Si sente il respiro lungo del sonno e l’irrompere dei sogni nel reale, sono giorni in cui il sole scava nelle cose e genera piccoli grani per danzare nei suoi raggi. È allora che la stanchezza di ciò che non accade avvolge il tempo, e il suo scorrere sembra interrogare il senso. Come sarà l’autunno, che scandisce di impegni le giornate, e i suoi progetti riprende con fatica? Ancora starà zitto il cuore mentre si commuove in una foto, e piano scompone l’aritmetica d’assenza chiedendo conto dell’andar dove? Tutto cheta nel dirsi: c’è la noia di chi ha visto e non s’è seguito, ma non basta, perché ci saranno i pomeriggi disarmati, il senso che non acquista la profondità del rosso e nel blu si perderà pensoso. Così si ascolta, si sente, e il ricordo va all’instancabile rimescolar di conchiglie e sassi, mentre si vuotano scogli e sabbia. I perditempo stan seduti a sentire il pensiero del tramonto, perché ancora una volta è sera e poi notte e poi sogno. Ancora. Di nuovo.
Una giornata implume, senza creanza, tagliata di forza e di noia, scolpendo il tempo con malavoglia.
Le cose cominciano al mattino, dopo che si è pulito il viso dai sogni della notte.
Con questa consapevolezza scorrono le ore, il dissipare che galleggia come schiuma sulla birra, e necessita il passare attraverso l’inconsistente per giungere al fresco, al frizzante che raschia la gola, al dolce amaro che disseta e placa.
Sulle labbra resta la schiuma,
così è il sapore di questo giorno
ch’è scorza da sfogliare e togliere,
per trovare linfa e tagli dritti di luce,
nuvole e vuoto da colmare.
Villano il tempo a noi
che scorriamo i giorni con sagacia di colore,
mentre è lo scontento che ribolle,
e così si è prigionieri d’un bisogno.
Villano il tempo
nel dire la molla che sospinge,
nel tacere al giudice che, muto, dinega il capo.
Utile sarebbe usare i polpastrelli per modellare pensieri acuminati, ricoprirli d’ironia, farli ridere spesso. Bisognerebbe, sarebbe, si dovrebbe, condizionali pieni di bisogno invece possiedo solo un mantra che mi ripeto tra le ore.
Che sia il giorno per noi efficace.
Che le ore siano senza colpa,
senza traccia,
senza righe per scrivere ordinato,
senza saluti inutili,
senza parole gonfie di vuoto.
Che sia una giornata senza,
scavata di bellezza,
non lo scorrere rozzo,
non questo buttare tutto avanti,
non le mani annegate nella timidezza delle tasche.
Serve al giorno un cuore gentile che alla notte si nega, il coraggio leggero della corsa breve. l’incoscienza della distanza per raggiungere la vita utile a sé.
Per placare la sete bisogna attraversare l’impalpabile diverso.
Che finiscono cose, situazioni, amori e odi ed emozioni, bisogna pur saperlo, e anche leggere l’ora che ne precede la fine, per non trascinare nebbia nella notte mentre attorno il colore già attende. Ma chi coglie il mutare, e sente dissolversi quell’eterno passato comprende l’incapacità dell’agire e in sé ne dibatte e patisce e si chiede. Davvero tutto si sfalda, oppure c’è un’età in cui chi è leggero, vola mentre altri sentono pesi che non ci sono e vivono il tempo che scivola e ingabbia come un gesso d’anima che frattura. E si chiedono se la malattia sia ciò che non è stato, , o il possibile che ora non nasce. Poco importa ai fatti, e sembrano oziosi pensieri se si guardano i merli felici che saltellano e cercano cibo. La terra fradicia di pioggia, per loro è una festa, vivono del tempo e non lo subiscono, mentre per noi è corsa che vela la cura e fa sentire sconclusa l’attesa quando non compie il desiderio d’essere altrove.
Dov’ero il primo settembre 2004? E nei due giorni successivi che facevo? Dove sono oggi, cosa faccio da anni sentendo l’orrore di Gaza? Ho risposte a entrambe le domande e una vergogna: allora ascoltavo le notizie con il distacco che provoca, anche in chi è attento, il sovrapporsi della cronaca nera al vivere comune. Non per espungere ciò che potrebbe toccare il nostro idilliaco mondo, ma l’eccessiva presenza di disgrazie ci fa abituare alla violenza che non riguarda il mondo vicino, ci si assuefa e si delimita il mondo tra un dentro e un fuori, come se la violenza fosse il rumore di fondo del mondo, il suo cigolio del ruotare, ma riguardasse altri.
