I suoni si gonfiano dalla vecchia radio; morbidi sul rumore di fondo assomigliano a colpe mai perdonate. Onde medie e valvole imprecise, per scelta, oggi riportano ai tepori rumorosi d’infanzia, agli elastici un po’ lenti, alla voglia di rimettere a posto indumenti negli accordi che sbavano appena. Basta tendere l’orecchio e s’ intuiscono pensieri, che infilano imbuti di note: pare, m’era sembrato, mi pareva, bianchi e neri di suoni, simmetrie di sentimenti, rimbalzi. La musica ? Non ci salverà, come i ricordi.
Il pensiero è altrove, nella luce d’inverno che corre presto nella notte, rossa ed umida in cerca del calore, che fa vibrare di carezze il cuore.
Da qualche parte, a casa di mia madre, dovrebbe esserci una valigia che ricordo da sempre. Fatta di un materiale di un bel colore biondo, rigida, con le chiusure a scatto d’altri tempi, quella valigia aveva seguito mio padre e mia madre, sin dal loro viaggio di nozze di guerra. E la ricordo, pesantissima, da bambino, che d’estate si riempiva di spaghetti, “subioti” e altro, per le nostre lunghissime vacanze al mare, dove non c’era la varietà di cibo della città. C’era una gara, con mio fratello, per portarla su e giù da vaporetti, filovie, treni, poi sarebbe tornata leggera, come i nostri occhi, che si sentivano straniati guardando la casa, le scale, le cose mie e nostre, dopo tanto tempo d’assenza.
Ecco, quella nozione antica di peso, non la trovo più, le valigie hanno le ruote, i portabagagli sono diventati rari nelle stazioni, negli alberghi il trasporto in camera, spesso, è su richiesta. Un campione di platino iridio giace a Sèvres, ma per chi sarà quella sensazione tangibile da palmo della mano? Sono i nuovi abitanti del mondo a circolare con enormi valigie e bagagli. Mani, muscoli, spalle, collo, testa, equilibrio, tutto connesso al quotidiano, ma ancor più alla nozione del vivere. Una nozione che sfugge ormai in occidente, nella civiltà dei colletti bianchi. Mi sono chiesto, vedendo le montagne di bagagli che seguono uomini e donne vicino a corriere, treni, aerei, da dove venissero quelle enormi valigie, quei borsoni a misura d’uomo, nel senso che possono tranquillamente contenere un uomo. La risposta, dalla Cina, è parte della domanda, perché questo significa che c’è un mercato compreso da qualcuno, che giustifica una produzione di massa, che esiste altrove una percezione di una realtà del mondo fatta di grandi numeri rimossi dalla nostra necessità. E quindi esperienza del reale, che vediamo e non capiamo perché la cosa non ci appartiene più. In Africa, in Asia, ovunque, ci sono file di persone in cammino, cumuli di fagotti, di scatole, valigie più o meno sfondate, una sensazione del peso che ci è sfuggita. Ci siamo gradatamente liberati dal peso per liberarci dalla fatica, adesso è la borsa della spesa a dare la misura, e tende a pesare di più, come sempre accade nei periodi crisi: le cose leggere costano di più, mentre il pane, la pasta riempiono e saziano. Gli anziani lo sentono di più per i limiti fisici e per il progressivo impoverimento. E il senso del peso indica la relazione tra popoli ed economia. In questo caso, riflettere sulla fatica si connette alla percezione del mondo, un rendersi conto di dove siamo e come stiamo mutando, noi, qui ed ora. Quasi un tracciare il limite del nostro recinto, culturale, economico, fisico che, nella liberazione della fatica ha trovato la propria ragion d’essere, ma non riflette e perde senso se non capisce che precarietà e peso sono condizioni del vivere e che lì c’è una delle contraddizioni dell’economia eguale.
Il filare dei platani alza il grigio dei tronchi verso un trionfo giallo e bruno. Le strade dei contadini e dei signori erano piacevoli all’occhio, toglievano il peso dell’andare, almeno per poco. Novembre era un mese in cui i fittavoli che avevano terra e orto e stalla avevano già predisposto i campi per l’inverno e si dedicavano ad avere cibo e attrezzi necessari a superarlo. L’orto dava radicchi, verze, carciofi, cavoli. Le zucche erano scorta come le castagne e la frutta da maturare e seccare. Il maiale, ignaro, ingrassava, come i polli che non avevano notato il destino delle oche, tutti mangiavano in un ciclo in cui nulla veniva gettato. La sofferenza si consumava lentamente, inframmezzata da racconti e giochi, luci fioche, freddo ovunque che non fosse la cucina, la stalla o il letto con lo scaldino. Crescita e vite sempre nel limite della fame e della fatica. La mezzadria, i patti agrari, il bracciantato sono termini che nessun giovane conosce, quelli della mia età li hanno rimossi. In cinquant’anni un paese agricolo si è trasformato in industriale, poi in generatore di servizi e marchi di moda, adesso non si capisce bene verso cosa vada.
