Nei gesti precisi,
le indecisioni d’un tempo scordate,
c’è l’abitudine al buono pensato,
e così nasce un profumo,
che si spande e apre la festa.
Mi perdo nei sogni, impasto farina
con i ricordi che si fan strada,
tra parole e pensieri.
Allora siamo entrambi bambini
tra vecchie pareti giochiamo.
mi nascondo, commuove il pensiero,
di lui, cresciuto lontano,
che sicuro d’entrambi, rincorre.
Conosce le astuzie di porte e mobilia,
ride e protegge,
un’ottomana accoglie
dei fratelli la lotta felice.
Fino al richiamo,
è pronto si pranza,
il profumo sollecita,
s’insinua, sì spande,
pervade l’amore,
e curioso, piccino, lo cerco,
ed è lì che m’attende,
dorato e sornione,
ammiccante d’assaggio.
nel desco della domenica
il pane condiviso e l’amore ,
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1917 agosto
Il 17 agosto era il suo compleanno. 17 anni li aveva lasciati nel secolo precedente e 17 nel nuovo. Era abituato a fare conti, confrontare numeri, vedere i risultati. I numeri erano curiosi a volte, ma non tradivano, si sommavano, sottraevano, dividevano, ma alla fine restava un numero che rappresentava qualcosa di univoco. Un dare e un avere. Lui pensava che doveva ancora avere molto. Aveva persone che amava, due figli, una moglie, un lavoro, una vita da vivere assieme, quindi i conti erano aperti e i numeri dovevano tornare.
Quella notte ci fu il trasferimento che era stato comunicato in giornata. Poche parole in italiano ripetute dagli ufficiali, verso i sotto ufficiali, e poi giù, fino alle orecchie dei soldati. E le sue. Tra soldati parlavano in dialetto, il battaglione era stato costituito all’interno di due province vicine. C’erano anche altri che venivano da regioni diverse e parlavano altri dialetti, ma alla fine ci si capiva. Lui era abituato a capire lingue e dialetti differenti, parlava anche la lingua di quelli dell’altra parte dei reticolati, ma non serviva, non c’era molto da dirsi in prima linea, c’erano solo urli e sfottò. Ed erano meglio i secondi perché significavano quiete.
Venivano da un turno di riposo, dopo essere stati in prima linea dal 13 maggio al 23 luglio, sempre da quelle parti del Carso, ed erano stati dimezzati: 1806 uomini e 36 ufficiali morti. Poche centinaia di metri conquistati, erano passati da quota 224 a quota 247. Numeri che erano piccoli dossi e buche che lì si chiamano doline. Buche in cui si ammucchiavano vivi e morti, pietre e ordini, assalto e fortuna. Numeri. Si contavano muti, la sera, poi c’era la notte per pensare e la speranza che la sera dopo si potesse contare di nuovo.
Chissà a cosa pensava ricordando maggio, giugno e luglio. I visi si confondevano, le persone, i fatti, tutto si sovrapponeva nel rumore degli scoppi. La corsa dell’assalto, l’acquattarsi nella dolina: fare, sparare, correre e attendere la notte, non pensare, restare vivo.
Nei momenti di quiete ci si aggrappava a quelli certamente vivi, alla famiglia. Contava la famiglia e lui. Lui e la famiglia. Vivo.
Durante il riposo e le esercitazioni si formavano gruppi, assonanze sociali, quasi parentele, ma sapevano tutti che erano su un crinale, vivere era questione di attimi, dipendeva da una coincidenza con una pallottola o una scheggia, dalla caduta di quello a fianco, dal caso.
Fino ad agosto riposo, meno di un mese e poi il 17, il giorno del suo compleanno, di nuovo in linea, immersi nel caldo torrido del giorno, con la pietra che si arroventava e lì c’era solo pietra. I pochi alberi erano stati spazzati via dai bombardamenti preventivi, i cespugli bruciati dai lanciafiamme. Pietre a pezzi, sminuzzate, frammiste a metallo di scheggia, reticolati, doline e trincee, teli sbrindellati e la comunanza di essere accalcati gli uni sugli altri. In attesa.
Il tempo si comprimeva e dilatava, e nell’essere lì per giorni si caricava con la molla dell’attesa. Non passava mai ed era sempre corto, immediato.
La notte del 17 era fresca, come tutte le notti, si faceva sentire l’alito del vento del mare di Trieste che s’incanalava tra quelle valli strette, lambiva quei cumuli di pietre e di paura.
A luglio, dal colle di Sant’Elia, il mare si vedeva e sembrava così strano che laggiù ci fosse una vita normale, che le persone andassero al lavoro, la sera a casa, che dormissero in letti normali, facessero l’amore, bevessero birra fresca nelle osterie e a cena accarezzassero la testa dei figli chiedendogli com’era andata la giornata. Li, anche se non formalmente, c’era la pace.
