Jan Palach, Praga:16 gennaio 1969

Difficile raccontare quale fu l’emozione di quel 16 gennaio ’69. Ne scrissi già in passato, e ancora, ogni anno ritorna, perché resta un fondo di mestizia, di mancanza, come un sogno interrotto. La notizia che uno studente s’era dato fuoco a Praga, in piazza san Venceslao, era arrivata con i giornali della sera. E con la notizia l’emozione. Profonda, contigua alla rabbia, con un bisogno di far qualcosa subito. E’ facile scivolare nella nostalgia dei reduci, ma è penoso quando accade perché diventa il come avremmo voluto essere più che il come eravamo davvero. Eravamo chi? Quanti? E cosa pensavano gli altri? Era tutto scontato: eravamo in tanti, avevamo tutti la stessa percezione, eravamo pronti. Non era vero e i fatti poi lo dimostrarono, ma l’emozione fu davvero profonda perché ciò che era accaduto rappresentava la ribellione estrema attraverso il sacrificio di sé, ed era uno che aveva la nostra stessa età, che sognava le stesse cose. C’era la speranza in quel gesto, e in noi, anzi la certezza, che davvero si potesse cambiare insieme, che il mondo si sarebbe messo sulla strada giusta, per sé, per tutti. Bastava volerlo.

Da tempo giovani monaci si davano fuoco a Saigon, passavano le loro immagini sulle TV in bianco e nero , e sapevamo ch’erano vestiti d’arancione. Forse li vedevamo così anche nel bianco e nero e impressionava la compostezza nella morte data e orribile, ma c’erano i Viet Cong che facevano notizia ogni giorno e combattevano. Il primato dell’azione, di Davide contro Golia, la sconfitta della tecnologia e della forza, battute dal diritto e dall’ingegno. Non era una novità il suicidio con il fuoco per protesta, ma Jan Palach fu un’altra cosa. Era uno come noi che chiedeva il giusto, cioè l’impossibile che cessava di essere tale.

Nei giorni successivi, anche senza nominarlo, emergeva in continuazione, nelle assemblee, nelle occupazioni, nei discorsi tra noi. Gli interventi si infiammavano di giorno, la sera guardavamo ancora immagini e c’era una tristezza incredibile in quel bianco e nero, nella sua fotografia ripetuta, nella folla enorme che si radunava a Praga. Tristezza e consapevolezza che così non sarebbe potuto continuare. Credo che tra i grandi simboli di quella stagione, accanto all’entusiasmo, ci fu il suo nome, la sua giovinezza e il sogno che la accompagnava. La differenza con tutto quello che ho visto dopo era la certezza che avremmo vinto. Che i giovani avrebbero vinto, che sarebbe cambiato il mondo in meglio. Definitivamente.

Ma questi sono pensieri da reduci, il mondo è una scena e chi recita, interpreta ciò che gli pare giusto, basterebbe non stancarsi presto della parte. Vedendo come sta andando, verrebbe da dire a chi non prende in mano la sua vita: diventerete vecchi anche voi e se non avrete qualcosa di vostro dentro, cosa vi resterà? Pensieri da vecchi che non capiscono, per l’appunto.

Un tempo si diceva, di quelli che invecchiavano per loro conto e magari non sembravano neppure così vecchi: è rimasto fedele agli ideali della sua giovinezza. Non credo si usi più, perché quegli ideali così includenti e collettivi, non hanno più molta corrispondenza con ciò che c’è attorno. E anche gli ideali hanno bisogno di realtà.