racconti per notti di vigilia: puer natus est

Foglie di platano a mucchi. Sono mani palmate, croccanti, aliene, grandi, secche, in quel color tabacco che fa voglia di fumare. Sensuali come sigari arrotolati da mani femminili, o sminuzzate dentro fornelli di pipa a cui s’è accostata la brace d’un ramo tolto dal camino. Ma sono foglie, e questa è voglia di fumare, accende mezzo sigaro e guarda. Foglie a mucchi, ai lati dei marciapiedi. Ai piedi degli alberi. In distanza si vede il giallo della tuta dello spazzino con una buffa scopa, una grande L, che manda avanti le foglie. Un suo collega, anche lui in tuta, si muove come un pendolo dalla strada verso il marciapiede, ha sulle spalle una macchina che soffia, e spinge le foglie verso la scopa.

Soffia, foglie, scopa, mucchi.

E’ mattino presto, l’insonne fumatore cammina, è uscito da poco. Guarda e nella testa ripete come un mantra: soffia, foglie, scopa, mucchi. E sorride mentre il vento le ri sparpaglia distratto. Sorride ai due cani che si rotolano nelle foglie felici, all’auto che ci parcheggia sopra.

Vento, foglie, scopa, mucchi, è l’equivalente di: si nasce, vive, muore, il resto sono chiacchiere. E così sorride ai pochi passanti che semplicemente passano verso qualcosa di definito. Non notano. Neppure il suo sorriso, notano.

Di mattina presto la città è diversa, emergono uomini che poi si rintanano nel giorno. Ognuno dove ha scelto, la necessità è una scusa, si rintanano e basta. E così guarda, accumula in testa. Ripete: soffia, foglie, scopa, mucchi come fosse il riassunto di un modo privato del sentire. Poi scivola di pensiero, si ricorda perché è uscito: ci s’innamora d’autunno. Pensa. E prende a calci qualche foglia sparsa. Ci si innamora e poi si attende. Può succedere una cosa e il suo contrario, la felicità o la disperazione, tutto in poco tempo e in una noce d’energia. Come un big bang, ma ordinato e se tutto schizza ovunque c’è  un procedere pieno di contrasti. Magari ci fosse il caos e basta, l’emozione, c’è l’ordine delle scelte. Entropia positiva, o almeno pare. Urgenze frenetiche, tempi dolci di certezze, abissi d’attese, insicurezze improvvise. E poi domande. Infinite domande a senso unico: Sente anche lei lo stesso? Perché non chiama? Chissà a che pensa, c’è qualcuno con lei? Domande, sempre domande, presagi di qualcosa che sarà gioia o delusione. Non voglio la delusione, si dice, ma accade.  E così mi difendo. Metto ragioni, incredulità, speranze deluse, tutto a far da freno. Però non funziona, la somma delle cadute pregresse non è un antidoto alla voglia di correre. Semplicemente tutto ricomincia. Solo in amore non c’è un prima e un dopo. Non c’è almeno per quell’attimo magico in cui tutto è possibile.

S’è alzato di buon mattino dopo una notte passata tra sogni e risvegli. Sogni fastidiosi, aggressivi che sembravano accordarsi alla sensibilità della veglia. Attorno, nel buio temperato dalle spie d’interruttori, rumori, schiocchi, pensiero di topi o di qualche preesistenza. Le case che hanno avuto altre vite portano impronte del sentire. Lì qualcosa, di certo, era avvenuto. Parole scambiate, ira, risate, era stato fatto l’amore, consumati rapporti frettolosi, delusioni, rabbie, rassegnazioni, speranze, obiettivi, piccoli passi di figli, risvegli, abitudini, pasti stanchi, veglie. Tutto accumulato in energia che s’era infiltrata tra i mattoni assieme ai desideri sino ad esplodere in rivoli di scelte, di alternative, di stanchezze soddisfatte, di vuoti, d’improvvise felicità. Tutto lì dentro, in pochi metri quadrati, nell’infinito campionario degli usuali modi di vivere. E nella sua veglia cosa restava? Un senso di bisogno, un’ assenza forte, un moto d’amore nascente, un guardare il soffitto nel buio, un muoversi dentro, fatto di attese e … di piccoli estranei rumori che generavano inquietudine.

Finalmente era arrivata mattina, con piccoli accenni di luce dalla veneziana del bagno. La mattina, con le sue abitudini, la colazione lenta, il pane imburrato, il doppio caffè, il latte caldo. Anche se non aveva fame, ogni mattina era così: solo per piacere. Gli animali mangiano per fame, non gli uomini. Tutto secondo il rituale del benessere, del tempo proprio. Come si dovesse indossare la corazza di un piacere per sé che servisse all’esterno. Un difendersi dagli sguardi sapendo che si era altro. E poi usare parole frettolose o distratte, indifferenti o fintamente partecipi, senza badarci troppo, essere banali insomma, per non mostrarsi, per tenere il meglio di sé ben protetto, perché quella era la parte importante, non sacrificabile. Casomai si poteva metterla in mani fidate, condividerla, ma dilapidarla nella banalità, questo no, non sarebbe stato utile a nessuno. E l’utile comunque emergeva nelle vite condivise, il resto erano perle ai porci.