Qualche giorno fa ero in mezzo alla campagna, all’inaugurazione di un impianto fotovoltaico a terra da 2.7 MW, cinque ettari di pannelli. Un tempo ci vivevano due famiglie fatte di nonni, figli, bimbi, anche 40 persone che coltivano grano, vino, orto, pollaio. Crescevano figli, imparavano molto dalle mani, il necessario sui libri, appena grandi sciamavano come uccelli, verso città di cui conoscevano a malapena il nome. Cercar fortuna era un modo di dire che includeva immane fatica, lingua nuova da imparare, usi, costumi, cibo, lettere da scrivere ai vecchi che avevano 40 anni ed erano ancora legati alla terra, alla fatica, agli alberi che erano sul limite del campo, nel fosso. Se c’era fortuna e generosità, un po’ di soldi andavano a casa, per comprare quella terra da stenti, la casa, con l’idea di tornare che troppo spesso passava e diventava racconto.
Non mi piacciono gli impianti fotovoltaici a terra, sono solo soldi senz’anima, che producono energia per alimentare spesso ciò che è superfluo e trascurano il cibo che un tempo nasceva da quella terra. Guardavo, sentivo pezzi di discorso, rumore di bottiglie stappate. Faceva freddo, c’era il vento giusto per il primo raffreddore di stagione. Su due tavoli con tovaglie candide, piatti di salame, pane fresco, vino e pasticcio caldo. Tre camerieri in giacca e grembiule bianco porgevano assaggi. Un quadro incrinato, felliniano e stridente, zuppo di significati e contrasti.
Una classe di ragazzi di un istituto tecnico, faceva folla, interessati al salame e a un lavoro futuro, trattenuti a forza nel presente e meno alla precarietà dei contratti che avrebbero conosciuto. Toccherà sempre ad altri, ma non è così.
Il prete ha parlato a lungo con Genesi e preghiere, la nascita della luce e il fotovoltaico, più stringato e concreto, l’amministratore della società tedesca ha tagliato il nastro. Io pensavo a Olmi e all’albero degli zoccoli e mi parevano fuori posto quei ragazzi, con i vestiti degli studenti di campagna, fatti di strati di felpe da mercatino e calzoni sformati di jeans, con la professoressa giovane, piena di freddo, vestita per altra occasione importante, ma non per quel posto in mezzo ai campi, (calza giusta, vestito di lana a pelle e giubbino da bar del pomeriggio). L’insegnante maschio, invece era incappottato e desideroso di tornare nel caldo di una stanza. Supponente come chi ne ha viste tante, e provate di più, sbuffava scetticismo sulle promesse solenni della politica. Sapeva che da essa e da lui, non sarebbe dipeso quello che quei ragazzi davvero avrebbero potuto fare nella vita. Senso dell’inutile a cinquant’anni, una diversa vecchiaia.
Quei ragazzi erano i nipoti dei fittavoli, poi diventati metal mezzadri e infine artigiani, a loro non era rimasta appiccicata la sofferenza degli avi.
I proprietari dell’impianto avevano scelto le 11 del giorno 11, San Martino, per l’inaugurazione. Chissà che funzioni davvero per questi ragazzi la baggianata delle coincidenze, che porti bene anche se nasce da sistemi di misura inventati da ometti che neppure sanno ordinare bene il mondo in cui vivono.
Intorno c’era la campagna della bassa, così bella d’autunno che (lei si davvero palindroma e insensibile), si poteva leggere in senso inverso e lo diceva a chi ascoltava con gli occhi : io c’ero prima e ci sarò anche poi, voi no.
Mi sono fatto travolgere dal pensiero di ciò che è stato, così immobile di stagioni e fertile di mani, come fosse un pensiero trasversale della terra. Un sistema di numerazione basato sull’11, che accorciava gli anni per seguire il tempo meteorologico che ormai sfuggiva le stagioni e mi faceva sorridere la capacità che abbiamo di entrare ed uscire dal reale pur di far finire quello che ci annoia.
