mandala e scarichi d’auto

La sera sentiva i saluti di tutti mentre uscivano. Ricambiava. Si alzava dalla scrivania e guardava fuori. C’era un panorama di capannoni, poi la città con le cupole delle chiese e i radi grattacieli, infine i colli e le montagne.

Nelle giornate limpide si poteva vedere il riflesso della neve, mentre a notte, dalle curve delle strade che scendevano verso la pianura, venivano bagliori di fari. Auto che tornavano in città o se ne andavano verso i ristoranti. Ricordava i cibi. Sempre quelli. Le balere trasformate in night per le figlie e i figli dei turisti che venivano con la scusa delle terme.

Bastava poco tempo la sera per essere solo, nessuno aveva mai un lavoro da finire e l’ufficio si vuotava, le stanze erano buie, le ultime parole erano : chiude lei vero? Era così ogni sera, sentiva le risate per scale. Se avesse aperto la finestra gli sarebbero arrivati i rumori della tangenziale e delle voci che si attardavano a bere al bar. Poi chiudeva anche il bar e restava la tangenziale e i camion che caricavano.

Guardava fuori i tramonti bellissimi che solo la pianura padana e l’inquinamento riesce a regalare e aspettava. Spesso, nell’attesa, si rimetteva a lavorare accendendo la luce da tavolo, scorreva le carte, i prospetti. I problemi venivano riassunti scrivendo a mano il tema e le annotazioni. Metteva un cd di musica nel computer oppure provava a cercare qualcosa su you tube. Scriveva corrispondenza inevasa già godendosi la perplessità di chi l’avrebbe ricevuta guardando l’ora d’invio.

Le dita allineavano pensieri come briciole. faceva dei piccoli disegni a margine delle relazioni e sui fogli A4 scriveva a sinistra, una parte che non arrivava a metà foglio, come fossero temi d’italiano. L’altra metà veniva riempita di glosse e di pensieri che non c’entravano nulla, ma aiutavano a mettere a fuoco e a stabilire un equilibrio tra qualcosa che dentro esigeva e che non trovava corrispondenza con ciò che faceva.

Le dita spostavano cose, ritagliavano articoli, sottolineavano. Componevano disegni che attaccava alle pareti dell’armadio, con fotografie, frasi, scritte a penna. Qualcuno avrebbe chiesto il significato e lui avrebbe tergiversato sull’apparenza. Intanto si faceva buio e allora si alzava di nuovo, spegneva la luce e guardava fuori. Si vedevano gli stop delle auto che s’accendevano e spegnevano. Come una danza o un segnale criptato. Una danza è un enigma, un mimo evidente che ne nasconde un altro. Ma sono sempre gli stessi, l’amore, la felicità, la delusione, il distacco, il finire.

Lo sguardo era già lontano e il filo della giornata galleggiava con i pensieri nella notte. Sentiva i rumori delle sponde dei camion, dei motori che si avviavano verso luoghi ignoti e distanti, ma erano sempre magazzini e capannoni. Pensava a quando era lontano e ancora guidava a quell’ora; l’attendeva una riunione a cena oppure una stanza d’albergo. Anche quelle erano tutte uguali. E pensava che il tempo scorreva senza far male se si aveva un fine da raggiungere. Ci sarebbe stata la mattina, le colazioni con le brioches di cartone oppure il pane caldo scongelato, il caffè. Tanto caffè e poi il giorno così pieno che non lasciava spazi per annotare quello che gli veniva in testa, così pensava di ricordare per la sera e la notte. Tornare e fare le solite cose.

C’era stato un tempo, neppure tanto lontano dove quest’ora, in cui non accade nulla, era il luogo del raccogliersi, del misurarsi con ciò che non era. Come adesso che guardava fuori e vedeva gli stop delle auto che s’ accendevano e spegnevano in una danza che qualcosa doveva pur voler dire. Guardava dal buio, spegneva la musica. Il pensiero galleggiava nei fumi degli scappamenti, sui radicali liberi, nelle catene di azoto e carbonio che si spezzavano nei motori.

Forse era il suo mandala da completare.

Non sapeva dove tornare.

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