Aveva sorriso, davanti allo specchio. Sono così affascinanti e infedeli gli specchi. Aveva pensato. Hanno dentro qualcosa di quello che vorremmo essere e che però non si vede. Al più c’assomiglia. E’ questo il loro fascino: avere un pezzo di noi e rappresentarlo in un’immagine che a fatica, riconosciamo come coincidente in qualcosa. Sarà per questo che le donne si cambiano davanti allo specchio. E si guardano oltre e tentano di modificarsi perché pensano di avere la capacità plastica di coincidere con l’immagine riflessa. E quando questa capacità di vedersi oltre, di modificarsi, diventa meno soddisfacente, allora concludono che è finita la giovinezza, che sono irrimediabili. Aveva sorriso. Di nuovo. Per lui la giovinezza, come le altre età della vita, non s’ era mai chiusa. Era proseguita nei meandri di possibilità, di sogni, di cose fatte e di insoddisfazioni. Per lui la giovinezza era l’età in cui nulla può davvero soddisfare a lungo, perché le soddisfazioni sono esplosioni di senso, scoperta. Ma anche attese gravide, pesanti, toni cupi, giorni che non sgorgano. Per questo la sua giovinezza non la cercava nell’immagine allo specchio, ricerca inutile del resto perché c’era un viso segnato, labbra usate, occhi spesso stanchi, ma nella capacità d’essere spinto in avanti, nel partecipare, nello sperare e amare. Nel provare che osava, dava credito, salvo poi chiudersi in silenzi offesi, in sofferenze repentine e grandi. Una giovinezza sanguigna e sanguinante, un rito di vitalità prima che di vita. Feconda. Ecco la parola che poteva contenere lui, il giorno, ciò che accadeva, la soddisfazione rada, il desiderio, la responsabilità, i bisogni. Feconda. Tutto senza un fine evidente se non il vivere. Un arrivare come un eterno andare. E un eterno naufragare e un salvarsi. Perché il naufragio è la rottura della previsione, della complessità della macchina in forza di natura, è l’organizzazione certa che fallisce e il doversi ripensare, ricollocare in un luogo e un tempo nuovi. Un inizio. Come l’ora dopo l’amore, il silenzio dopo le parole, l’ansare dopo la fatica, la solitudine dopo la folla.  E’ accaduto, che si fa? Si era ubriacato di solitudini partecipi, ce n’erano talmente tante e parlanti attorno, in cerca di confidenza, di contatto, che aveva cercato sé nei silenzi protratti. Si era ritratto nell’immagine assoluta che veniva dai fallimenti, sapendo che un fallimento era un esito dopo una storia di successi. Facile accadesse, fosse solo per la legge dei grandi numeri. Ed era così che, tra alti e bassi, tra difficoltà a trovar senso sino all’orlo della disperazione, dell’annientamento, aveva costruito una instabile, incompleta, immagine di sé che nessun specchio avrebbe mai potuto restituirgli. Voleva essere, non assomigliare. E così aveva sorriso nuovamente. Quando sorrideva sentiva che gli occhi si aprivano, che c’era una luce divertita dentro. Come un accogliere, un abbracciare per comprensione, non importa cosa, ma c’era disponibilità ad ascoltare e far sua la vita d’altri, esserci in modo inusuale e senza chiedere nulla oltre al calore comune che si creava, la confidenza.

Stanco di casa e tepore, immerso in questi pensieri era uscito. Desiderava essere al mare, l’aveva sognato in uno dei brevi sonni, un mare d’inverno, freddo, inospitale. Un luogo per stringersi più che per contemplare. Fatto di rumori ritmati di risacca, gridi di gabbiani. I gabbiani c’entrano sempre, pensava, sono banali i gabbiani. E sporchi. Mangiano spazzature, Ce n’è ovunque, seguono le discariche. Però al mare quando veleggiano contro vento, e leggeri, senza muoversi volano, allora danno l’impressione della libertà di chi possiede un segreto: il disporre di sé. E diventano il sogno di un prima, di una ingenuità intelligente, di una pulizia interiore vissuta nello sporco, nel compromesso per bisogno. Avrebbe voluto il mare e un abbraccio che non si stacca, un cingere a sé, a fianco. E guardare sino e oltre il limite del freddo, sino alle labbra viola e poi correre in cerca di caldo. Ridendo.

 

Fuori, invece, c’era la città al mattino e le foglie, i viali ancora semi deserti, le strade come ferite tra le case. Luci di finestre, i primi rumori, la pasticceria che apriva, odore di cose sfatte e profumo di dolce, un altro caffè. Ogni volta si stupiva della differenza di ciò che vedeva di prima mattina, rispetto a un’ora successiva. La vita del primo tram, le persone che aspettavano e quelle che rientravano, i rumori, la luce. Pensava a come la città fosse il luogo dell’occidente, e del ‘900. Mentre altri continenti, l’Asia, l’Africa, il Sud America, ma anche la Russia e la Siberia, avessero la dimensione della terra. La terra come appartenenza ampia, che respira talmente tanto da essere un suono dell’anima. I russi erano stati bravissimi a descriverlo perché lo sentivano. Lo spazio, la terra-madre per il cibo, la sicurezza, il luogo, la bellezza, sino a diventare appartenenza, cultura. La Grande Madre Russia era la terra, e così con altri nomi accadeva ovunque, in Africa, in Brasile. La città era altro, un contenitore di fallimenti, di economie, anche di sentimenti, un limite al futuro, alla libertà. Amore, innamoramento, libertà, condizionamenti, noi insomma.