Ero davanti al mare di foglie giallo brune di vite e di platano, immerso nel riflesso dei pannelli e pensavo che qui, in questo luogo, poteva nascere qualsiasi pensiero, qualsiasi idea che poi avrebbe rigato il mondo.
Con l’ultima parola che ancora oscillava dalle casse acustiche, è scattato il rompete le righe ed una folla di mani si è avventata su piatti, forchette e cibo. Il gruppetto dei notabili sorrideva, mentre con i proprietari, si avviava al ristorante.
Ci sono quelli che non si voltano mai indietro. Hanno una grande coscienza di sé, lasciano uomini e cose e pensano al nuovo. Altri, più incoscienti, sono incollati alla propria storia, l’hanno ficcata dentro uno zaino che è diventato pesantissimo. Pensano di conoscerne a memoria il contenuto e così ci guardano di rado. Ma se lo facessero scoprirebbero cose interessanti. In compenso lo portano in giro rassicurati dal ricordo e dai fili che sembrano tener aperte comunicazioni. Dall’altra parte dei fili ci sono esigenze ormai spente, oppure altre che non s’accontentano. Intendimenti diversi che si erano incontrati. Ora che resta? Per fortuna pesi diversi.
Qual è il limite di peso consentito per volare davvero con la mente e la fantasia? E quale è il peso tollerabile del vivere se in un momento di quiete, oppure di passione, venisse voglia di andare e basta. Di togliere senso al tempo non proprio e camminare? Si sarebbe fatta la pace con ciò che non è accaduto, e vuotato lo zaino, riprenderebbe la storia dall’incipit evitando quelle noiose prefazioni che spiegano tutto e tolgono gusto. Capire il limite del passato non è accontentarsi e neppure farsi una ragione.
Nell’adattarsi il corpo si piega e si chiude, lo si vede nella postura che a volte si ribella; soccorrerebbe allora l’immagine del risveglio felino, che si stira e si guarda attorno stupito. Per un attimo, solo per un attimo, prima di una nuova mobile indifferenza.
Non c’era motivo o forse non lo percepivo, ma le cose, lentamente, si erano voltate e da baluardo delle giornate, assieme alle abitudini, si erano ribellate. Era il mio modo di vivere e ora si ritorceva, riottoso al ragionare fatuo, manifestava una precisione puntigliosa nel mostrare l’inutile più inutile allo star bene. Cominciava dalle cose che si erano accumulate ed erano instancabili nell’esercitare una richiesta costante di scelta e di ordine. Con la loro presenza, un tempo rassicurante, ora richiamavano incontrovertibili logiche generali che non riguardavano me e il mio piccolo mondo, ma una severa dimensione del potere dell’ordine sulle vite. Dicevano che ciò che era stato benevolmente concesso, il tempo posticipato, non poteva continuare ad essere tale, né ritornare ad una dimensione in cui tutto poteva ancora accadere nella misura del desiderio. Quel mondo si era esaurito, era già stato e ora non più.
Non c’è antidoto alla logica che ci portiamo appresso, solo il rifiuto della fretta del decidere e l’attesa del ristoro del sonno, perché non si deve per forza capire tutto subito, né tanto meno razionalizzarlo sempre. Ciò che non si capisce o non si accetta è comunque un peso, ma almeno lascia spazio al mistero, all’apparente inconciliabilità di ciò che ci accade con il mondo di cui abbiamo notizia. Questa inconciliabilità rende estetico l’ordine personale con la vita e ci fa capire che ci può essere un disordine senza colpa grave a cui si contrappone un ordine senza umanità. La misura del nostro piccolo mondo, della nostra sofferenza e del nostro piacere è un fragile equilibrio ma non per questo, l’una e l’altro sono privi di effetti nelle nostre vite. E bisogna capire che non la felicità ma già lo stare bene, il progetto dello stare bene, include la speranza e quindi una mitigazione forte del razionale che ci indurrebbe a non perdonarci.
Quello che non abbiamo e che sarebbe giusto avere, dovrebbe servire a vivere trovando passione e compassione per noi stessi, per le speranze di cambiamento, per non subire la dittatura della logica della necessità.
