo le elezioni, e in quello che sta accadendo, è che stiamo perdendo tutti. Anche la speranza stiamo perdendo e questo è davvero il baratro, nella spiaggia si gioca, nel baratro si precipita e basta.
Indossare una gestione dello stato sembra sia un dato umorale; qualcosa che prescinde, di fatto, da un progetto personale, oltre il piacere a sé od a altri. Insomma una moda, un sentirsi nel gruppo per compagnia; quest’anno va di moda il grillo, l’anno scorso il vendola, prima il berlusconi, o il dipietro o il bossi o il prodi. Comunque sia, alla politica, che deve assicurarci il benessere, una prospettiva personale e collettiva e magari anche un presente, si assegna un tasso di attenzione e comprensione inferiore a quello che occupa la nostra testa, in un camerino di un negozio di abbigliamento. Gli effetti di questo si vedono, perché partire dalla presunzione di competenza e onestà è come assegnare ad un tessuto privo di etichetta, la patente di pura lana vergine o seta italiana. Bisogna sentire tra le dita, informarsi, vigilare, chiedere garanzia e conto, e invece…
Qualche tempo fa, parlando della scuola pubblica sottolineavo che inefficienze, sprechi, e gestione, vanificavano il lavoro di chi si appassionava al suo mestiere e faceva ogni giorno bene il suo lavoro. Non bastava dire: è la scuola pubblica, bisognava, proprio perché pubblica, renderla senza ombra di dubbio, la migliore. Venni rimbrottato perché alimentavo l’attacco alla scuola, da parte dell’allora ministro Gelmini, in realtà l’unico modo per rendere inattaccabile la scuola o la sanità era, ed è, far sì che non siano criticabili. Se non si insegna a sufficienza, se i risultati sono l’ignoranza e l’apatia del sapere, gli utenti sono nella stessa situazione di chi attende inutilmente per un’ora in un ambulatorio pubblico una prestazione che paga. Per chi non ha la prestazione, significa che l’insegnante, il medico o l’equipe, stanno facendo altro, e questo poi evolve nella certezza di non ricevere il dovuto. Che il costo pagato direttamente o indirettamente, non sia commisurato alla prestazione. Ho fatto questi esempi perché se si accetta e non si pretende che la politica risolva questi problemi di efficienza ed efficacia, i soldi di tutti, anche quelli in più che versiamo per salvare il paese, vengono buttati in una fornace. A far sì che questo non accada, serve la politica, ma siccome so che è difficile che questa non cada in tentazione, che non consolidi privilegi, non posso accontentarmi di innamorarmi del primo demagogo che appare sul mercato.
C’è un solo spettro che la politica non riesce ad esorcizzare, qualunque sia la maggioranza, ed è il fiato sul collo dei cittadini, l’interesse verso la cosa pubblica di tutti noi. Nel privato, purché non si leda il diritto d’ altri, si può fare ciò che si vuole, ma il pubblico è di tutti, ciò che butta dalla finestra Bossi o Lusi, ovvero finanziamento pubblico ai partiti, è cosa anche mia, nessuno può buttare la fatica degli altri al macero, ma in questo l’attenzione ed il controllo dei cittadini è mancato.
La democrazia non si esaurisce il giorno del voto, ma si manifesta ogni giorno nella sua riconferma. Superata l’età delle ideologie, che almeno il pregio di indicare un futuro ce l’avevano, è subentrata l’era delle paure. Lasciando perdere il ridicolo delle berlusconiane paure del comunismo, anche se bisognerebbe ricordargli che il capitalismo, in questo momento, sta facendo ben più danni e vittime degli inesistenti, trinariciuti, comunisti, ma le persone a questo non badano, epperò quotidianamente vivono nel timore di qualcosa che non dipende da loro, sia esso la finanza, l’economia, la sicurezza, il futuro pensionistico ed assistenziale, i diritti, ecc. ecc. Ma l’unico modo per governare le paure, è capirle, affrontarle, fare azioni collettive forti che portino verso il loro superamento. Può bastare per far questo, un comico, o un demagogo, od un agitapopolo? L’esperienza di questi anni dimostra di no, e che se la politica non è gestita seriamente, tenendo conto del contesto, genera disastri.
In questi mesi stiamo pagando il fatto che l’Italia era un paese senza crisi, così ci è stato detto per mesi, e adesso, che la crisi è esplosa nella sua evidenza, paghiamo, in aggiunta, l’incapacità dei tecnici di capire la politica e i bisogni dei cittadini. Senza un piano di sviluppo il paese, e chi lo abita, declina, si immiserisce. Per questo, io credo che i cittadini dovrebbero entrare nei partiti, senza pulirsi le scarpe, scuotere l’albero per far cadere ciò che non fruttifica più, ma anche usare la competenza rimasta per raggiungere degli obbiettivi chiari. E quali sono questo obbiettivi se non il presente e il futuro che vogliamo, la direzione che giustifichi la fatica dello stare assieme.