Quell’attività di persone e cose lo portava verso un distrarsi. Pulizia delle strade, trasporti, serrande che cominciavano ad alzarsi, e le finestre che si aprivano, la luce, un viso che si affacciava, uno sguardo al cielo e all’asfalto. Seguiva le cose che accadevano e le foglie. E desiderava essere al mare con lei, poi in qualche cittadina svuotata di turismo, nelle luci e nel calore dove si sta, Si vive. Sconosciuti agli altri per scoprirsi. E invece camminava solo ed era in una periferia antica, fatta di orti dentro le mura, sequenze di palazzi e di casette intrappolate dalla speculazione. Lì c’erano state cooperative di insegnanti e impiegati che avevano costruito case di mattoni rossi, piantato alberi ormai centenari. Una idea piccolo borghese, con l’orto minuscolo, le rose, la finestra dello studio sulla strada. La sera, passando per quelle strade, si vedevano dalle finestre, luci filtrate da vecchi paralumi, verdi, gialle, e tra le tende, libri. Ma usciva spesso anche odore di minestre, di vecchio, di avvenuto. Pensieri che si erano dispersi in adunate oceaniche, perduti in ideologie forti, stanchezze successive, nuove fedi e fallimenti di vite. Era rimasto l’odore di minestra e a Natale di cotechini, i nipoti in visita ai nonni che erano stati figli di cooperatori, presenze di badanti sollecite dalla parlata strana. In una di quelle case, forse viveva ancora una sua insegnante, quando l’aveva conosciuta lui aveva 20 anni e lei forse 40. Un po’ in carne per l’epoca Twiggy, ma carina. Nessun sogno erotico e neppure troppa confidenza, però si parlava di Parise, Calvino, Pavese, e sembrava amasse Gadda. Una cosa da gourmet per il miscuglio che contenevano quelle scritture e da cui lui era affascinato. Poi era sparita negli anni, vista qualche volta e poi più, ma l’impressione di qualcosa che si sarebbe ancora potuto dire gli era rimasta. Cercava di capire qual’era la casa. Per distrarsi, seguendo un interesse che in realtà era altrove, ma non trovava. E anche se l’avesse trovata che avrebbe potuto dire oltre qualche convenevole, qualche ricordo. Per questo non bisognerebbe mai lasciar cadere le opportunità di sentirsi di più, di condividere quando è ora.  E adesso era Lei, quella che avrebbe voluto con sé al mare, ma non c’era e chissà cosa stava facendo.

 

Il nostro insonne capisce che è inutile, il pensiero torna sul desiderio di lei e allora va verso casa e prende l’auto. Vuole andare via, per non chiamare, per mettere distanza rispetto a ciò che entrambi conoscono. Un sentimento che nasce. Deve andare via.per far qualcosa  così, ascoltando musica, guida. Abitare non distante dalla costa gli dà molti vantaggi, in mezz’ora si arriva al capolinea di un sogno. E finalmente c’è il mare davanti. Un vaporetto e poi la sabbia fredda, spuma, alberi dell’ultima mareggiata, gabbiani intirizziti. Il giaccone pur appiccicato al corpo, non gli tiene il caldo. E’ freddo, umido, una mattinata grigia, la spiaggia vuota. Cammina. Gli pare di aver camminato tutta la vita. La sabbia cede, e lui pensa, ha desideri, e freddo. Punta verso un bar, dentro, pescatori che giocano a carte, odore di vino, minestra e ancora di cotechini che stanno bollendo. Come in città. Sorride. Non si scappa davvero mai da sé, tanto valeva stare a letto stamattina. E qui non si parla con nessuno. E’ un “foresto”, il dialetto non basta. In questi posti, d’inverno ci si chiude ancora di più. E non è il freddo. Pensa. Tra poco è Natale. Che solitudine ha in sé il Natale, come un’attesa che non sfocia in un abbraccio. 

Allora esce e per la strada vede la sequenza di chiese che guardano la riva, su una c’è scritto: Puer natus est. Che forza ha il latino, pensa, più di un tweet .Sopratutto molto di più di quello che non arriva. Però è nato un bambino. E con lui tutta la possibilità e il futuro in qualcosa che crescerà. E’ bello pensare che nascono i bambini, anche quelli dentro sono bambini. Anche l’amore è un bambino.

E così arriva all’imbarcadero per prendere il battello e per tornare. Per tornare dove?