Il Papa aveva parlato di inutile strage per tentare di fermare la guerra, non c’era riuscito anche se i re e gli imperatori erano tutti cristiani. Ma poi quelle parole così comprensibili e adatte ai tempi non erano esse stesse una contraddizione: quale strage può essere utile?
Lui non pensava tutte queste cose, la notte del 17 agosto, sentiva che andava in linea, compiva gli anni, e sperava che quella pace poco distante nelle retrovie avrebbe potuto raggiungerla. Contava i giorni in cui restare vivo. Iniziava quella notte l’11.a battaglia dell’Isonzo, un numero palindromo. E bisognava conquistare quota 219 poi quota 246, la dolina della bottiglia.
Ma tutte queste cose non gliele dicevano e quando la molla del tempo si scaricava, usavano parole semplici: baionetta in canna, tutti fuori, all’attacco. Qualcuno gridava Savoia, qualcun altro moriva subito, altri correvano e i feriti urlavano. Col cuore in gola, sparavano e correvano, vivi, finché durava.
Era la notte del 17 agosto, compiva 34 anni, si chiamava Antonio, aveva due figli piccoli e una moglie e li amava tutti.
Restò vivo e li pensò fino al 22 agosto, in quattro giorni morirono tra quota 219 e 246, 1594 soldati e 67 ufficiali. Numeri, ma Lui fu uno di questi e il suo luogo convenzionale di morte fu indicato in quella dolina della bottiglia che ora non c’è in nessuna carta geografica.
ritornare
Mi prende, a sera dopo molto fare senza costrutto, la tentazione di tornare ai libri miei che tappezzano le pareti attorno. Guardo la musica che paziente attende d’essere ascoltata. Penso alle piccole abitudini della scrittura senza fretta, agli inchiostri, ai pennini e alla carta buona. Vorrei tutto il tempo possibile, lo stare in silenzio, il lasciare che il dentro e il fuori si parlino, e tutto s’allacci, si ingarbugli per la soddisfazione che prova ogni gorgo prima di scorrere verso le rive e il mare.
E’ la necessità di tirare il fiato, di spostare l’aria che entra e riempie le stanze, far posto al buon sapore degli odori, ai rumori di ciò che sta attorno. Così scorro con gli occhi i luoghi che conosco eppure hanno accenti nuovi. Una sedia per il sole, un bicchiere che attende una bocca, richiami tra terrazze e stanze. Penso che le compagnie delle cose si semplificano e sono pazienti, come le aromatiche sul terrazzo, qualche fiore che procede per suo conto, il cibo semplice che è stanchezza del complicato strombazzare di gusti alla moda. E gli occhi tornano sui libri, tanti libri, più di quanti mai leggerò, e servono per tenere aperta la vita e il futuro e il passato intrecciati. Ho la fortuna (e a volte è vincolo a capire) d’ una buona memoria che ricorda ciò che la rete della vita ha tenuto e messo assieme, ciò che è stato e quello che poteva ma non ha avuto coraggio.
E in questa piccola pace sento l’equilibrio di quello che si raccoglie attorno e dentro con rinnovato ordine: la passione, il tumulto, il rifiuto, l’amore. Il futuro e il tedio che con i piccoli dispetti si confrontano. E penso allora che è tempo di tornare, ma non è ancora tempo di chiudere le porte al mondo.
tigli di città
Al profumo dei tigli corrisponde una serenità inespressa, una luce verde che si fa strada tra le foglie, la necessità lieve del camminare lento e del guardar vedendo. Dentro e fuori.
Non esiste un’ essenza di tiglio che conservi tutto ciò, è necessario viverla questa stagione e ricordarla poi, se si vorrà, con qualche tisana d’inverno.
O, ancora, conservarne il ritmo vitale nell’andare lento sotto altri alberi che raccontino, evochino, ciò che è stato e ciò che si ripeterà.
C’è un passato che non muta nei lunghi viali di città. Le forme geometriche nelle vite acquietano. Il sapere che domani le cose saranno ancora al loro posto aiuta ad affrontare la notte.
E’ un senso del trascorrere che sta tra la nostalgia e la sicurezza d’un futuro.
C’è circolarità nel tempo. Accadrà di nuovo, troveremo tracce di noi nelle cose, ci sarà qualcosa che manca e qualcosa di possibile.