L’individualismo di cui ci si ammala, fa perdere il senso della misura. Risponde ad altro. Non è logico e asserve a dipendenze di giudizio. Porta in sé l’aporia dell’indifferenza e del lasciare che gran parte delle cose si facciano per loro conto purché ci sia ordine estetico. La colpa poi le concilierà con il voler determinare tutto ciò che è utile. Possediamo davvero un noi, che apre gli occhi, consente di guardare avanti ed attorno e che libera? Non lo so per davvero perché si è prigionieri di un ragionamento assoluto, l’io elevato a discrimine, socchiude gli occhi e scarta tutto ciò che non è razionale a sé.
La filosofia del momento è la razionalizzazione del pessimismo del vivere, del sapere già cosa accadrà e quindi negare nel profondo un progetto personale aperto alla sorpresa, al disordine della logica. Questo ci rinchiude unicamente nel sé immediato e non consente di posticipare perché presume che tutto finirà presto e che nulla sia davvero solido.
Le cose e ciò che accade, mostrano invece che non siamo un progetto razionale; con i costanti bisogni d’amore, di benessere nostro e di chi ci sta vicino. I bisogni non sono razionali e ci dicono che abbiamo necessità di introdurre la speranza, la fiducia nel corso positivo del nostro mondo.
Questo è un progetto poco ordinato e inclusivo, dove la relazione ha un aspetto sostanziale: noi siamo esternamente ciò con cui vogliamo avere una relazione. Questo implica il dare, e in esso c’è un passaggio che ognuno risolve a suo modo: il dare implica una idea di vantaggio relazionale oppure è un bisogno di equilibrio interiore? Se do perché m’aspetto di ricevere, ho già messo un limite, un giudizio, a ciò che riceverò e questo mi toglierà la speranza, l’inatteso dal vivere. Se invece il dare è “solo” un bisogno di rendere concreto ciò che sento, allora è un’apertura senza oggetto. Corro il rischio di essere solo e quindi di fraintendere ciò mi arriva, di attribuirgli significati impropri. Tutti abbiamo esperienza dell’innamoramento, momento in cui la comunicazione si basa enormemente sul dare, ma sappiamo, poi, che se questo dare non è equilibrato diviene un prendere, un pretendere, e il fraintendimento emerge con tutta la sua carica negativa.
Ciò che penso è che la necessità di un progetto personale implichi dosi molto misurate di razionalità, che la percezione del proprio ignorare sia cosciente e accetti il mistero, ovvero ciò che non si conosce e non si razionalizza. L’imprevisto è l’apparente irrazionale. Penso che la proiezione in avanti di un progetto personale includa il momento, la soddisfazione del desiderio, ma anche il suo divenire e quindi introduca prepotentemente la speranza come filo rosso del vivere.
Ciò che resterà incompiuto non si doveva per forza compiere ma già l’incompiutezza è un percorso che ha aumentato la consapevolezza. Le cose vanno ricondotte al proprio posto con la benevolenza che ci dobbiamo, sapendo che ognuna di esse pretende l’attenzione del ricordo o dell’incompiuto, ma non è solo l’ordine che le riporta a un rapporto interiore, è la loro carica di irrazionale che deve essere espressa, vista e messa da parte. Chi scarta tutto ciò che ha significato e il rischio che lo accompagna, ha paura di essere privato di qualcosa, si consegna al transitorio, alla mera razionalità e alla sua finitezza immediata. Vuol portare a casa subito un ordine interiore che non è suo. Se tutto è destinato a finire si consuma per la propria solitudine.
Ma non è forse questo il presupposto per impedire una risposta positiva al bisogno d’amore?
Stamattina, da poco passato mezzogiorno, la via che un tempo mi faceva timore come una infinita distanza da casa, era piena di sole. I palazzi che poi ho amato, quelli abborriti, erano immersi nella quiete di passi distratti. Alcune persone ai tavolini di un bar parlavano dell’autunno precoce e una sequela di portici si protendeva oltre la curvatura della strada, la chiesa non si vedeva e gli archi sembravano non finire in qualcosa da scoprire. Ogni volta che passo rivivo il piacere di una adolescenza irta di difficoltà ora quiete, avrei avuto episodi infiniti da raccontarle sulla strada in cui lei abita, non l’ho fatto per stanchezza. Tutto si era concluso in una fatica che si trascinava, ma l’abitudine di non chiudere le porte è rimasta e ciò che non le ho detto è rimasto a lievitare nelle libere associazioni dei pomeriggi.