IMG_0194

A tutti quelli che attendono, che trovano qualcosa di nuovo che li riguarda, a tutti quelli che camminano, che vogliono innamorarsi, che ascoltano, che crescono senza prevaricare. A tutti quelli che sorridono, che abbracciano, che accolgono. A quelli che tornano e a quelli che ci sono e non ce ne accorgiamo mai quanto sono importanti e li amiamo. Buon natale.

racconti per notti di vigilia: tempo previsto per oggi, domenica…

S’era messa a fare i biscotti. Farine, burro, uvetta a mollo nel latte, mandorle, zucchero, uova, lievito. Nella ciotola le farine mescolavano i colori in scie, attendevano il giallo delle uova e il paglierino del burro sciolto, ne veniva un aranciato omogeneo che si scoloriva nello zucchero. Mescolare, mescolare a lungo, con il braccio che sentiva la consistenza dell’impasto e la morbidezza crescente. Si lasciava andare, l’impasto, a quella violenza morbida e la densità, prima granulosa si rasserenava e diventava liscia. Una amalgama omogenea che inghiottiva uvetta e mandorle, golosa essa stessa di sé. Una crema densa ch’era quasi un peccato suddividere in piccole losanghe, cerchi, animaletti da formina che sarebbero bruniti nella piastra: era bella così.

Con gli ingredienti e le proporzioni, e un po’ d’amore per i propri gesti, il risultato non muta. Accadesse anche nei sentimenti… Fare, pensò, era un antidoto al pensare, all’oppressione che sentiva. Sapere che dalle sue mani sarebbe uscito qualcosa di buono, sembrava rassicurarla. E come l’accudire, fare biscotti o torte per sé e per i bambini era mettere del dolce in mezzo alle difficoltà. Perché per un attimo restasse l’amore. Anche in bocca. Solo l’amore. Cos’era la gelosia se non una malata forma d’amore? Malata di rifiuto, d’insicurezza, di possesso. E il possesso stesso era conseguenza della non certezza. Un giudizio su di sé, non sull’altro. Amato, desiderato, mancante quanto mai eppure non raggiungibile. Gelosia e cose dolci assieme, e una malinconia infinita, impotente, come un lasciar scorrere sangue da una vena aperta, che non fa abbastanza male e intanto toglie le forze. Languore del lasciarsi andare. Scorre il sangue, lo spirito, la stanchezza. tutto assieme. Prima tumultuava dentro sulle pareti, sciacquava veloce nelle curve, invadeva il cuore e colmava tutto fino all’ultimo capillare, cosicché la malinconia era in tutto il corpo. Ovunque. Ho un alluce malinconico. Pensò. E sorrise, con quell’allegria discreta che avrebbe voluto condividere con lui, che avrebbe voluto potesse essere sua. Chissà che fai a quest’ora? Pensò. Con chi sei. Chissà se mi pensi. Nella gelosia non si accetta d’essere meno che importanti all’altro, eppure c’entriamo noi, solo noi, è un’importanza non condivisa. Dove ho sbagliato. Pensò. Oppure non c’era nessun errore e ciò che ci condanna alla mancanza è qualcosa di distante, un vuoto che ci sembrava di poter colmare, ma che non ha limite e allora pretende d’essere esclusivo e vuole tutto per sé. Incolmabile mancanza non tollera l’insicurezza. Come ai funerali. Come si vivrà senza? 

Vuoi più bene alla mamma o al babbo? Domanda stupida, inutile, volevo essere voluta bene da entrambi, non volevo bene a quel fratello che mi portava via il loro amore. quell’amore fatto di disponibilità e attenzione. A che serve essere come ci viene chiesto, se poi l’amore non è sufficiente, se non è disponibile quando necessita, se non c’è quando lo si implora muti perché afoni di dire. Eppoi dovrebbe essere naturale riceverlo, no? Invece non è così, non basta mai. Poi quando si cresce, si intromette il piacere e allora tutto sembra complicarsi e scomplicarsi. Il piacere condiviso lega assieme, è la porta della confidenza, misura di qualcosa che si riproduce sempre diverso, a voglia, ma è un mettere le mani avanti su un futuro partendo da una felicità. Sennò cosa resta? Per questo la gelosia è un dialogo con sé prima che con chiunque altro, un dialogo che se non ha risposte scava, disgrega, devasta. Quando emerge cosciente , la rovina è già inarrestabile. solo l’altro la può arginare, farci ridere assieme. Che stupida. Pensò. S’era seduta e le mani giocavano con gli stampini dei biscotti. Però tu rassicurami, ti prego. Chiamami. Dimmi che solo noi, solo noi possiamo essere insieme. Felici. Dimmelo in qualche modo, fammelo sentire, perché così potrò lasciarmi andare alla fiducia. Ho paura di perdermi. di scivolare in una solitudine senza fine. Ho paura di avere freddo. Quel freddo che non va via e tu ti mette coperte, scaldi la boule, soffi sulle mani e c’è sempre una lama che risale e ti prende tutta. E sai che non avrai più caldo. Più.