In Russia la scuola inizia il primo settembre. In Ossezia, repubblica autonoma della federazione Russa, il primo giorno dell’anno scolastico, era una festa. I bambini più grandi, quelli che finivano il ciclo, accompagnavano i piccoli nelle classi e questi davano un fiore a quelli che avrebbero fatto un’altra scuola. Era un accogliere e un lasciare che aveva un grande significato simbolico di trasmissione del crescere tra età. La festa a Beslan, nell’istituto n.1, era stata preparata con cura, come in ogni altra scuola. Bambini, mamme, insegnanti, nonne, papà, bidelli, più di mille persone. E i bambini avevano il profumo della scuola, del nuovo che iniziava. Mentre ciò accadeva, da un posto imprecisato, si stavano avvicinando su auto e camion, 32 persone, tra essi, due donne. Erano armati, avevano grandi quantità di esplosivo. I ceceni non amano gli ossezi, questioni antiche, ma non c’era un odio quale quello che i primi avevano per i russi. Chissà perché scelsero una scuola osseta, non russa. I primi spari sembravano palloncini che scoppiano, nessuno capiva cosa accadeva, poi i primi morti, una ventina. Tra essi molti bambini. Il resto della cronaca, compreso l’eccidio finale, potete leggerlo sulle molte fonti in rete, che mettono in luce, anche le contraddizioni e i misteri di quella strage. Alla fine i bambini uccisi furono 186 e 148 gli adulti ostaggi, poi altri morti furono tra i terroristi, le forze speciali, i soccorritori.
Furono tre giorni e due notti: noi dove eravamo, cosa facevamo finché tutto accadeva? Non sarebbe cambiato nulla nell’esito, ma se avessimo davvero partecipato saremmo cambiati noi. Ed ora cosa resta di tutto quell’orrore?
Oggi pensavo alla mia scuola, anche allora c’erano feste d’inizio, oggi forse non ci sono più. E allora ho desiderato che in tutto il mondo si ricordassero i bambini di Beslan, che se ne parlasse nelle classi, senza paura, senza sfumare l’orrore, che si richiamasse l’attenzione su Gaza, su quanto accade. E vorrei che qualcuno si assumesse il compito di mostrare che tutto quello che accade è vicino e che tutto ci riguarda. Non dobbiamo cancellare ciò che accade, per non essere soverchiati dal male e combatterlo. Eradicare il male perpetrato, anche oggi, insieme ai pali di confine per l’umanità. Non c’è un dentro il recinto e un fuori di esso. Bisogna capire che non ci dev’essere neppure il recinto e che esso ci limita, non ci difende. E che il cuore dell’uomo non muta se non viene educato a capire.
Questo sarebbe un maestro che accompagna all’apprendere il mondo. E questa sarebbe la festa della scuola e il suo significato. E oggi penso ai ragazzi di Gaza che studiano tra le macerie, perché apprendere è speranza di vita, è un restare in una realtà buona e chi la toglie fa prevalere il male. Chiunque sia, comunque pensi di averne motivo è il male che uccide i bimbi, gli innocenti, il mondo.
Sfolgora nel meriggio l’anello d’acque, ferma il passo e lo sguardo dimentica l’erba, il canto delle rane, persino il sinuoso ballo della serpe non segue, tutto scorda e resta vibrante di luce. Segno di compassione per noi dal sole, l’anima ne è attratta e piccola: la luce è misura e dimensione. Ai vecchi lagrima il vedere del mondo e gli affetti sono infinita passione e amore, l’abbraccio che stringe è desiderio d’un vivere bello che indefinitamente continui. Nel pensiero difficile del mondo, negli anfratti della paura di chi capisce e conosce come s’aggiusta la vita, il giorno consola in ciò che accanto si ama, e lo sguardo cerca un segno che dica, che parli dell’uomo e del buono, e che da esso sgorghi futuro e speranza. Sono anelli d’acque lucenti, pozze in cui ferve la vita, che gli animali di terra dissetano mentre riluce a loro il mantello di mille gocce d’infinito.
I proclami, le prese di posizione “definitive”, spesso contengono l’insofferenza per la propria solitudine. Cosa sia poi la solitudine è difficile dirlo, perché contiene molte assenze, proprie e altrui, ma anche i propri compromessi tanto che alla fine si mal sopporta persino la propria differenza. Oggi, come spesso è accaduto, fuori, nella storia grande, c’è bisogno di una linea che definisca chi sta da una parte e chi dall’altra di noi, insomma di escludere ciò che non ci appartiene per rafforzare la propria coincidenza con il noi che sentiamo giusto. Il nostro mondo. E perché mai perdere tempo con ciò che non è affine, utile o semplicemente troppo complicato per noi? Non ne vale la pena, ma se non accade maturano fratture che fanno dire cose assolute in un mondo all’etica ballerina e sostanzialmente indifferente. Quasi ad enunciare dei principi che poi principi non sono ma sono ingarbugliate sofferenze senza voglia di nome. Così i nomi, gli anti seguiti dai popoli e dalle religioni si mostrano per quello che sono: ovvero privi di senso di fronte all’umano e a ciò che non lo è. Allora guardare ai fatti e alla loro atrocità comporta tornare a noi, che conteniamo i problemi e le soluzioni su dove e con chi stare. E così uscire dalla solitudine delle parole violentate a giustificare sembra l’unica cosa davvero giusta.