Credo che le parole lavoro, legalità, sicurezza, equità, solidarietà siano sufficientemente esplicative. Adesso le parole vanno riempite di domande, risposte ed azioni: visto che non vogliamo perderlo, mantenere il wellfare quanto costa ? quanto posso ricavare in efficienza senza toccare il costo? ha senso che un medico lavori dentro e fuori il sistema che lo paga? oppure sul lavoro, hanno senso le decine di adempimenti che impongono una pletora di professionisti da pagare per ottemperare alla legge? Oppure, se il servizio pubblico non è efficiente, ha senso che lo si mantenga comunque? oppure, perché incontriamo decine di persone, ogni giorno, in divise varie, che portano pacchi, fanno caffè, distribuiscono posta, cucinano e servono in tavola, guidano mezzi di trasporto, ecc. ecc. senza che nessuno di questi abbia un lavoro fisso e sicuro? oppure, ha senso che lo stato tenga precarie le persone per molti anni e le rinnovi di sei mesi in sei mesi, senza immetterle nell’organizzazione, se gli servono? oppure, ha senso che lo stato non paghi le persone e le aziende, che per fare un lavoro allo stato, hanno già dovuto pagare l’iva e le imposte? oppure, ha senso che chi svolge una attività di lucro, anche se sono fondazioni bancarie o chiesa, non paghino le tasse sugli immobili strumentali? oppure ha senso che si lasci andare in malora il patrimonio pubblico per poi svenderlo, anziché metterlo a reddito?
Come vedete ho citato solo alcuni piccoli elementi del fare nella politica, che vanno verso una minore spesa e più equità, e sono possibilità che non mi fanno scegliere l’antipolitica, ma mi fanno chiedere di fare, di essere rigorosi, di tagliare i privilegi di chi fa politica, di chiedere conto. Non mi piace lamentarmi e neppure assentarmi, penso che una delusione è sempre una sconfitta che merita un’altra battaglia, per questo non mi interessa molto la moda nella politica e mi preoccupa molto la disaffezione, temo che quest’ultima toglierà controlli anziché metterne di nuovi, ed io non mi fido. Non più, tantomeno della moglie di Cesare, ma proprio per questo devo esserci di più, come posso, anche se costa fatica, perché ogni volta che mi distraggo qualcosa può prendere il posto della fiducia. In fondo noi giudichiamo per i risultati e per il metodo, per entrambi, perché se fosse solo per i primi, spesso una dittatura avrebbe il campo libero. Ed io una dittatura fosse anche della moda, non la voglio.
I partiti sono strutture di pace che non funzionano in tempo di guerra e questo e’ un tempo di guerra che si esercita su un sistema crudele. Chi l’ha detto che la democrazia e’ buona? Non e’, né misericordiosa né giusta, è solo, sinora, il miglior compromesso elaborato per non divorare una minoranza. E questo suo fraintendimento iniziale (in aggiunta, per sua natura, è incline al conservare ciò che esiste) funziona ancor meno nei tempi d’ eccezione. Credo che tutti noi vorremmo una democrazia più giusta, ma passando ai fatti: quali sono oggi le nostre idee per uscire dalla crisi e far ripartire un paese?
Non ho aderito al liberismo come panacea dei mali degli uomini, non mi sono iscritto al partito di Merkel e Sarkozy, se devo stare zitto ed accettare che non parteciperò al mio presente ed al mio futuro, non ho bisogno di un partito. Ma io un partito ce l’ho, finché dura e se capisco la solitudine del suo gruppo dirigente, se capisco molto di molto, ho anche colleghi che resteranno senza lavoro e senza pensione a sessant’anni. Facile dire a una persona riciclati, lavora, scegli il nuovo, ma se non funziona a trenta, come funzionerà a sessanta. Per avere un poca d’equità, bisognerebbe almeno avere delle norme in deroga che tutelino i licenziati anziani, accompagnarli fuori dal lavoro dignitosamente. Credo che un sottosegretario al lavoro che abbia lavorato in fabbrica, farebbe bene ad un governo di persone che, quando vanno in pensione a 75 anni, pensano d’ aver subito un sopruso. Sono lavori diversi, ma penso alle donne che verranno tenute a forza nei posti di lavoro, oltre i 40 anni di contributi, oltre i sessant’anni. E’ l’Europa si dice, ma altrove ci sono strutture ed accessi multipli al lavoro talmente diversi da dare libertà sconosdciute in Italia. Se si pensa che le donne assommano normalmente l’attività di cura al lavoro, a 60 anni, lasciamo loro almeno la scelta. Per chi lavora due volte qualche pensiero si dovrebbe pur fare nel senso dell’equità.