Le voci dei bambini che bisticciavano, del cane che era impegnato a chiedere un suo ruolo nel litigio, la fecero lanciare un richiamo. Alzò la voce. La fece scura, imperiosa. Minacciò. Ma era distante con la testa. Non le importava molto, presa com’era da quel flusso di pensieri che s’ingolfavano dentro, s’attorcigliavano, diventavano circolari e ripetitivi. Un mantra negativo. E anche se sembravano tanti, poi erano uno solo: mi manchi.  Lo disse ad alta voce perché avrebbe voluto lo dicesse lui: mi manchi.  E voleva sentire il suono avvolgente di quelle emme che si sovrapponevano, così lo ripetè sempre più rapido: mi manchi, mi manchi, mi manchi, mi manchi … finché divenne un sussurro, un soffio, come un bacio che stava per posarsi sulla nuca. E allora chiuse gli occhi socchiudendo le labbra e aspettando arrivasse. Mi manchi. Ripetè. Uno dei bambini entrò con una grossa lacrima che scendeva, cominciò a protestare le sue ragioni e si convinceva con il discorso mezzo urlato e mezzo a singulti. Arrivò anche il cane e cominciò ad abbaiare a tratti, guardando alternativamente lei e il bimbo. Come si aspettasse qualcosa. Lei si chiese perché le lacrime a volte non sono simmetriche, ma ne cade una sola all’inizio, da un solo occhio mentre la testa soffre intera. O forse non era così e si poteva soffrire a mezzo? Prese in braccio il bimbo, gli diede il dito pieno di impasto dolce da succhiare. E mentre si quietava pensò alla bocca di lui. Pensò che avrebbe voluto tornare indietro. essere bimba e donna allo stesso tempo. Essere tenuta, compresa, capita, amata. E che tutto cominciasse su un foglio bianco con una parola ancora da scrivere, da declinare, da condividere. Ci si innamora della mancanza di essere amati, e così si pronuncia quella parola. E ci si crede perché sembra non ci siano alternative. Forse qui c’è una radice di malessere che finisce nella gelosia. Pensò.

Era finito il giornale radio, la voce dell’annunciatrice disse: Tempo previsto per domenica… Il bimbo dormiva succhiando il dito. Il cane s’era accucciato sui suoi piedi e sembrava appisolato. Guardò fuori. Era già scuro, la notte s’era mangiato il giorno, le cose, la possibilità. Le sembrava di non aver combinato nulla. E allora desiderò profondamente di uscire, camminare, essere distante da sé, mentre fuori pioveva e l’acqua lavava i vetri, gli alberi, l’asfalto, ogni pena.

inizio un po’ fangoso

C’erano dei luoghi, a est, che erano incongrui alla mia immaginazione. Non sapevo quello che avrebbe dovuto esserci, ma ciò che c’era era diverso da quello che mi aspettavo. Ero in un paese doppiamente straniero, straniero a me stesso e pure a chi ci abitava. Così ho conosciuto il realismo socialista e anche l’architettura imperial austriaca, tutto mescolato alle cupole dai colori accesi, le chiese piene di marmi dei gesuiti, i mattoni dei francescani, i finestroni alti e i fregi sui portoni. Gli uni avevano copiato dagli altri, in pretenziosità, come si dovesse sempre dimostrare qualcosa. E’ tipico degli invasori non essere sicuri, lasciare tracce, prima sui corpi e poi nei luoghi, mettere lapidi, imporre lingue, regole che devono trovare una espressione che resti. Per questo scelgono la pietra.

Appena fuori c’erano le casupole basse allineate lungo le strade fuori dagli itinerari europei.

Erano, quelle lunghe file di case color fango, con i giardinetti minuscoli davanti, con i cancelletti di legno, con gli stivali di plastica appena fuori della porta, affacciate su marciapiedi di terra e strade affollate di camion e biciclette, quelli erano i luoghi veri dell’abitare. Erano le dalie e i cavoli, i tumoli di terra nera cosparsi di torsoli, le vecchie latte di conserva pieni di terra e fiori, quelle erano le case di chi c’era e non era stato conquistato da qualcosa. E quando un viso di vecchio mi guardava da una doppia finestra, da quei vetri piccoli, incorniciati tra profili bianchi e quadrati, pensavo che di lì a poco sarebbe comparso il viso di un bimbo. Con le guance rosse, i capelli biondi e lo sguardo serio dietro gli occhi azzurri. E puntualmente accadeva. Allora ero soddisfatto e mi sembrava d’aver capito, d’essere meno straniero.

ritorni 1.

IMG_4984

Accettiamo che alcune persone modifichino le nostre vite. Ma non tutte, per fortuna lo fanno. Per questo poi sembrano strani i ritorni intensi, in specie da parte di chi un tempo si è opposto ad essere importante.