Dal suo palazzo si vede l’interezza del giardino che dall’Ercole dell’Ammannati si estende per l’intero cuore di un quartiere. Il portiere non mi ha mai concesso di salire sino alla terrazza e di fotografare ciò ho bene nella mente. Tra quelle strade che dall’alto sembrano tagli netti nelle case, sono cresciuto, ho corso sulle gambe di bambino, sognando e guardando ciò che nasceva intorno. Si giocava spesso nei cantieri, inseguiti dalle bestemmie e dai sassi dei manovali, ma troppo forte era la tentazione di trovare “cose” tra i detriti di ciò che veniva abbattuto in aggiunta alle rovine della guerra. I tesori erano resti di memorie. Cartoline, libri sdruciti, accartocciati dalla pioggia e dal sole nascosti tra ferri che diventavano archi e frecce, erano vetri colorati che si mescolavano ai dischi di bachelite infranti, ai cassetti di scrittoio di cui restavano pezzi d’intarsio e incastri accurati. Una miniera in cui poteva emergere di tutto ed era quella possibile scoperta che affascinava, che alimentava i racconti dopo una fuga con i piccoli tesori raccolti, le mani tagliate, le gambe ricoperte di polvere di calce. Seduti in un rifugio sicuro, dietro la chiesa che veniva ricostruita dopo l’immane disastro del bombardamento, scambiavamo cose, racconti, pensieri di un crescere che da ogni frammento di parola, di cosa, di conoscenza, di percezione costruiva possibilità, usi, giochi, persino parole nuove che diventavano gergo. Potevo raccontarle tutto questo, assieme al ritorno nella sera, a casa. La complicità di mia nonna nel lavarmi, nel rendermi presentabile oltre gli strappi, le abrasioni, le suole consumate dal correre?
Quando passo per la via, davanti al palazzo che ho visto costruire e dove c’è il suo nome tra i tanti campanelli, cerco il suo volto, Siamo invecchiati entrambi, ma le vite scorrono parallele su strade scivolose e le riflessioni di ciascuno non si incontrano più. Quando ci si conosce in profondità si intuiscono i pensieri o almeno la nuvola di intenzioni che li genera. Era piacevole sentirmi raccontare com’ero allora, ma al tempo stesso sentire in lei il pensiero che si formava. Mi sorprendevo dell’intuito, del nuovo modo di vedere le cose. Cercavo l’essenziale come ora cerco il suo volto e un saluto da scambiare, eppure allora, come adesso, c’è in me il molto e il poco che si confondono. Ciò che fa star male vedendo un fine alle notizie, ai fatti è il racconto del piccolo che ha una sua grandezza e prende il volo nella fantasia del possibile. Ripensavo al Carducci di Davanti a San Guido, alla dualità che ognuno di noi possiede se ha lasciato la porta dell’infanzia, della prima giovinezza aperta. Pensavo a come da quella porta veniva un vento pieno di profumi, parole, immagini, passi e corse, nodi mai dipanati, paure ed entusiasmi. Pensavo a come tutto questo potesse essere solo messo in un romanzo, che è il luogo dove qualcosa principia e poi si svolge e che mentre parla, si rivolge a un indeterminato punto davanti agli occhi, ma è anche un luogo in cui la vita guarda la vita. E come dai tavolini di un bar immagina mettendo assieme chi sta dentro e attorno, e può guardare senza timore le tessere dell’infinito labirinto, gli specchi e ciò che è solida convinzione. Immagini interiori che messe assieme sono la stessa cosa, ma che solo il possibile immaginato addolcisce riscrivendo il ricordo. Questo non potevo raccontargli lo e come lei non mi raccontava la verità ma ciò che le assomigliava e mi permetteva di vedermi, lo stesso io facevo con lei.
Mi sarebbe piaciuto salutarla nel sole fresco di stamattina, riproverò ogni volta, ma ormai è una scusa per ripassare dove molto è già accaduto. Quanto basta per andare altrove.
Ci sono dei punti fragili, linee di frattura dove ciò che si rompe ha un profilo netto e un dolore acuto. Sono grafie che l’animo mette a disposizione, non facili da leggere, hanno storie e vedono il futuro. Restano accoste se vengono rispettate, sono segni che possono colmarsi d’oro per essere saldati, ma preferiscono l’attenzione, il meditare sul vuoto e su ciò che tiene assieme. Prima erano uno e lo sono tutt’ora ma diversi e nuovi, bisogna capire come. Adesso raccontano.