Un estate arriva, padrona del suo caldo, reca nuovi profumi e suoni, notte, umori, finestre spalancate. E voglia di lasciarsi andare perché il nuovo sia buono e ci trovi accoglienti.
del tempo le finzioni corrompono il possibile

Per approssimazioni successive di piccole mancanze si arriva alla convinzione che il tempo ha corroso le possibilità. Non molte, ma abbastanza da non poter dire a se stessi che tutto è sempre a disposizione, che basta applicare la volontà, o la fantasia e le cose desiderate accadranno. Non è grave, è solo la coscienza progressiva del limitarsi e del limitare che si aggiunge alla spensieratezza dell’osare il nuovo, il non percorso ancora. Che sia dal corpo o dalla mente, arrivano segnali che la realtà ha una nuova configurazione da scoprire e che essa è disponibile purché si sappia appieno cosa vogliamo e possiamo collocare in essa. Eppure, in questi confini di nebbia ci si sente comunque se stessi, si acquisiscono tempi e abitudini differenti, ma il nocciolo interiore sembra produrre un vedere e sentire nuovo.
Noi, ad un certo punto, scolliniamo e pur mantenendo desideri e pulsioni, ad esse aggiungiamo una incredibile biblioteca di vissuto che attinge a chi è stato prima di noi, che noi stessi abbiamo sviluppato in un continuo mutare, perdere parzialmente, acquisire esperienze e conoscenza, sentire appieno o in distrazione. Da qualche parte è rimasto molto più di quanto pensiamo. La lingua appresa nell’infanzia, gli errori e le correzioni severe, gli sbagli mai confessati, la gioia del sentire per la prima volta e poi il suo ripetersi diverso. Le abitudini nate da un piacere, le frasi apprese, quelle costruite, quelle dimenticate. Guardare dentro è un cercare tra gli scaffali del vissuto, passare le dita sui dorsi, risentire il profumo e la consistenza della materia, ma soprattutto lasciare che le storie si collochino in un insieme che non c’è più materialmente ma ancora vive e vivrà finché ci saremo.
Le memorie hanno sempre un ingresso comune, molto controverso, che chi c’era ha vissuto in modo differente, poi una stanza in cui ci sono materiali confrontabili e in fine un luogo personale dove c’è stata l’emozione, il senso di un vivere e di uno scorrere che non appartiene altri che a noi.
Ho la lingua e l’etimologia dei miei giorni, ma sempre meno persone con cui parlarne. E così parlo e ricordo da solo. Ho le emozioni della crescita, il parlare e il sentire comune a persone che non ci sono più, ma la loro presenza è ancora in non pochi nodi piacevoli al sciogliersi. Avverto che ciò che sta mutando non è più parte di uno scorrere lento che portava a rafforzare la comprensione profonda, che era acquisizione comune, ma sento che sono le parole che hanno mutato il loro significato perché descrivono una realtà differente e che devo imparare nuovi significati, sentire cosa essi producono nell’evolvere e nel raccontare, altrimenti non capirei il mondo. Così la mia casa è un insieme di appreso, provato, immaginato che si muove silente dentro di me e che acquisisce nuove regole del guardare e del sentire. La vita evolve e mentre conserva, desidera, considera al tempo stesso guarda e intuisce che qualcosa si aggiunge. Così si modificano le possibilità concesse, viene cercato un equilibrio che mantenga in buona relazione ciò che è l’essenza del vissuto, con il vivere e cerca di farli convivere perché ci sia nuova vita da vivere con se stessi e con ciò che ci attornia.
Anni fa lessi e vidi di una pratica che in oriente, in questo caso era il Giappone, ma anche in Cina c’erano pensieri analoghi, teneva come ricchezza comune artigiani di mestieri ormai superati dalla serializzazione dei prodotti. Ad essi dava una pensione perché continuassero il loro lavoro, formassero degli apprendisti, continuassero a lavorare e usare tecniche e materiali che altrimenti sarebbero stati perduti. Il sapere connesso al lavoro era una parte del patrimonio comune, della cultura che si era formata nei secoli. Queste persone avevano vite e abitudini non dissimili da quelle del mondo che era mutato, ma in esso portavano innanzi una cultura materiale estesa, che non rientrava nella moda, anzi era la sintesi di processi millenari a cui si aggiungevano nuove conoscenze. Questo riguardava anche pratiche liberali che spaziavano spesso dall’artigianale all’artistico, i copisti di codici, ad esempio, ma che erano anche comprensione di testi e di modalità di agire relazionale altrimenti incomprensibili. Noi pensiamo che la storia comune, basata su grandi avvenimenti, ci esaurisca e ci basti, ma non è così, ogni conoscenza che non viene trasmessa è perduta nella sua evidenza e di essa avremo solo labili tracce in quel fare per abitudine o in quei modi di dire che non dicono più nulla e non provocano alcuna emozione. Quello è lo spegnersi culturale che nel mentre viene sostituito, sotto di sé ha una schiera di persone che si sentono noiose perché hanno visto, sentito, provato altro da ciò che viene ammannito come nuovo ed è invece un artefatto che massifica e riduce molto a una accettazione o negazione.
