diritti d’autore

Di molti libri mi piacciono poche frasi, folgoranti come un pensiero che si dimentica. Più rarmente mi colpisce il titolo, sarà per questo che non li ricordo. Ho un conto corrente aperto in una libreria amica che mi permette molte libertà, anche il ripensamento. Il momento che amo è l’approccio don giovannesco, dove non si capisce bene chi conduca il gioco dell’affascinarsi e prendersi. In piedi, prendo in mano il libro, lo apro con la delicatezza che merita un lavoro, leggo, salto, chiudo, riapro, spesso compro. Un pensiero mi rincorre in questo piacere del piluccare: vorrei costruirne un libro sconclusionato fatto di frasi estrapolate, ricucite con la mia storia, con le storie che ho conosciuto, con il mio tempo. Sarebbe un libro palloso, molto personale, da stampare in tre copie, la prima, mia, da mettere in scaffale, la seconda, mia, per correggerla in continuazione, la terza da lasciare al bar sottocasa. Lasciano spesso libri nel bar da Anna, qualcuno li prende, a volte ne porta altri, è un commercio sotterraneo di idee, senza intenzione, che consuma e ripulisce, come il mare. I libri hanno un senso se li rimastichi a pezzi, se ti riconosci. I pezzi di sola bravura mi piacciono, ma lasciano una traccia labile, diventano intoccabili e servono a stabilire distanze incolmabili. Posso parlare con Dostoevskij, con Borges o con Gadda, non con un marziano. E se un autore mi cambia è perché l’ho divorato, fatto mio in quella piccola, grande parte in cui mi ha scoperto, riconosciuto, stanato. Mi dicevano al giornale, quando mandavo qualche articolo: scrivi per essere capito, non per sintonizzarti con quei quattro balordi che ti assomigliano. Magari lo facevo, ma mi mancava qualcosa, non ero adatto, semplicemente, l’ho capito prima io di loro.

Ho visto in Senegal qualcosa che assomiglia a quello che penso, tavole di legno con sure del Corano. I bambini imparano a compitare l’arabo, poi a leggere la sura, la fanno propria e questa man mano diventa l’interpretazione della loro vita che continua. Senza scomodare similitudini importanti, mi piacerebbe che il patchwork di frasi della mia vita fosse nella disponibilità di parole sentite che si modificano, nel ragionare dell’essenziale che rende sempre più smilzo il libro, più semplice. Tabula rasa, non è l’inizio, è il fine della scrittura, la sua cancellazione fino alla scrittura della nuova storia. Basta aver tempo, basta arrivarci a tempo. Intanto raccolgo frasi, mie e non mie. Quando si espunge una frase dal contesto la si può citare, oppure sottacere, modificare, portarla al senso personale, l’autore difficilmente potrebbe riconoscerla, è stato un catalizzatore, e la frase non è più sua, ha prodotto altro, diventando un tratto di chi l’ha ripensata. Anche il senso, il sentimento che sottende la frase non è più lo stesso, è del lettore che non guarda più, ma beve, si nutre e a sua volta scrive (e m’affascina questo perenne riscrivere). E’ un processo intenso, che esige rispetto, devozione, pudore, attesa, emergerà, infatti, quando sarà totalmente opera di chi ha fatto proprio il senso. Come per la biblioteca di Babele di Borges, o la macchina tipografica infinita di Gamow, un oggetto programmato sulla base delle permutazioni delle lettere e delle parole, potrebbe scrivere tutto ciò che è scrivibile e tutto ciò che si scriverà, ma il tempo di leggerlo sarebbe infinito e  quindi sarebbe una macchina inutile: solo ciò che è nostro è significativo. L’invito alla chiarezza allora si rovescia, se guardo il mondo come Escher, vedo infinite forme brulicanti ed immaterie che s’agitano dentro di me, di queste pesco una combinazione, un carattere che va al cuore: la chiarezza è pescare dallo stagno il significativo, metterlo assieme, costruire il significato. Ne nasce un libro virtuale e reale, che si aggiorna di continuo nei dettagli, che perde più pezzi di quanti ne acquisti: tolgo tre frasi perché una la riassume. Così vorrei arrivare vicino alla tabula rasa con uno smilzo libretto da gettare, per poi prendere lo stilo e tracciare una lettera, che sia la prima o l’ultima non importa, è l’inizio della nuova storia. 