Cos’è l’insieme e perché ha bisogno d’essere unito? È questo il senso dell’equilibrio, della sutura che connette e salda il passato, costruito col presente e futuro?
Rabbercia i pezzi chi non è cosciente di sé, chi si dibatte, chi è disorientato e non conosce ancora la differenza tra la profondità e lo stare a galla. Forse per questo ciò che si produce senza coscienza e convinzione, si sgretola e ha bisogno di integrità, di un passato che non sia gettato in disparte ma sia valore.
Sedevano con i loro camici bianchi in tre, due uomini e una donna. Lei prendeva appunti era a lato, l’uomo al centro e parlava con voce più bassa. Chiedeva del presente. Non usò mai la parola sofferenza, neppure dolore adoperò, trasse conclusioni senza chiedere del prima. La donna annotò ogni parola significativa. Ma come faceva a sapere che avevano lo stesso concetto di importanza? Era stato emesso un giudizio. Si sentiva.
L’effetto negativo poteva essere sciolto con una rassicurazione, la causa non aveva dignità d’essere indagata? Con la stessa voce che chiedeva, l’uomo al centro, propose di soffermarsi il tempo necessario per precisare. Lo scrisse.
Fu un punto di frattura, profondo e chiaro, generato separando il prima dal dopo, padre di altre successive fratture e fatica e dolore di suture. Così, avanti, all’infinito, che è poi un non finito, dove il peso, tutto il peso, del discernere ciò che è buono da ciò che non fa bene, ricade sempre su chi si tiene assieme e cerca, trova, i numeri, gli equilibri, così l’opera d’arte del vivere è una scultura mobile di Calder, un tener di buon conto l’aria e l’oscillare. Il senso è ciò che avrà equilibrio e movimento.
Solo se non s’è compreso la frattura non genera e non sublima, ma basta attendere e tutto tornerà ad avere un nesso tra ciò che è stato e ciò che sarà.
Ho letto a lungo. La luce ha tagliato la stanza, mi ha raggiunto, avvolto, abbandonato. Cercava curiosa le cose. Sembrava riflettere sul loro ordine perché si soffermava sulle pile di libri, sulle riviste, sugli oggetti messi in attesa. Ha percorso tre pareti prima di assumere una gradazione pensosa. Le nubi assorbivano il tramonto. In questa stagione rifulge di rossi e aranciati prima di scivolare verso le tonalità del blu. Già si vedono le stelle e l’impero della luce traccia le linee dei monti, attende la notte. Seguendo la luce, lo sguardo si è alzato dalla pagina, e sollevato dalla distrazione dal testo si è sentito libero. A volte il bello della scrittura, la sua precisione nello scavare e nel descrivere le altrui emozioni genera fatica e chiede di poter fare propria la bellezza e la bravura, ma prende, coinvolge profondamente, affatica. Così ho visto le piante aromatiche sul balcone. Ciascuna di esse aveva la difficoltà dell’estate, la lontananza dalla serra che le ha partorite. Le loro foglie sono poca cosa rispetto all’opulenza del sottobosco, i prati stanno riprendendo il sopravvento sulla terra rasata, mentre il fieno dell’ultimo taglio non è ancora nei fienili. Fiori ed erbe trovano equilibri, succhiano con decisione la vita, esondano nel sottobosco, gareggiando con miriadi di felci ed erbe da ombra e fiori e orchidee selvatiche. Le mie aromatiche si accontentano di una vita modesta in attesa di nuovi spazi e fanno il loro lavoro, con dedizione e umiltà pensosa. Dialogano con la luce e l’acqua, con il mio sguardo, chiedono comprensione per la fatica di vivere e regalare profumo. Però sono amiche della notte e i loro sogni sono nel profumo che si fa più intenso mentre il buio avvolge la stanza e le cose. La notte cancella l’ordine e il senso, fa emergere altre guide per i pensieri di chi ancora non ha sonno.
E il riposo è lasciar scorrere nuove regole, togliere barriere e prima di dormire alzare gli occhi al cielo per cercare la luna. La stessa che in questa notte, molti anni fa, veniva toccata per la prima volta da un uomo. Impieghiamo troppo tempo a lasciarci cambiare dai fatti, l’uomo non è diventato migliore da allora e ancor oggi un libro può spostare più a lungo il pensiero di un’impresa. Così le vite, nel loro mistero, racchiudono più desideri e sogni di quanti ne contenga l’orgoglio e la tecnologia che diventa storia.