Mi spiace non parlare la mia lingua madre se non a me stesso, mi spiace vedere cose che non ci sono più, profumi che erano parte di ciò che era il tempo atmosferico, le case, l’acqua, le stagioni. La mia generazione lascerà tracce poco interessanti, labili perché lente, memorie che non insegnano. Una cultura si spegne, era povera e molto materiale, accade in continuazione ovunque nel mondo, ma non consola. Il tempo ha corroso, ciò che si è disperso ora è molecola nell’aria.
24 maggio
Prima ci furono cortei, discussioni, dibattiti, scontri. Ma erano nelle grandi città, con minoranze rumorose, la gran parte del Paese era contraria a una guerra. Lavorava, faceva fatica ad arrivare a fine settimana senza fare debiti, cercava di crescere i figli sfamandoli e tantissimi neppure sapevano di che si parlava. Così a molti sembrava che le voci di guerra fossero cose distanti. Quel vociare, quei proclami e articoli infuocati, non avrebbero cambiato le vite. Nei giornali si scriveva che erano state confermate amicizie con Austria e Germania, ma l’Italia restava neutrale. In segreto si stipulavano nuovi patti segreti, ma questo non si diceva e il popolo non sapeva. Capiva però che comunque, altrove, la guerra era scoppiata. Sembrava ancora qualcosa di lontano, un rombo di temporale che mostra un fulmine senza pioggia e intanto si spera che ci girerà attorno. C’era timore perché sentivano che non ci sarebbe stato nulla di buono in ciò che arrivava, ma si sperava che il parere contrario dei molti sarebbe stato ascoltato, e non era evidente che era meglio la pace?
Poi qualcuno decise perché pochi interessi grandi contano più di tante piccole speranze e vite, perché pochi rumorosi contano più di tanti silenti.
Così cominciarono i preparativi, le cartoline di precetto, le esercitazioni. Ma anche in questa situazione che cambiava, tutto doveva durare poco. Intanto erano mutate alcune opinioni, per i più convinti c’era una ragione altissima, per tutti gli altri un obbligo e l’impossibilità di sfuggirgli.
Forse questa era la prima violenza.
Scoppiò il 24 maggio e vennero gli addii, che dovevano essere arrivederci. Tantissimi addii, come mai prima ce n’erano stati.
Poi ci furono tantissime giornate senza pericolo e tantissimo pericolo in poco tempo. Ma tutto questo, in quell’abbraccio ai piedi di un treno, ancora non si sapeva. C’era già una lacerazione da lontananza di affetti in chi si abbracciava, un bisogno che cresceva con la paura, e ogni saluto aveva il sapore dell’ultimo. Ogni ricordo nei giorni, nei mesi successivi, sarebbe stato avvolto da quella paura, nata a partire da un abbraccio.
E allora, ovunque, una solitudine infinita avvolse donne e uomini. Non bastava essere assieme ad altri, aver cose da fare, figli da crescere, lavorare. E d’altro canto, al fronte, non bastava spostarsi o stare fermi, scavare trincee o sparare a ogni cosa che si muoveva. Non bastava perché ciò che doveva finire non finiva, ciò che si desiderava non accadeva, e la solitudine diventava immensa e con essa cresceva un’atonia che prostrava, un dover motivare ogni giorno, ogni ora, ogni minuto la speranza.
Sfuggiva la speranza e restava la solitudine e la paura.
I giorni di quiete al fronte erano tantissimi, mentre quelli della paura infinita, pochi, ma così concentrati che le vite si consumavano a balzi di dieci, venti anni in un giorno, in un’ora. Quando tornarono, chi tornò, erano tutti vecchi.
Una cosa già si sapeva il 23 maggio: sarebbe accaduto un disastro. Ma anche un disastro si spera passi presto, che le cose tornino come prima, ciò che non si sapeva era che sarebbe durato talmente tanto da non avere mai fine.
Per questo una banchina di stazione dovrebbe diventare il simbolo, il sacrario delle speranze infrante.
Il luogo, il tempo, l’amore in cui gli affetti si saldarono in un abbraccio fu l’unica cosa umana in tutto quello che stava accadendo.
lettera a te

Figlio caro, questi anni sono scuri, pozze immani di disumanità che sembrano non finire. Non ci sono certezze, mentre vorrei per te una stagione di grandi speranze dove la tua vita, quella dei nipoti e poi avanti nelle generazioni, fossero un crescere di umanità che si riconosce, collabora, convive.
Può essere questa, la migliore delle età, la prima di altri tempi e stagioni buone perché mai come adesso abbiamo conoscenza e tecnologia che possono essere portate al benessere comune.
Come quando eri bambino, la sera, vorrei raccontarti le storie in cui entrambi credevamo, usare le parole squillanti della speranza che ritrovavamo al mattino e invece ho capito che la speranza è una conquista quotidiana, che ha bisogno di riflessione per farsi trovare. Non è che non ci sia, ma ora c’è una fatica maggiore della speranza che la mia generazione non ha conosciuto.