praticare la sineddoche

Luna velata. Su cielo di nubi lunghe, chiarore spampanato nell’ azzurro grigio delle sere di questa stagione. E’ colore che porta verso nord, assieme al freddo che avvolge senza mordere; per le donne, è sera da scialle, per gli uomini, basta una giacca spavalda, da rinchiudere senza dar vedere. Ci son già primi profumi leggeri, quelli che penso d’aria, scivolati per leggerezza e fiducia verso ciò che arriva. Profumi ben distinti dagli olii estivi onusti di giorni di sole e di sete, essenze, questi, da pelle.  Da passare con un dito, per una scrittura o una carezza. E così s’accarezzano le aromatiche che subito, paurose o grate, alzano un velo che avvolge la mano e basta odorarne il palmo per sentire la terra, e la vita che, loro attraverso, sale.

Saltando dal generale al particolare, perdo ciò che sta a mezzo, me ne rendo conto, mi perdo e perdo. Forse è abitudine, ma gran parte del reale viene automatico e non si nota. Forse. Direbbe un’ amica appassionata della terra che questi sono lussi da perditempo, ma quante cose si perdono nella velocità, mentre dai parabrezza (c’è sempre un riparo per gli occhi quando si corre), si vedono cose ferme, prospettive limitate e se anche, quando si traghetta o naviga (è una metafora), s’ attende più l’approdo che la dimensione enorme del mare.

E così mi perdo il senso del correre, il mondo di medietà con le sue verità e trasgressioni, quasi un obbligo per la colonna vertebrale, ché guardare troppo in su, oppure troppo da vicino, la vista, la schiena e il cervello, ne soffrono. Si può soffrire di particolare nel cercare le assonanze o di sguardo ampio per collocarsi nell’universo? Si, ma ancora una volta è un equilibrio da costruire e mantenere, giorno dopo giorno. Non si può vivere d’eccezione. A dispetto di Ulrich, l’uomo senza qualità, che vorrebbe vivere senza le pause del consueto, e, di converso, neppure come in un film giapponese di molti anni fa, che durava 24 ore. Antesignano della cam da voyeur, e del grande fratello, ma senza copione e novità obbligate, mostrava la vita nella sua nudità, dove anche la passione è pretesto, e si svolge tra ripetizioni: sonno, risveglio, necessità, cibo, relazioni, assenza, noia, presenza. Tutto in rapporto 1:1. Una noia mortale, ma anche un’ alternativa, perché, volendo, assieme al protagonista, si poteva dormire durante il film, pranzare con lui, sovrapporre le vite, e vedendosi dallo schermo rendersi conto di come si è davvero: medi e ripetitivi. Ma la medietà dobbiamo al più accettarla, mica per forza ci deve piacere.

Alternativa è praticare la sineddoche, con le storie che estrapolano particolari, li collocano in un generale condiviso, mai troppo ampio, e dove la stessa eccezione dev’essere tale, non normalità, e la vita raccontata, a sé, prima che ad altri, liason tra particolare e generale. Medietà che ci tiene assieme agli altri, ci fa condividere, argine all’ovvio e, al tempo stesso, porta aperta per la diversità, contro ciò che, visto realmente com’è, diverrebbe orribile noia ed irraccontabile vita. Solo quando alziamo lo sguardo ed abbracciamo il cielo e la luna, solo quando ficchiamo dentro gli occhi, quanto più mare o bosco, o roccia, o strade e case si riescono a vedere, solo quando dei libri vediamo i dorsi, ma ne sentiamo il contenuto premere verso di noi, solo in questi momenti quella meraviglia che ci fa fermare davanti all’inconosciuto diviene noi e perdiamo la medietà e dirlo ci è difficile, per la paura di essere presi per visionari, illusi, folli.

i danni dell’inverno

Ho portato fuori le piante dal riparo invernale, il limone sta fiorendo. Nella terrazzetta il rosmarino non ha retto al vento e al gelo. E’ seccato con i fiori, dell’illusione tiepida di gennaio, ancora appesi.