Difficile e predittivo l’inizio, diceva la mia insegnante di lettere, poi il resto è opera d’artigiani del pensiero logico. Ed io facevo inizi folgoranti, salvo poi seguire le mie fantasie per pagine tortuose. E’ questione di pazienza, le dicevo, se si legge abbastanza magari non si coglie il senso dello svolgimento rispetto al tema, ma quello della testa, sì. ( Non mi pareva vi fosse eccessivo interesse per la mia testa). Mi consolavo, pensando che le migliori cose sono quelle fuori tema e visti gli insuccessi del folgorante, ero passato all’inizio ansante, quello che sembrava un cagnone accucciato un poco enfisematico, un inizio senza corsa, fatto di pennellate rapide, convulse, come se il passato fosse davvero già avvenuto, mentre chi scrive sa bene che il passato è davvero avvenuto solo quando lo si è scritto, prima è una sequenza di fatti, di fotogrammi con precario filo logico (il filo è sempre nel futuro, perché lì si capisce cos’ è accaduto davvero) e solo la logica delle parole può dargli un senso. Insomma io scrivevo storie che promettevano molto e poi menavano il can ansante per l’aia. Non mi capiva nessuno, neppure l’insegnante di lettere, che pure mi elargiva bei voti d’incoraggiamento e mi diceva, ma cosa volevi davvero dire? Io facevo il misterioso, alludevo, le parlavo della festa della sera prima e di quella della sera dopo, così lei capiva che ero festaiolo e un pochino m’invidiava, perché diceva, bella età, ma poi i nodi vengono al pettine.
Ecco questa dei nodi che vengono al pettine mi è sempre parsa una partenza fulminante, per niente scontata, perché per me era il pettine che veniva ai capelli. Faccenda questa dei nodi anche un tantino pericolosa, io avevo i capelli ricci e i nodi si scioglievano passandoci le dita aperte, ma forse si trattava di nodi più difficili e dolorosi rispetto ai miei. Cadevo nel dubbio, si avvicinava la fine della fatica scolastica e i nodi restavano. E se per caso fossi caduto nella configurazione topologica gordiana, la cosa sarebbe diventata critica, un qualsiasi Alessandro il grande(ne avevo più d’uno tra gli insegnanti) con un colpo di spada avrebbe sciolto il nodo, ma si sarebbe fermato a tempo? Ecco, queste cose mica le potevo spiegare alla mia insegnante di lettere, al massimo potevo dirle che i nodi non mi piaceva scioglierli e subire il rischio che ancora una volta lei non capisse nulla di quell’allievo che molto prometteva e nulla manteneva,
Fu allora che determinai che in ogni storia che si rispetti, anziché mettere in premessa ciò che poi sarebbe venuto, l’inizio sarebbe stato un parlar d’altro, e che il senso l’avrei criptato e nascosto tra le frasi del testo successivo. Pezzetti d’una storia che non finiva in un comporre chiuso, ma diveniva una sciarada che continuava a svolgere il suo senso. Devo dire, sommessamente, per chi avesse capito l’andazzo linear circolare dello scrivere mio, che mica ne posseggo la soluzione, al massimo ne intuisco il divenire. Turing, genio assoluto e co-inventore con Newman di Colossus, la macchina per decrittare i codici che i tedeschi creavano con Enigma, mi avrebbe sputtanato in un attimo e m’avrebbe raccontato per filo e per segno la storia, quella che ancora non so come vada a finire. Ma la mia insegnante non era Turing, era bella e discuteva volentieri e forse per questo perdeva il filo del mio discorso.
Lei spiegava benissimo, molto e d’altro, ma chi m’affascinava era Gadda, chi volevo essere era Boccaccio, per via degli ormoni giovanili applicati alla letteratura, entrambi mi sembravano perfetti. Glielo dissi, lei mi rispose che c’erano altre sorprese nella letteratura. Non le credetti che al 78%, finché non scoprii Calvino. Lui non lo sapeva, ma alla stregua di Borges e della riscrittura del Don Chisciotte, la lezione di “una notte d’inverno un viaggiatore” io l’avevo già svolta, solo che non l’avevano capita.
Il segreto si nasconde nei dettagli, parimenti al buon diavolo, oppure nella pancia dove sembrano dormire le parole, e il rasoio di Occam serve a far la barba più che a scegliere, l’inizio è solo un inizio a cui se ne sovrappone un altro, così in sequenza perché se è vero che se si vuol sapere “dove vuole arrivare questo scemo” (Totò), ci sarà sempre uno che capisce e dice: “ma mi faccia il piacere” (idem).