La mia età giovanile ha avuto negli anni ’60 una speranza che non solo alimentava il fare, ma faceva trovare occasioni vere, lavori solidi che permettevano di costruire futuro e progetto personale, ed era lì, ogni mattina che ti attendeva. Per questo forse potevamo criticare così profondamente il sistema, le convenzioni dei nostri padri, il potere, le parole vuote che ci circondavano. Potevamo ribellarci perché il futuro era a portata di mano, lo si poteva toccare e cercare di cambiare, mantenendone la possibilità che ci riguardava. Quella che è stata sottratta a te e ai nipoti è stata anche questa capacità di critica profonda, il credere che cambiando la politica, il potere, cambiassero i rapporti tra le persone, e che insieme si stesse più bene.
Non riesco a capacitarmi come noi, padri, madri, non siamo stati in grado di vigilare mentre il Paese andava a rotoli. Per egoismo, forse, ma ancor più per incapacità di capire, isolati come eravamo, nel pensare alle rivoluzioni tradite, persi nei nostri libri, nella musica che parlava di noi, nel pensare la nostra meglio gioventù, mentre ci sfuggiva la vostra giovinezza, la vostra capacità di creare il nuovo. Noi quel nuovo che cercavate di mostrarci, fatto delle prime difficoltà della nuova stagione della politica, non lo capivamo, eppure avevamo e abbiamo bisogno di voi, ora come allora, ben oltre l’amore. Abbiamo bisogno della vostra freschezza, della vostra visione del reale. Siamo diventati ciechi e la realtà ci sfugge e così ci sfugge la percezione di ciò che è necessario fare. Non può essere altrimenti visto che abbiamo lasciato precipitare la situazione al livello attuale. Un Paese, il nostro, nelle mani della destra e di donne e uomini che non colgono i problemi veri, ecco quello che siamo stati in grado di produrre con il nostro non vedere.
Eravamo già ciechi prima. Quando cadde quel muro la polvere invase tutto. Non solo la politica, ma la vita, quella di tutti i giorni. E tu, voi, eravate piccoli, mentre noi pensavamo, non eravamo, pensavamo che sarebbe finito presto, che si sarebbe riaperto tutto dopo gli anni craxiani della Milano da bere e dei rampanti. E che quell’ondata di pulizia, così diversa dalla nostra, fosse rigeneratrice proprio per quel suo provenire dall’interno, dai giudici per bene, non quelli fascisti che avevano per decenni insabbiato tutto. Un Paese nuovo senza corruzione né raccomandazioni, e questa cosa riguardava anche te, voi, che eravate adolescenti, ma sareste cresciuti in un futuro pulito. Vostro e nostro, assieme. Ci sbagliavamo. Noi, i padri e le madri usi ai cortei, alle manifestazioni, ci sbagliavamo. Quel muro crollato lontano, in realtà travolse noi, non il malaffare e i ladri di futuro, mascherati da giustizialisti uscirono allo scoperto. Chi si era già intruppato ne approfittò per emergere, gli altri, noi, cercavamo di capire. E non capimmo. Le nostre vite si sono riempite di bugie, fuori bugie grandi per occultare, dentro bugie piccole, omissioni, per vedere ciò che ci sarebbe piaciuto. E le bugie oscuravano la realtà.
Mi sono chiesto come questo Paese abbia potuto diventare tanto indebitato e ineguale. Sono giunto alla conclusione che l’ineguaglianza è l’indice della perdita della misura del giusto. Mi chiedo dove eravamo mentre la giustizia veniva vilipesa da un uomo che si faceva beffe dei giudici e dei tribunali. Dove eravamo quando le grandi aziende, il sapere del fare cose complicate, venivano vendute. E quando la chiesa riprendeva a dettare le agende di governo, scopertamente, senza ritegno, dove eravamo. E quando cadevano i nostri governi per mano amica, quando non si facevano le leggi sui conflitti d’interesse, quando si taceva sulle quotidiane bugie sull’economia, dove eravamo. Eravamo confusi, sembrava che bastasse attendere e tutto sarebbe passato, che quanto accadeva fosse esterno alle nostre case, che dentro non succedesse nulla. Non era così, Figlio caro, e mentre la muffa fuori ricopriva le cose e le idee, quella stessa muffa penetrava nel nostro modo di vivere. Abbiamo via via accettato l’idea di non essere molti e determinati, ma singoli dentro al nostro naufragio ideologico. Sì, ci siamo lasciati convincere che noi eravamo i naufraghi, il nostro mondo, i nostri valori. Gli stessi che vi avevamo trasmesso e allora abbiamo cercato di proteggervi di più. Ci siamo illusi di potervi bastare, di essere sufficienti perché la muffa non entrasse nelle vostre vite, finché qualcosa, noi o il tempo, avrebbe rimesso in ordine le cose, pulito il mondo comune. Per questo eravamo impegnati a difendervi e difenderci. Ci siamo sbagliati, quel mondo che per noi era sbagliato, stava diventando il vostro. Abbiamo vissuto in un’altra realtà, in altre speranze, ma il mondo vero, in cui agire, era il vostro, quello che diventava sempre più grigio, sempre più chiuso.