Difficile non pensare ad altro. Alla caparbietà che ci differenzia oltre, alla necessità di capire ciò che si è, alla resa di fronte all’ineluttabile, all’ingiustizia immane che prima illude e poi consegna al nulla.

Ieri, nel lungo viaggio di ritorno, e nella stanchezza di giornate troppo piene, pensavo al tempo lungo delle piante, all’immoto che si protende verso l’alto, al ricordo delle primavere che diventa sostanza, legno che si stratifica e sorregge. Delle tante parole-scorza che gettiamo, risonanti, su tavoli di contesa, d’amore o d’indifferenza, restano quelle che mordono o leniscono, e si aprono, in un infinito dialogo tra noi, su ciò che siamo e saremmo. E gli occhi che si riempiono di colore tra il grigio, sono racconto, finalmente, lungo di tempo. 

Oltre la primavera, nella primavera.

un gigante nel vicolo

Nello scuotere improvviso, c’è un singulto di stupore e di paura, poi la comprensione subitanea: terremoto. Dei pensieri successivi, parlerò, ma l’immagine che si forma in testa, e che si ripeterà nella scossa successiva, è quella di un gigante, ben piantato nel vicolo, che con le sue mani enormi ha abbrancato le pareti, e comincia a scuotere la casa. Chissà perché lo fa, c’è stupore, forse vuole misurare la sua forza, forse, oppure vuol far cadere qualcosa per sé, o ancora è per allegria sua. E’ l’una di notte, nel vicolo c’è il solito silenzio notturno e quel frullo che si sente ed accompagna la scossa, è un ansito soffiato del gigante, è il suo alito sulla nostra paura. Nostra? Mia, che sono in piedi a quest’ora e sento il pavimento scorrere, libri cadere e guardo inutilmente il soffitto alla ricerca di lampadari oscillanti che non ci sono. Ho messo faretti dappertutto, e adesso mi mancano i lampadari, come servissero i segnalatori di terremoti, guardo la pendola: si è fermata e l’altra,  ferma, si è messa in moto, ma intanto il gigante si è stancato.

Ci sono troppi libri in questa casa, è il pensiero principale adesso, pensiero aiutato dai tonfi delle cadute dei volumi sul legno. Questo pensiero mi assorbe, distoglie dalla sensazione di vuoto che sentivo sino a poco fa. Intorno non accade nulla, c’è un senso di sospensione calma, e l’inquietudine si rintana, è quella che attende la scossa successiva, quella che non arriva. Sono determinato a stare in casa. Ragiono sui 4 piani di scale da correre, troppi se c’è un disastro, e sull’età della casa: è vecchia quel tanto da aver visto e sentito altri terremoti. Queste sono case tirate su con quello che c’era, in anni di ricostruzioni dove c’erano i bravi e le canaglie, posso solo sperare che chi ha costruito non abbia unicamente recuperato materiali più antichi, ma sapesse cosa faceva. Concludo che non è l’ora, né per lei, né per i miei amici dei piani inferiori: possono continuare a dormire, loro. Non si muove nessuno. Guardo le finestre attorno, è tutto bujo, a parte il solito nottambulo cinefilo che si è affacciato. Solo io e lui siamo svegli, questo mi fa sentire più sicuro sull’entità del terremoto, ma sono anche, inequivocabilmente, solo nella notte. Guardo su internet e già ci sono le prime notizie: l’epicentro è vicino a Verona, la scossa è stata forte, ma senza danni.

Ho troppi libri, e giornali e carta, è la mia bulimia che ha accumulato e che non so come affrontare senza un dolore di perdita. Il terremoto, anzi il gigante, ha rimesso in evidenza questo problema di oggetti e spazi a disposizione. E qui comincia una riflessione sul mio modo di vivere, non riesco a fermarla neppure a letto, è un sonno difficile, con l’ inconscia attesa della prossima scossa. Non so che arriverà il giorno dopo alle 16, sono vigile, potrebbe esserci subito e più forte. Eppure tra “troppi” libri, terremoto incipiente e casa vecchiotta, il sonno arriva, segno che alla fine prevale la fiducia. Tanto che posso fare?