Così pensavo delle parole che leggevo. E queste hanno sempre un peso quando sono lì a ricordarti altri significati (sono potenti i messaggi inattesi) e a maggior ragione se chi le dice, in qualche modo poteva essere altro. Ma ora quelle parole si fermavano al loro significato e non andavano oltre la domanda che esprimevano. C’è sempre una domanda racchiusa tra le parole, così pensavo, e l’intuito che ci viene chiesto nel trovarla, racchiude ancora altre richieste. Però ripreso il filo del condurre le vite, ci poteva stare tutto nel capire e nel rispondere. Una spiegazione meditata o improvvisa, un silenzio, un parlar d’altro che contenesse tra le righe una risposta. Certo veniva mosso un ragionamento, un sentire, ma questo non si trasformava in sentimento, perché quel percorso d’accettazione, allora, non si era attuato. E siccome la mia testa cerca sempre d’oggettivare l’impalpabile, immaginavo che qualcuno di conosciuto fosse entrato allora, e ben accolto. Poi, per suoi motivi, se n’era andato, non senza prima aver spostato degli oggetti, smosso una poltrona, aperto un libro e lasciando testimonianza d’un proprio alternativo ordine. Che poi era una proposta. O almeno così pareva, ma la sua lontananza successiva, con i suoi, per me poco comprensibili motivi, aveva fatto rimettere tutto al suo posto. Che non era il posto di prima, ma quello mio di adesso. Così nel ritorno, inopinato, la casa risultava cambiata ed io riconoscevo più i tratti che s’erano mutati nell’altro, dei miei. Erano sparite quelle caratteristiche di luce e possibilità che inizialmente avevo scorto, e m’avevano smosso intuito e attrazione, ora il dialogo si svolgeva senza una profondità possibile e le vite, nostre, si erano mosse sui strade diverse che nessuno aveva voglia davvero di esplorare. Visto che neppure questo si metteva in comune. Ci si poteva salutare, usare le formule del rivedersi, abbracciare, ma senza nuovo il vecchio aveva perduto di significato ed era al più un ricordo ed una domanda su quello che sarebbe potuto essere e non era stato. Un pensiero che entrambi molto presto lasciavamo cadere assieme all’attenzione che costruisce. Quella che apre e rimette nuovamente un ordine a disposizione di mani amorose e attente.

racconti per notti di vigilia 2.

Un frullo, una piccola paura gioiosa di bimbo, e poi quello sprofondare in una tenerezza senza limiti, cullando pensieri ad occhi aperti nel buio, con il timore che facessero strepito, che parlassero come non avrebbero dovuto, come non potevano.

E così nella notte si scopre d’essere innamorati… guardando un soffitto che non si vede, con la paura lieve che nasce da ciò che da molto non si conosce più.”

“Il fatto è che le felicità si assomiglieranno poi tutte, pensavama siamo più avvezzi all’allegria, al ridere che alla felicità. E la felicità ti prende dappertutto, circola con il sangue, così che poi è felice la testa e il piede assieme. E il piede avrebbe voglia di muoversi, di correre. E così la testa di far scorrere vento tra i capelli. Oppure la sua mano aperta tra i capelli. Che ci gioca, che scrive qualcosa con le dita, che ti tiene e libera assieme. E ti viene voglia di chiudere gli occhi e ascoltare, mentre un brivido scende la schiena. Ascoltare, stare, percepire, sentire. Tutti verbi attivi e passivi allo stesso tempo. Essere e divenire.”

Nel sentire fluttuante della felicità, c’erano sprazzi di ricordo. Una mano che si era infilata nella tasca del suo cappotto, tenuta, stretta e riscaldata, una parola che era uscita scavalcando difese interne ritenute inespugnabili, un sorriso e uno stringersi improvviso nell’abbraccio, per un bisogno così impellente che non ammetteva ciò che stava attorno, ma solo loro due. E nel buio collocava quegli accadimenti in luoghi precisi, che ora sembravano indelebili con la loro trama di particolari: le cose attorno, le luci, il freddo, ciò che conosceva ed improvvisamente era sembrato nuovo e notevole, la data, l’ora. E pensava, che alcun ostacolo fosse davvero importante, che il tempo si piegava a questo sentire felice, generando una bolla che li isolava dal resto.

“Sono felice qui e ora, pensava, non ho un progetto, non mi attendo nulla perché ho già tutto, ciò che verrà non mi riguarda, sono felice e basta. Anzi innamorato e questo non ha bisogno d’altro per ora. Poi verrà il resto della vita, ma adesso c’è solo questo sentire senza limite. La sensazione di essere vivo. Vivo come mai prima, vivo perché è stato messo in moto un motore che non sapevo di avere, che mi stupisce. Che mi riempie di energia e la vedo questa energia che si deposita dentro di me e mi carica. E ho voglia di fare e di stare fermo assieme. E se resto fermo al buio a guardare un soffitto che non vedo, è perché il frullo che mi fa vibrare e sciogliere, è una sensazione in cui mi immergo, in cui sto bene. Sento, ho la pelle scoperta, sento tutto. Se mi alzassi dovrei uscire, non resisterei in casa, andrei nella notte fin sotto le sue finestre, tenderei l’orecchio per sentire il suo respiro, immaginerei i suoi pensieri, i suoi sogni e vorrei così profondamente che lei mi sentisse che, di sicuro, ciò accadrebbe. Anche se dormisse,  accadrebbe. E’ quello che faccio ora, qui, anzi non essendoci movimento, né freddo, nulla mi porta distante da lei e la sento. E lei mi sente. O almeno lo credo; lo spero.”