Ciò che era stata una conquista, la scuola per tutti, diventava un’ulteriore diseguaglianza tra chi, dopo, avrebbe avuto un “padrino” e chi, invece, sarebbe stato affidato a se stesso. La stessa sanità per tutti, si avviava a non essere tale e diventare fonte di un potere inscalfibile. Questo ci faceva abbarbicare alle cose, al già stato più che immaginare il nuovo. Quello che era il nostro mondo migliorato da tante lotte sembrava non bastare. Eppure noi volevamo per voi vite normali e felici, esistenze che passassero attraverso la realizzazione di sé in una società amica. E invece quel mondo e quella possibilità cambiavano e noi non l’abbiamo capito, forse persi nell’illusione di bastare, di riuscire a conservare il buono raggiunto e cambiare le cose con la volontà.
Ci siamo lasciati separare, scindere le vite e la comunicazione, mentre avevamo e abbiamo bisogno di capire e camminare assieme a voi, di condividere la realtà e la speranza. Quella nuova, quella da costruire. E’ tardi, ma non ancora troppo tardi, siamo vecchi e non domi, tu sei sano, molti di voi sono sani e non ancora rassegnati. Non basta più attendere che passi, abbiamo bisogno di voi. E voi, forse, di noi, perché ci sia qualcosa di nuovo, perché tutto non sia già visto e scontato. E’ con amore che lo penso, l’amore fuori discussione che non impedisce di vedere la realtà.
Il mio può sembrarti un discorso da reduci, ma non siamo tali perché la guerra non è finita e non abbiamo vinta una sola battaglia. E poi sono così noiosi i reduci, raccontano il passato e non sanno vedere il futuro. Spero che tu capisca che abbiamo bisogno di voi e non siete soli, ma che dovremo fare uno sforzo per immaginare qualcosa di nuovo, qualcosa che spinga avanti, che ci porti fuori dalle case, che faccia cambiare l’umore del Paese. Ne abbiamo bisogno tutti, voi per immaginare un future che vi appartenga, noi per non aver sbagliato troppo. Per questo ti chiedo di camminare assieme, di riprendere ciò che si è lasciato cadere e che sono i nostri ideali, di unirli ai vostri, in una visione del mondo che sia più grande di noi e che meriti i nostri sforzi, il nostro impegno. Con amore e con speranza al lavoro e alla lotta.
cose

La stanza in cui sono stato all’Asmara, aveva pochi mobili. Un piccolo armadio di legno massiccio, il letto con la testiera di ferro, i comodini alti, anch’essi di legno pieno e scuro, un tavolino e una sedia. Sul ripiano del tavolo le mani, i bicchieri, unghie nervose, avevano lasciato il segno, il caffè forte e scuro aveva tracciato cerchi che si intersecavano. Una parte del legno era rimasta al riparo della luce e delimitava un rettangolo entro cui si era scritto, lasciato libri aperti, letto.
Alle pareti bianchissime di calce, erano appese due stampe con spiegazioni in tigrino. In un angolo della stanza, su entrambi i lati, erano stati dipinti un cammello e una palma che arrivavano a metà altezza, con un colore che andava dall’ocra al marrone. Il cammello guardava curioso verso il ripiano dello scrittoio, la palma era carica di datteri. Un abitante della stanza aveva lasciato il segno ed era stato conservato. I mobili erano resti della dominazione italiana, venivano dalle case lasciate o forse erano sempre stati in quella casa. La cucina, dove facevo colazione e qualche volta cenavo, era ariosa, con una porta finestra che dava su un cortile e poi sull’orto. Sulla parete di sinistra stava una grande cappa, sotto c’era il fornello a due fuochi che occupava parte di una lastra, forse di pietra tenera, dipinta ad olio di un rosso acceso. Su parte di quel ripiano, la signora che mi accudiva, faceva fuoco e cucinava. Non ho mai sentito odore di fumo, il camino aspirava benissimo. Quasi per ultimo, in continuità con il ripiano rosso, c’era il secchiaio di granito, incassato nel muro. Aveva un robinetto di ottone, come quelli che si vedono ancora in qualche giardino. Non sempre, ma quando c’era, l’acqua si lasciava cadere in un flusso sottile, senza turbolenze, un cono che s’assottigliava in filo e che comunicava un senso di fresco. Tagliare con le dita quella consistenza trasparente faceva nascere la voglia di bere all’antica, porgendo la bocca con la testa di lato. Laddove il flusso batteva, c’era l’area chiara dell’acqua che detergeva la pietra e stabiliva la sua dolce, tenace, differenza. Una geografia dell’uso, che rassicurava sulla persistenza delle cose, della percezione del mondo. Il mondo si divide tra chi si aggrappa alle sicurezze del passato e chi si getta nel nuovo. Tutti hanno i loro motivi, ma nessuno è privo di radici e queste ovunque trovano linfa a cui attingere per nutrire il pensiero quieto del vivere.