Del senso ironico del tempo della terra che si scuote, capisco il giorno successivo: è il nostro fragile umano tempo cronologico in discussione, la terra si muove di continuo. Le nostre serie storiche, limitate dalle nostre attese di vita, sono cronologie ridicole per il mondo. Sono ben attento a non scivolare nel relativo: ciò che vediamo e sentiamo è il nostro reale, siamo noi che scriviamo le storie che la terra scrive altrimenti. La sensazione della nostra pochezza annichilirebbe le sconsiderate volontà del costruire sul poco e sul breve e proiettare all’infinito, toglierebbe voglia di futuro all’uomo. Non è un gran valore, ci occupa di grandi personali considerazioni il tempo, ma è la nostra incauta misura, com’ è misura il ricordo, le serie storiche dei terremoti in val padana, rari per gli uomini, molto frequenti per la terra. Del resto non conosco forse, fin da bambino quell’abside interrotto di santa Sofia, rimasto incompiuto, dopo che un sisma aveva raso al suolo i resti dell’impero romano nella città. 800 anni sono un batter di ciglia per la terra, uno sbadiglio nei suoi milioni di anni fatti di brividi che noi annotiamo diligenti nelle nostre storie. Come fossimo osservatori di un’altro pianeta, attenti a questa palla color blù e fango, ma anche distaccati conservatori d’altre memorie.

E i miei affetti, i miei libri, le mie cose, mi riportano a me, al contingente che dilata nel tempo, non voglio vivere solo nell’attimo per fuggire il senso di morte che questo porta con sé, voglio il giorno come un mantice di fisarmonica che si dilata e suona, perché questa è la mia musica, la mia vita, di cui fa parte anche il terremoto e il rispetto per il gigante che mi lascia vivere, ma mi ricorda che qualche conto, non con lui, ma con me devo rinegoziarlo.

E magari saldarlo.

mah

Arriva il momento in cui l’indifferenza ha questo nome. Lo rivendica perché è così. Qui le strade si dividono, perché alcuni cancellano un pezzo di sé, altri lo tengono tra ciò che sono stati e ne fanno memoria per il futuro, altri ancora si tengono indifferenti, ma percepiscono spine di attenzione dolorosa. Infine ci sono quelli che venerano la realtà e quindi vivono nel momento, in questo caso l’indifferenza è assoluta. Ognuno si colloca dove sta meglio, o forse, lasciatemi il dubbio che si ricerchi altro, che l’essere non sia sempre prigioniero del piacere e dell’utile. Credo che ci sia una sopravvalutazione dell’utile, che questo irrompa assieme al razionale dall’ homo oeconomicus, e che cerchi di organizzare le vite oltre il loro benessere esteriore. Non è sempre stata questa la teoria e non è neppure la realtà, l’uomo è altro insieme all’utile, e questo gli permette di mantenere contraddizioni senza paura. Ciò vale anche per l’indifferenza. In realtà il gran regolatore è il tempo che seppellisce ciò che non si chiude.

E se spesso si sanno pezzi di cose e nell’aria ci sono storie che sembrano, è meglio star zitti e lasciarsi confondere.

hidalgos

Sebastiano Venier e gli impiccati prima della battaglia di Lepanto, don Giovanni Tenorio e la cena con il Commendatore, l’hidalgo Gonzalo Pirobutirro e la Cognizione del Dolore, cosa li mette assieme ?

Nulla, apparentemente nulla, se non la natura dell’ hidalgo, con l’orgoglio, il dolore e la fascinazione che si porta appresso e lo ripiega nella sua cognizione. Fossero solo le donne, oppure il comando, oppure, ancora, l’inerpicarsi verso un cielo che non è mai troppo basso, questo sarebbe l’effetto, non la causa dell’essere ciò che si è.