L’altra notte si era attardato in ufficio, aveva bisogno di pensare e al buio guardava la strada dalla finestra. Dall’alto vedeva le auto, i camion, accendere gli stop in continuazione. Accelerazione, frenata, sosta. E poi riprendere con una ritmicità musicale. Sembrava un balletto con una lunga fila di ballerini che si snodavano nel buio. A tempo, con grazia. Pensava che in quell’armonia, involontaria e obbligata, molti tornavano a qualche casa, altri invece avevano mete differenti, eppure tutti per un tratto erano accomunati  dalla danza degli stop. A quell’ora si andava ovunque. Alle case, col loro rumore, gli odori, le voci, gli affetti o anche la noia, il mutismo, il malessere. Oppure verso il divertimento, i locali che attendevano assieme a qualcuno, nella ricerca di calore, di compagnia. Ci stava quiete e inquietudine in quella danza che continuava ininterrotta. Ci stava per lui, che era nell’oscurità e guardava fuori, e vedeva le poche luci negli uffici dei palazzi vicini, le molte finestre al buio, qualche persona ancora ai tavoli da lavoro, e più distante, il pullulare luminoso della città che non dorme, le fabbriche a turni continui, i locali, i fari di segnalazione degli edifici più alti.

Dall’ufficio si vedevano poche case d’abitazione, la città del lavoro e degli affari è una città separata, chiusa ai sentimenti. Come se gli affetti, l’amore, disturbassero il lavoro, il denaro che non ammette altri pensieri. E pensava a lei, a questa cosa che nasceva tra loro, immaginava cosa lei faceva in quel momento. Sperava ci fosse un pensiero tra i molti in lei, che lo riguardasse, e che questo la facesse fermare per un attimo, guardare attorno riconoscendo le cose e le persone, ma al tempo stesso la meravigliasse di non vederlo, perché  lei lo sentiva e lui era lì. Con Lei.

Guardava verso il palazzo di fronte, seguendo i movimenti dell’impresa di pulizie che accendeva e spegneva le luci. Vuotando cestini e passando panni sui tavoli, percorreva di luce il piano, come una scia verso gli uffici vuoti. Guardava e non vedeva, era emersa la voglia di sentirla al telefono, di ascoltare la sua voce. La immaginava prima sorpresa e poi subito diventare morbida per lui. E il bisogno forte era in quel numero che formava e cancellava. Gli sarebbe bastato anche un pronto?… per riempirlo ancor più di tenerezza. Pensava e giocava con i tasti del cellulare, tra impudenza e timore di combinare guai, in quella terra di nessuno dove un desiderio supera il timore e sfocia in un gesto, una svolta della giornata, in qualcosa che lascerà una scia colma di effetto. Così pensava e lo schermo illuminato lo aveva tirato fuori dall’ombra, perché uno sguardo dal palazzo di fronte lo fissò. La persona aveva la luce alle spalle e non si distingueva bene il viso. Si vedeva il colore dell’abito chiaro. Sembrava giovane, una ragazza. Gli parve gli parlasse, perché la bocca si muoveva scandendo qualcosa e il vetro s’appannava. Poi la ragazza alzò un braccio e mosse una mano per salutare. E meccanicamente lui rispose. Allora con un dito, la ragazza cominciò a scrivere sul vetro. Ad alitare e scrivere e gli pareva pure sorridesse. Mise gli occhiali per vedere meglio e lesse: elatan nuob. C’impiegò un poco a capire, e poi anche lui sorrise e agitò la mano, sperando d’essere visto. E alitò sul vetro, disegnando un alberello. E mentre ancora si salutavano, tornò il pensiero di lei, desiderò raccontarle tutto subito, vedere i suoi occhi che brillavano, sentire le sue domande, averla attorno che riempiva lo spazio e lui assieme. Desiderava sentirsi pieno di lei da non poterne più.

Sedette, allungando il corpo e i pensieri verso di lei, si lasciò invadere dal bisogno e dalla consapevolezza. “Ci sei.” Lo ripetè ad alta voce. “Ti amo.” Ecco ciò che importava. “Ci sei e basta.” Non aveva voglia di accedere la luce. non aveva voglia di uscire, chiudere la porta, prendere l’ascensore, salire in macchina, entrare nella danza che aveva visto nella strada. Non aveva voglia di staccarsi dalla presenza di lei. 

“Facciamo un patto.” Lo disse parlando sommesso, come se lei ci fosse. “Andiamo via assieme adesso, facciamo i gesti che servono, non lasciarmi, accompagnami e ogni tanto stringiti a me.”

E allora, lentamente, con lei, si avviò verso casa.

racconti per notti di vigilia 1.