Sopra il secchiaio, c’era una mensola con davvero pochi piatti e bicchieri, le stoviglie, erano dentro un vaso di terracotta forato, nell’angolo della vasca. Il tavolo, con l’incerata a quadri, stava al centro. C’erano quattro sedie di legno, proprietarie di una scomodità per me nuova e che testimoniavano a chiunque la loro costante presenza nel sedersi, come non ne fossero contente e volessero limitare l’uso di sé. Sulla parete destra c’era la credenza. Di legno, con i vetri molati nel sopralzo, con lo stesso stile primo novecento degli altri mobili di casa. Gli spazi e le pareti erano vuoti, l’aria correva allegra, le finestre sbattevano, non c’erano tracce di presenze pittoriche notevoli come in camera. Però si sentiva che molti lì avevano abitato, era stata la loro casa, avevano pensato, trafficato, costruito progetti e fantasie.
L’assenza di superfluo nelle stanze, mi faceva pensare alla casa dov’ero nato. C’era un modo di pensare comune che si muoveva nelle funzioni delle cose e negli spazi. Nella mia casa, cucina e soggiorno coincidevano in una stanza grande, quadrata, e c’erano mobili simili a quelli dell’ Asmara, una cappa, la cucina economica e nell’angolo, vicino alla finestra, il secchiaio. La stanza si completava con la credenza e l’aggiunta di un’ottomana rossa, di legno massiccio e ben imbottita per diventare un luogo per il riposo pomeridiano. Le pareti erano imbiancate ogni anno da mio Padre, che ingentiliva la calcina con un rullo intinto nel blu o nel rosso pompeiano e che riproduceva un disegno damascato. Una stampa solitaria era in disparte, era un particolare della “tempesta” del Giorgione. Poi null’altro, le mie manate venivano cancellate accuratamente e così qualche piccolo disegno a matita, prima che la pedagogia di allora mi insegnasse che il bianco non si tocca. Al centro della stanza il tavolo, che con le sedie e la credenza, veniva dall’osteria del bisnonno. Quei mobili avevano percorso traslochi e vicende di famiglia, muovendosi su carri e poi camioncini, ma allora bastava poco per traslocare.
All’Asmara, mi chiedevo quando le cose avessero cominciato a vivere con noi, a occupare spazi, a soddisfare desideri oltre l’utile e generare ricordi. Capivo che le case erano grandi perché ero bambino, avevo pochi pensieri, molto da capire e da apprendere, ma potevo correre perché c’era spazio e giocare sotto la tavola. E non era proibito se non durante i pasti.
Non ho un giudizio sulle cose, accadono come i fatti. Hanno una sequenza, un ricordo, si accumulano e si accalcano, mettono in disparte l’utile e il necessario. Sono mute ma parlano e nel silenzio della notte, chiacchierano di più. I loro suoni hanno il senso delle stagioni. I materiali ricordano le loro origini, mostrano i nostri distratti sentimenti. Quando si disfano, chiedono soccorsi che ormai il consumo nega e finiscono. Finire è ciò che accompagna l’essere delle cose. Come il loro avere amore e poi sentire che è solo memoria.
giorno in libera uscita


Una giornata cioccolata.
Densa, cremosa, scivolata
da un gorgo di passione stanata,
è un richiamo, una mano,
una tazza, del fumo,
un segno intuito e baciato.
Amara, dolce giornata.
Bollente.
Negli occhi brillata
oltre la lagrima che s’è risentita,
la parola sbagliata.
Ora s’ allarga il profumo,
si spande, sorride, sofferma,
dei tavoli pieni di briciole e tazze,
raccoglie i sussurri, i clangori,
le voglie.
Portata in punta di labbra,
sorniona la lingua è ammaliata,
cioccolata che di sé s’assapora,
è ultima goccia
nel labbro arrogante,
e lo trabocca, schermisce,
s’offende.
Sensuale risente
il passato sapore pretende.
E ancora. Ricorda.
Giornata che in spirali s’involve,
che su un centro s’avvolge,
attira, scorre, nel profondo travolge.
E scende.
Entra per uscire trionfante
dell’amaro che il dolce dissente,
assapora, gusta ed attende.
È dolce, croccante,
possente,
a sé il tempo riprende.