Il perseguire che segue sé, è destino dell’hidalgo. A partire da quel don Quixote, primo persecutore della sua pazzia, malamente riscattata, e non ce n’era alcun bisogno, da quella fine di ravvedimento d’intelletto. Che mai per alcun motivo dovrebbe seguire l’hidalgo, perché nulla dev’essere nascosto all’orgoglio e nulla, compreso l’immolarsi alla propria idea, dev’essere posto da parte. Pazzia compresa. La fascinazione fa parte dell’hidalgo, sia essa esercitata nel comando o altrove.  E il Cervantes certo seppe, lui c’era, di Sebastiano Venier, che il giorno prima della battaglia di Lepanto, impiccò un hidalgo e fece frustare due aspiranti tali, per aver dileggiato e ferito due ufficiali veneziani. Lo fece sulla sua ammiraglia (torna la casa come luogo dell’epilogo dell’hidalgo), come capitano da mar e comandante della flotta che il giorno seguente affrontava il turco, lo fece sapendo che don Giovanni d’Austria, comandante generale designato da Filippo II, hidalgo degli hidalgos, per questo poteva metterlo a morte. Lo fece perché era giusto fosse così ed in questo, egli con l’esercizio del potere, divenne più hidalgo dello spagnolo.

Analogamente don Giovanni Tenorio non si ritrae dal confronto con colui che ha ucciso, con ciò che è oltre la vita ed esercita la fascinazione su di sé, il posso farlo a dispetto di tutto e tutti che è ancora una volta il conformarsi al destino proprio. E qui viene il ripiegamento su di sé, la melancolia di don Gonzalo a cui le donne fanno ombra, il cui piegarsi come armadillo è forza da esercitare per mantenere un destino più alto. Ciò che ha avvinto vite, la sua, quella della madre, quella del fratello morto in guerra, quella del luogo, della villa e del suo contorno dilaniante di banalità, per lui ingegnere, con l’anima altrove, è dolore. E su chi può esercitare un fascino degno, se non su di sé, sul dolore che emana la consapevolezza, sul dolore del vivere? La sua vita di hidalgo riallaccia, con il filo del dolore, le molte vite degli altrettanti hidalgos. Il dolore celato che unisce la passione al proprio destino, un filo su carne viva, da scordare con ciò che si ha a disposizione, sia esso il piacere, la battaglia, la pazzia.

La fascinazione è poca cosa se disgiunta dal sentire.

«… Ma se le ripeto che c’è la mia Pina… sì, sì… la Giuseppina… Lei la conosce, no?… ma se le ha parlato tante volte!…». Il figlio Pirobutirro ebbe l’aria di navigar nel vago: confondeva facilmente le Giovanne con le Giuseppine, e anche con le Teresine: ma più che tutto, a terrorizzarlo, era l’insalata delle Marie e Marie proclitiche, cioè le Mary, le May, le Marie Pie, le Anne Marie, le Marise, le Luise Marie e le Marie Terese, tanto più quando le riscopriva sorelle, a cinque a cinque, da doverle discriminare lì per lì nella baraonda dei rinfreschi, dopo schematiche presentazioni. «… Insomma, le dico che non importa», continuò il dottore; «lei starà seduto come un papa; davanti, magari, dove ha meno scosse… a guardare il paesaggio… ad assaporarlo in tutta la sua dolcezza… E la Pina guiderà. Non si fida della mia Pina?».

O! certo! Egli si fidava pienamente della «signorina Giuseppina», (Quell’astrazione onomàstica non gli dava modo di raccapezzarsi). Ringraziò nuovamente; calorosamente. «… Ma non è possibile…». Emise un sospiro. Era molto preoccupato. Quasi seccato. Fu molto cortese. Un senso di noia, di irritazione era nel suo sangue: un’ansia indicibile sul giro del gàstrico, dov’è il duodeno, come piombo: una figurazione di colpa, di inadempienza, nel suo contegno. Nel suo occhio oramai stanco, velato, si adunarono cose dolorose, lontane. Troppo lontane da quel discorso.

«Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato»

(Da La cognizione del dolore, Carlo Emilio Gadda)


corrégime

Non tutto è da buttare, il corpo si tiene. Sente molto l’entropia, e la cosa è più grave per quelli che si poggiavano solo sull’aspetto, ma con una terapia radicale di accettazione si può ricollocare. La testa si tiene, anzi è lei che ci tiene. Evitare il luogo comune nettato dal pensiero, le scorciatoie, la ripetitività, la razzia nei terreni altrui, il cibo predigerito. Sarà poi così vero e poi riuscirà sempre l’operazione? E’ una fatica immane, un rigore da calvinisti d’altri tempi. Eppoi non abbiamo una cornice appropriata, chessò, il lago di Ginevra per discutere di predestinazione e libero arbitrio. Ma visto che possiamo, scegliamo il secondo. E la critica e l’ironia verso sé comprenderà il dubbio perenne, conscio che la stupità non pesa ed è invisibile a chi se la porta appresso; e che è pure, contagiosa per convenienza od accettazione. No, no. Forse non basta, ma il dovrei diventare stupido per farti contenta, lo togliamo   dal pensato, ché devasterebbe noi senza alcun premio.

Concediamoci di sapere chi siamo, di non lasciare ad alcuno il compito di definirci. Allora sarà più semplice vederla negli altri, la stupidità, e tenere la direzione.

Questa del tenere la direzione è forse la cosa meno complicata, si segue ciò che si è, ci si conforma alla propria “bellezza”. Meno complicata non significa facile, e concedetemi questa stupidità di ritorno analoga all’analfabetismo…

Che poi il percorso circolare: analfabeti, alfabeti, analfabeti, si avvera di frequente, anche in chi non lo sceglie. E, se non si sceglie un percorso lineare, funziona anche con l’educazione ai sentimenti: maleducazione, educazione, maleducazione.

L’eterna discussione tra lineare e circolare è la prefigurazione del confronto tra la consunzione (ostentata, ma accuratamente espunta dalle conseguenze) del fare che brucia, e il conservare, in cerca d’eternità (condizione che riempie anche per sottrazione e con una notevole propensione ad identificare come circolare ciò che in realtà è una spirale). 

Un tizzone lanciato contro il cielo nella notte, e la scienza del maneggiare il fuoco degli dei.

Scegliendo il secondo per affinità, attrezzo le mani al calore.

incapacità strutturali

Non credo di avere tra i miei vizi, l’invidia. Non è un merito, non mi viene, ma questo mi rende incapace di riconoscerla prima che mi faccia danno. E ogni volta che mi colpisce toglie il respiro per la sensazione d’errore commesso. Non ne vedo la ragione, non la comprendo. Mi faccio l’esame dei comportamenti, del modo di vivere, qualche errore certamente lo faccio, ma non ostento, sto al mio posto perché ci sto bene, non cerco onori, quello che ho fatto di pubblico l’ho fatto. Eppure la sferzata arriva e colpisce in viso. Me la prendo con me, con il mio dar fiducia, con l’incapacità di capire per tempo, ma non basta.

L’invidia è qualcosa che toglie qualsiasi luce in un rapporto, quando si capisce che è in azione non c’è più possibilità di comunicare profondamente. Anche la stima ed il bene se vanno e, quello che ancor più mi addolora, è che questo era messo in conto, che nel rapporto era stata contemplata la sua dissoluzione. 

Non posso lamentarmi, dipende da me, da una mia incapacità strutturale e credo che neppure mi servirà molto star male, nel senso che non imparo. Starò attento per un poco, mi chiuderò di più, ma poi il dare fiducia sarà nuovamente la base dei rapporti. Fino alla prossima e poi nuovamente ricomincerà il ciclo: incredulità, dispiacere, ripensamento.

festa d’inizio estate

Informale abbigliarsi, diceva l’invito. Incredule, stanotte le toilette si sprecavano, i tacchi in tinta con le sciarpe, le abbronzature senza limite, i vestiti impalpabili, nuance d’estate.

La conca verde ha un solo proprietario, nessuno si disturberà del suono alto di fisarmoniche. voci e clarini. I gruppi si aggregano, disperdono, ricombinano. Ciascuno, solo od in coppia, s’aggira con passi di tango, tra solitudini ed apparenza, importante è percorrere la pista.

I fritti, i crudi, le sorprese escono continue dalle cucine. Come i vini, strani e nuovi per avere un posto di commento e ricordo.

Poi i tavoli, aggregano, come le parole, e come queste, dividono. Meglio parlar di nulla, guardarsi attorno. 