Del sonno e dei sogni bisognerebbe essere degni, non accampare stanchezza nel creare la vita. Lasciare che il giusto invada il presente perché le idee danno a noi dimensione e ogni fare attorno s’assomma. Togliere all’abulia l’atrocità del disamore che consuma in silenzio i corpi e le menti.
Tra l’erba esausta dal troppo sole, di che parla il nostro cuore, a chi si rivolge, mentre attorno tutto scivola e viene immolato, nella postura d’una frana d’indifferenza. Serve un nuovo equilibrio che raccolga desideri, principi, ideali, dall’immensa discarica dei valori umani. Ora prevale il cinismo e il piccolo interesse, l’incapacità di affrontare la fatica di essere uomini, dare consenso a ciò che umano è ciò che di buono c’è nei cuori. No, non era questa la vita che avremmo voluto.
Fa abbaiare i cani, il temporale ancora lontano, e apre nel cielo squarci di nubi contornate dai riflessi dei lampi. Rotola giù dai monti, il tuono, diceva mia nonna quando lo scuro invadeva il cielo e la stanza e i monti erano cornice per noi di pianura. Immaginavo allora i fulmini come grossi fagotti di luce, che scendevano rimbalzando su alberi e case fino ad esplodere nella pioggia e nel suono. Stasera c’è l’annuncio di cio che verrà nella notte ma il cielo è ancora quello del Tiepolo quando sovrapponeva agli azzurri, il grigio e il bianco per rubare luce all’immensità sconosciuta e donarla all’attesa. Chi verrà da quello squarcio ad occhieggiare gli uomini, i loro pranzi e parole dei riti d’agosto? Corrono adesso le nubi e nuovi azzurri si aprono mentre i cani continuano ad abbaiare e nel silenzio che viene dalle tavole sfatte, parlano tra loro di qualcosa che noi più non capiamo.
Spesso tagliano l’erba, il verde diventa tappeto, perde i fiori, la voglia d’essere seme. Le api cercano, ma solo per poco, poi vanno altrove. I bambini scendono tardi, giocano sull’erba con palle colorate, non ascoltano i richiami, proseguono discorsi che parlano a sé, o fingono mondi che loro soli vedono, ma non hanno ricordi. Attorno si ripetono i suoni, e in una bolla l’universo rapprende: il prato, le grida gioiose, i piccoli pianti, la casa che accoglie. Cos’è il sentire se non un animale scacciato, un cane che rincorre la palla, che non conosce il gioco ed è il correre felice il suo senso, così questo tempo e luogo si ripetono e noi abitiamo la differenza. Il sentire che interroga e si finge, che cerca nel colore bellezza, come usavano gli antichi nei templi, per stupire la grandezza e allontanare i presagi. È il futuro che si apprende: nell’età felice la conseguenza non esiste, così il dispiacere transita veloce, e la felicità è una corsa, una palla che vola, il sudore che vela la pelle, sciolto nella certezza di un abbraccio e di una voce amata. Nel prato che il verde nasconde, il tempo sussurra, storie indifferenti a chi non le coglie, le stagioni attendono, si ripetono mai eguali, sanno che solo il bianco e il nero sono la scena, la sostanza dei fatti, il luogo e il tempo, in cui cogliere il senso e mutare d’ accenti. Guardo e sono erba e albero che recitando invecchia, e mentre altri, i loro mondi stupiscono, siedo nel prato, con la mia nuova parte, che m’invento, attingo al ricordo, penso e poi taccio. In silenzio sono così dolci le voci, il muoversi armonico dei corpi, le loro storie che riempiono la vita e la scena del mio piccolo mondo.
È salito allegro dal sottopasso di stazione, verso un abbraccio stretto e un bacio. Sorrideva e li aveva attesi e allora ancor più sorrideva. Quanto è lungo un bacio? È il tempo infinito delle bocche che si cercano, si trovano, si premono e si vogliono, finché c’è fiato e poi si staccano per guardarsi gli occhi, a cogliere le parole che non dicono le labbra. E si riavvicinano per ascoltare, esitano, ma poi si stringono. L’una sull’altra mescolano sorrisi e desideri, e ciò che non si dice, verrà in altro modo detto, perché il bacio non finisce il desiderio che tutto si unisca e condivida, . e così continua sempre insufficiente e nuovo, ancora perché mai basta. Ma quanto è lungo un bacio di stazione pieno dell’allegria dell’incontro atteso? Quando scosta il viso, lui guarda, e mi chiede: amico, un sorriso? Allora capisco che si vede la stanchezza, che in me la vita è altra, e se la bocca s’alleggerisce e piega per mostrare la mia speranza d’allegria, il loro bacio continua nell’auto che s’allontana. E so quanto è lungo un bacio che non t’appartiene.