Confesso che ho vissuto e attorno a me vedo molta difficoltà a vivere. Forse per questo mi confondo, ho l’impressione di avere verità e idee comuni, ma la realtà mi contraddice. C’è sofferenza e non c’è protesta. Il mio secolo è a cavallo tra un secolo che non finisce ed uno che non inizia. Hobsbawm l’ha definito il secolo breve per contrapporlo al lungo secolo 19° , ma chissà se lo pensava davvero vista l’opulenza di cui si è nutrito il ‘900. Un secolo bulimico la cui voracità si estende a questo secolo. Un secolo che ha divorato e divora, tempo e vite. Non si è concluso nulla o quasi, un secolo inconcludente, abitato da tragedie e persone inconcludenti, da ideologie mutate nel loro peggio, da lotte che si sono placate non nel cambiamento, ma nella stanchezza, forse per questo si è vissuto così tanto.
Indignatevi. Per la velocità che nasconde la ragione. Il secolo breve era cominciato con l’ideologia della velocità.
Indignatevi per tutto ciò che vi lasciate togliere. Oggi fate la spesa la domenica e lavorate sempre.
Indignatevi perché il giusto non è ridurre uno stipendio abnorme, non solo, è abolire il privilegio che l’ha permesso, che discrimina, tra chi ce l’ha e chi non ce l’ha. E’ questo il confine del potere e c’è chi sta una parte e chi dall’altra, io scelgo quella che non ha privilegio.
Aver derubricato la lotta di classe, non ha tolto le classi, ma ha fatto perdere l’idea di eguaglianza. Ha tolto sostanza al rapporto tra le forze che dovrebbero gestire l’equilibrio tra economia e società, tra diritti e ricchezza. Così si è vanificato il diritto comune all’eguaglianza sciogliendolo nell’acido della finanza e della speculazione. Non il lavoro, ma il denaro è diventato il soggetto che riguarda l’uomo. Basti pensare che ciò che si ritiene un diritto non negoziabile, quello alla vita, e ogni giorno, in occidente, come nel resto del mondo, messo in discussione dall’esistenza di un lavoro, di una sua continuità, oppure di una pensione, di un sussidio. La Grecia non ci ha insegnato nulla, è neppure la pandemia, eravamo crapuloni e tali siamo rimasti. Ogni evento inatteso si dice insegni molto, ma non s’impara nulla.
Indignatevi perché si è accettata la povertà come funzionale, la diseguaglianza come elemento strutturale e come motore della mobilità sociale, seppellendo la possibilità di un’eguaglianza vera di base, di una valutazione del merito. La perdita di diritti ne è conseguenza perché in questa visione, sono stati monetizzati ed era naturale quando si è affidata alla sola parte del capitalismo, all’impresa e alla sua proprietà e non al lavoro, il compito di condurre il mondo. Il denaro compra i diritti e gli effetti si vedono con le diseguaglianze che crescono, con la democrazia che diminuisce.
Indignatevi per chi muore per lavorare, ma non fatelo solo per un giorno, togliere il rischio dal profitto è una impresa che cambia la società e il modo di vedere chi lavora.
Indignarsi qui, oggi, nel virtuale, ha un significato ben diverso da ciò che abbiamo attorno: è la protesta reale che analizza, lotta e cambia la società, ecco cosa manca oggi all’occidente. E ciò che manca contiene la speranza del cambiamento vero, permanente, contiene la maggiore equità, ma nel lessico comune invece, la speranza si è trasferita nella crescita economica. Per questo mi confondo e vedo che i migliori ingegni, la meglio gioventù sente l’estraniazione dall’occidente. Non pochi scelgono di esercitare un cambiamento nel terzo mondo piuttosto che a casa propria, nelle situazioni al limite, piuttosto che nella normalità. Mai come ora la normalità ottunde, e addormenta la speranza. Mai come ora è necessario che sia il quotidiano a verificare se ciò che ci attornia ci va bene oppure no.
Il vecchio partigiano Stéphane Hessel ci aveva chiesto di indignarci, ma nessuno non s’è indignato davvero abbastanza a lungo per cambiare il mondo. E’ morto dieci anni fa, il vecchio partigiano, senza saperlo, forse sperando che le parole potessero mettere in moto cuori e cervelli, com’è stato molte volte. Ora funziona solo il presente, lui pensava al futuro.