Qualche civetteria, una curva, un accenno di seduzione si infrange nel monologo iniziato dall’attore e nel divertimento mio.

Grande la sua passione del recitare, grande la lingua vecchia di 5 secoli, grande il periodare denso d’ immagine, di cose, di disincantato sguardo.

20 generazioni ed avremmo calpestato le stesse pietre.

Ma il richiamo della lingua ruvida e tonda, non dice nulla ai molti, neppure gli accenti sapidi sulle virtù delle pute, attirano attenzione e sorriso. La curiosità si spegne, finché un applauso zittisce. Riprende il teatro del mondo, riti e convenienze, seduzioni celate. 

Mi attacco ad un toscano per guardare lo spettacolo e pensare ad altro.

Nel prato, la notte è dolcissima, i colli hanno punte d’albero imbiancate dalla luna.

Un inizio di commozione basta per andare.

todo cambia

E’ questione di stile e portamento. Non si può fare altro, perché non si cambia, non ci si raddrizza più. E bisognerebbe saperlo, sin da piccoli, ma non con gli avvisi dei genitori, che a poco servono per saper guidare la vita.

E pensare che si vedono subito i segni. Ero indolente, potevo fare di più. Rispetto a cosa, e perché?  Bastava spiegare, far vedere i vantaggi, no? Tutto sarebbe andato allo stesso modo, ma diverso, perché i fondamentali sono li, vicino alle radici. Si parla di predestinazione, di seguire qualcosa che abbiamo dentro, tutto vero, ma se si segue solo l’indole, il resto si perde e con esso le persone. Anche noi.  

Uno sconsiderato resta tale, non migliora, una persona abituata ad avere si stupirà, se non arriva il desiderio soddisfatto. Poi il vivere tra persone complica la vita, c’è sempre qualcuno che attende qualcosa. Anche noi stessi. Ho scelto di fare l’inafferrabile, non mi prendono eppure non sono contento. Vorremmo leggessero ciò che vogliamo davvero. 

Spesso si dà la colpa al narciso che conteniamo, un motore monocorde che fa tirar dentro la pancia ed affiggere specchi di vetro, parole, carta, sorrisi, carezze. Narciso non tollera il rifiuto alla sua bellezza presunta, per lui è il disamore, la negazione del bello che ha messo in comune. Basterebbe spiegarlo, spiegarsi, fare esercizio di considerazione di sé non riflessa. Cercare l’eros in se’ oltre che nell’altro, volendosi, ironicamente, bene. Ed invece…

Non si muta, ovvero si cambia tantissimo, ma a modo nostro, non come vorremmo, né come vorrebbero. Che poi mica è vero che ci viene chiesto di cambiare, anzi viene preferita l’immutabilità, la costanza d’essere. Quella ben conosciuta, possibilmente. Viene chiesta, invece, la compiacenza, l’atto rassicurante per il tempo in cui si sta assieme. Era quello riservato ai transitori zii, che di nient’altro avevano bisogno, se non di rassicurante amore.

Averlo saputo sarei rimasto all’età del no, avrei preso meno sberle, si sarebbero dovuti esercitare nel correggere la riottosità innata fino all’esaurimento, ed invece quel raddrizzare d’ allora, ha prodotto una serie di sì con l’anima negativa. Una cosa perniciosa. Ma vorrei rassicurarvi, non è accaduto nulla di grave, solo una piccola resipiscenza sul vivere, spostando picchetti in avanti per trovare il positivo.

Ci pensavo ieri che, salvo poche eccezioni, non sopporto parecchio, però ho pazienza. Il positivo che trovo, oltre al bello esterno a me, è tutta questa risibile esperienza, che forse non era necessaria, ma a farla era piacevole e dolorosa. La parte dolorosa sarebbe passata, come il mal di denti, bastava un po’ d’analgesico. Il tempo, ad esempio. Quella restante è rimasta, e mi ha cambiato a modo suo, tanto che adesso, devo riconoscermi.

 

p.s. la canzone è bellissima, parla dell’ Argentina, un paese che mi ha impressionato e preso molto, il video parla di Nahui Olin, ovvero Carmen Mondragon, così ben raccontata da Cacucci in Nahui .