Ma dopo,
e solo se attende.
della mal dicenza

Il racconto procede a salti, come accade ad una cena dove l’interesse è altro e il contorno avvolge le parole. La loro precisione s’approssima, si spezzetta tra un boccone e il successivo, così ciò che ne emerge è un’impressione, uno schizzo a carboncino di qualcosa che comunque arriva e viene elaborato. I fatti si perdono in tempi comuni,: altri ruoli, altre situazioni, ma in una vita ci sono fili che sono principi e quando li si spezza si diventa altro. Forse per questo si tengono così da conto, perché sono identità. Ci si riconosce e ci si ritrova in essi.
A lungo ho meditato sul rancore, sui sentimenti negativi che esso provocava. L’ho scorticato per capire cosa celasse e ho trovato attese deluse, disattenzioni dolorose che testimoniavano dipendenze negate. Un paniere di cose non accadute, di altre conquistate e non riconosciute, fino all’epilogo di un abbandono per manifesta incongruenza tra energie profuse e risultati. Ma ne ho impiegato di tempo per capire che non era il caso, sottovalutando i segnali, l’aria fosca delle conversazioni, il procrastinare delle decisioni attese, poi la libertà del decidere, di condurre facendo errori e cogliendo quello che era possibile. Come finisce il rancore? Attraverso un gesto che è una decisione, una svolta e poi una convalescenza che ripristina la distanza dalle cose. Ci si impiega tempo. Quello che serve finché l’equilibrio viene nuovamente ritrovato, più avanti. In una condizione di vita che ha rimesso a posto le relazioni. Non è questione di torto o ragione ma di come si colloca l’attesa in una disponibilità di altri, uscire dal rancore significa ritrovare i fili intatti dei principi e la libertà di costruire con essi. Tra il rancore e l’invidia ci sono relazioni sottili, ma raramente si pensa, o almeno così mi è accaduto, di essere oggetto di invidia. E invece mentre pensavo che ciò a cui potevo aspirare mi veniva negato ed estirpavo con cura l’invidia dal giudizio, quello che facevo, il ruolo che ricoprivo era oggetto di invidia. Questo emergeva dal discorso che riandava a fatti e ricordi.
I ricordi sono una massa manipolabile, sempre molto sbozzata e riportata in un presente che è molto mutato per noi e per i fatti che accadono, ma se si usa un portolano che ci orienti rispetto ad essi, la rotta si legge e quei fili di cui parlavo, si ritrovano in mezzo agli errori e agli insuccessi che costellano ogni progetto del fare nella vita. I quel racconto a cena emergono persone e giudizi, avversioni che neppure avevo notato visto che il mio lavoro era spesso lontano, che i risultati erano numeri di bilancio, che le cariche erano giustificate solo se c’era una positività nel loro esercizio. Quello che allora non consideravo era che proprio la carica, per me ben meno di ciò per cui prima avevo speso e lavorato, era invece oggetto di giudizio e invidia. Qualcosa mi arrivava ma non ci davo peso e così ho continuato a occuparmi d’altro senza capire che il clima caliginoso, le parole non dette, la stessa freddezza per cui poi decisi di chiudere l’incarico senza nulla pretendere aveva un ambiente parallelo in cui si alimentava. Persone che non conoscevo o che conoscevo a malapena, parlavano male di me senza sapere cosa facevo, quali erano le difficoltà, i risultati raggiunti e quelli falliti. Nulla contava, bastava un giudizio e l’apparenza di una facilità che non c’era.
Male dire è colto nel suo significato più pieno e terribile dell’invocare il male su qualcuno, ma esiste una etimologia più profonda che dovrebbe indurre a controllare ciò che si dice e invece si banalizza. Non sono solo parole ma giudizi che poi prenderanno una persona, un gruppo e questo dovrebbe attingere ai fatti, alla conoscenza, non è gossip, non è leggero, si alimenta il peggio dell’uomo ovvero la sua disponibilità a credere ciò che diminuisce gli altri per esaltare se stesso. Pesare ciò che si dice è un atto dovuto, perché le parole pesano e generano errori in chi ascolta.
Penso che in quegli anni, inconsciamente, si sia rafforzata l’idea che il giudizio nei rapporti sia un sentire indebito e pericoloso. Cosa ben diversa dall’intuito, esso portava a vedere non l’insieme ma il particolare, sostituiva la propria idea dell’altro, o ciò che si credeva giusto, con la persona e la sua umanità.
Si impara da ciò che si sa e si capisce, ma anche da ciò che dentro di noi trova i fili per connettere i fatti a noi stessi. L’inconscio ci vuol bene e ci aiuta a trovarci oltre le negatività, i sentimenti negativi lo sono per chi li prova. Avere una immagine di sé riportata da altri che ci fa pensare a come eravamo, fa pensare e capire cose che ci erano sfuggite, dispiace non aver colto allora, ma abbiamo vissuto e i fili rimangono intatti.