Penso poi a come si pagherà la crisi della finanza, non parlo per me, sto bene senza particolari ricchezze, pagherò, ma in assenza di una patrimoniale vera, senza un sequestro dei beni degli evasori, in questo momento, dov’è l’ equità nei confronti delle persone che si vedono ritirare il fido, ridiscutere il mutuo, vendere la casa per debiti?
Non e’ un problema solo italiano, dicono. E’ vero, ma noi abbiamo fatto di più e meglio nel debito e nella crisi, e per restare tra quelli che contano adesso ci viene detto, che in due mesi si devono recuperare 10 anni, che l’Italia deve salvare se stessa e l’euro. Mi pare un compito immane e senza solidarietà non so che Europa verrà fuori, di certo, pensando a quale Italia pagherà il costo del salvataggio, ne uscirà un paese stremato, diviso, incattivito. Possiamo dire che queste sono le ricette e le richieste della destra, dei mercati finanziari, allora ciò che m’ impressiona è la carenza di elaborazione alternativa. Il riformismo occidentale tace e non dice nulla sulla sua ragione fondante, ovvero come pensa di assicurare diritti, tutelare i deboli, creare una società più giusta e partecipata. Non parla di come verra’ affrontato il problema del lavoro e dei giovani nel mercato globalizzato. La terza via di Blair e’ fallita, anche quella di Zapatero ha fatto una fine ingloriosa, Obama, non ha una via liberal per uscire dalla crisi e delude, dipendendo troppo da regole che non riesce a scrivere, ciò significa che il riformismo, senza una propria visione della società che comprenda eguaglianza e giustizia, termini che significano disciplina e leggi di governo dei mercati, non esiste. Sistemi economici, sovrastrutture si scontrano. Oggi sul mercato c’è una massa di denaro pari a 6 volte il pil mondiale, che compra la democrazia, impone governi e dittatori, piega aziende e mercati delle merci, condiziona le vite, i desideri, i bisogni dell’intera umanità. La finanza non è al servizio dell’homo faber, ma a servizio di se stessa. Pensare che la produzione, il benessere degli uomini, il pianeta siano governabili in queste condizioni, senza regole, è demenziale. Cosa racconteremo, noi che siamo di sinistra, che siamo riformisti, o semplicemete ci rendiamo conto di ciò che sta accadendo, che questo mondo e’ irriformabile? Nel redivivo Candide, interpreteremo il Pangloss della situazione, sostenendo che questo e’ il migliore dei mondi possibili?
Dei tre diritti fondamentali, la democrazia così interpretata, ma ancor più il riformismo, e’ in grado di assicurare solo la libertà di pensiero e di parola. Per questo è necessario, impellente farsi domande, esserci. Voglio essere ottimista e pensare che nel dopo Berlusconi si apra una grande stagione di confronto, in Italia, sull’idea di modernizzazione e di futuro, che venga individuata una strada per portare il paese in Europa, verso una unione di fatto e di diritto, che finiscano le pagliacciate sui secessionismi e le piccole patrie senza luogo, che nel confronto tra destra e sinistra ci sia la consapevolezza che l’intero edificio è un valore.
Ma nell’attesa, vorrei anche partecipare al presente, avere la possibilità di discutere della crisi dell’economia e dei partiti, cioè dei due vincoli che governano la mia vita, non essere in una democrazia di guerra che zittisce. I presupposti su cui sono nati i partiti maggiori in Italia erano diversi. Non solo i partiti non servono in guerra, ma è la situazione in cui sono nati che non prevedeva tale e tanta gravita’ e cambiamento. Francamente nessuno oggi, anche se lo spera, vuole sentirsi raccontare di non preoccuparsi, che passera’ e che tutto sarà come prima. Per questo credo che, nel ribollire delle urgenze, ci sia uno statu nascendi da creare, che l’equità immediata sia necessaria come la privazione, che l’abbattimento del privilegio, porti a nuove regole di pulizia nell’essere sociale. Nell’attuale, incredibile situazione di democrazia alterata, è compito di chi vorrà governare poi, dire subito cosa accadrà, dare un senso ai sacrifici, stipulare patti vincolanti, introdurre la comprensione della realtà accanto alla tensione dell’orizzonte verso cui si vuole andare.
Ricostruire regole e convivenza, spazzare via il vecchio che ha portato a questa situazione, riprendere in mano il proprio destino, non ci può essere solo accettazione supina, questo lo deve sapere il corpaccione vecchio della politica, e lo deve sapere anche il governo dei tecnici a cui è chiesto, non di fare ciò che altri non ha avuto il coraggio di fare, ma di trovare strade nuove e poi lasciare il campo perché è finita l’epoca del governo dei generali e torna la normalità.
La democrazia non è buona, ma la dittatura della finanza è peggio.