DSC00230

Le billette si allineano nel piazzale. Disposte per orditi e trame salgono di 8-10 ordini in quadrati di sei metri o più. Qualche colata e le pile si alzano, poi i camion caricano e portano via. Il freddo del metallo lo conosce solo chi ci ha messo le mani. Anche con i guanti spessi, quel freddo ti entra dentro. E’ un freddo solido, squadrato, 140 per 140 fanno 900 kg a billetta di 6 metri. Così è pesante, potente, autonomo e indifferente. Com’era indifferente il calore, prima bianco e poi rosso ciliegia, centinaia di gradi di colata che rapprendono per loro conto, poi billette che scivolavano sui rulli, muletti, fuori. All’aria. Aria fredda d’inverno, alito di metallo che muove l’aria, deforma lo sguardo. Non è respiro d’uomini, non c’è vapore, è una vita per suo conto. Allineata, impilata, in attesa. Scaglie d’ossido si staccano e volano leggere. L’anno scorso con la prima neve si mescolavano all’aria e volavano attorno. Prima grigie e poi rosse ruggine. Come ciocche di capelli di una bella donna capricciosa che taglia e ti guarda con sfida. Continueranno a volare dai camion, scia destinata all’erba di scarpata, ai fossi. La poesia in fabbrica te la porti dentro, fuori turno. Nei turni serve attenzione, bisogna esserci e non sbagliare. Nella poesia si sbaglia sempre, sei fuori dal mondo, vedi i particolari e il generale, ti soffermi , pensi con un respiro possente e lieve, che è come il metallo, solido di sé. Solo che non hai tempo, ti muovi, mentre il metallo ha il suo tempo e nel piazzale dove volteggiano camion, gru a ponte e muletti, la poesia allora è quella che ti fa alzare gli occhi quando sui pioppi di cinta compare il primo verde. E’ la stessa attenzione che ora segue la danza delle forche dei muletti che sollevano e allineano le billette. Tutti diminutivi per cose che pesano, sono potenti, buone se non ti cadono addosso: billette, muletti. Ecco adesso il pensiero si ferma. Erano in sette alla Tyssen, non gli hanno fatto male le billette, è stato l’azzardo di altri sulla loro pelle, l’olio ha preso fuoco e l’incuria ha fatto il resto. Chissà chi si ricorda ancora della Tyssen e dei sette morti di Torino, sono passati 6 anni. Anche dei cinesi di Prato nessuno si ricorda più. Non ci si ricorda più di nessuno, solo il cuore ricorda, ma il cuore è qualcosa che si mette assieme. Non ci appartiene mai davvero. Ma adesso assieme facciamo fatica a stare. La classe operaia non esiste più, non esistono le classi, dissolte nell’individualismo. E non è successo troppo tempo fa, qualcuno s’è portato via per interesse lo stare assieme. Prova a pensarci, è accaduto. A chi è servito?

I capannoni sono aperti su un lato. Ci sono i portoni, ma sono sempre aperti. Se guardi da fuori, ogni tanto vedi lingue di fuoco: i forni covano metallo, lo scaldano, lo sciolgono. La ganga galleggia sul metallo fuso, poi finisce, a mucchi appena fuori. Dalla parete che manca entra vento d’inverno, entra ed è respinto dal calore. C’è poesia nel calore del metallo che scende dalla siviera negli stampi, sembra colore denso che cangia e che cola, c’è la poesia di una forza antica. Cose d’altri tempi, come il carbone, il minerale, il calcare. Cose senza tempo. Sarebbero facili le similitudini, evocare miti e vulcani, ma sono così banali le similitudini.  Adesso si usa rottame da queste parti. Rottame che arriva dalla Russia, rottame di guerra fredda, di altre povertà. C’è stato un tempo in cui, dopo Cernobyl misuravano la radioattività. Chissà se la misuravano sempre. Nelle case e nelle fabbriche attorno, anni fa avevano steso lenzuola fuori delle finestre. Si riempivano di polvere scura in pochi giorni, la gente protestava e non accadeva nulla. Anzi non è accaduto nulla: la fonderia c’era prima delle case, hanno detto. Sono diminuiti gli scoppi di notte, la gente si è stancata. Quando ci si stanca ci si abitua, lo sai che c’è qualcosa che non vorresti ci fosse, ma lo confini in un angolo. Sta lì acquattato come una bestia in sonno, poi di tanto in tanto, muove la coda e ti fa paura. Speri si riaddormenti se non puoi affrontarlo. E’ questo sonno che ti fa male.

Per capire dove sei, bisogna guardare quel pavimento grigio, le rotaie dei carrelli, ascoltare i rumori, sentire l’ozono e il carbonio che pizzicano un poco il naso, le pance dei forni, il calore, le tracce di ciò che resta e ciò che se ne va. Questa è realtà, solida e a turno continuo. Ci pensi mai che la realtà non dorme? Tu dormi e la realtà prosegue, la raccogli la mattina ascoltando il giornale radio, come la polvere sul lenzuolo fuori dalla finestra. Tu dormivi e la realtà apparecchiava il giorno. Particolari e generale. Guardi sul piazzale ed è quel volteggiare di scaglie d’ossido che è poetico, sembra neve sporca, sembra la pelle del serpente che volteggia nell’aria. Sembra ed è solo ossido che si posa. Piano, piano, come neve. Appunto.

if ovvero un flow chart circolare

159

Lei si era innamorata di un altro, all’inizio senz’ avvedersene.

O forse se ne avvide?

C’erano le circostanze, il caso fece il resto.

Lui disse ch’era già accaduto, ma prima s’era potuto rimediare. Adesso non c’era più nulla da fare.

Passò il tempo, neanche tanto, anzi poco. Forse per un simmetrico bisogno d’attenzione, anche lui s’innamorò di un’altra.

All’inizio senz’avvedersene.

O forse se ne avvide?

Si generarono dolori, qualcun altro ne fu sorpreso, in passato, gli pareva, d’aver potuto rimediare.

Gli sembrò d’essere quasi ucciso dal dolore e che solo ferire gli riportasse vita, ma poi si stancò d’essere senza luce, e cominciò a vedere il mondo che gli ruotava attorno.

Mentre il tempo scorreva, nuovi nodi s’erano allacciati. Vite, che sembravano squassate, ritrovarono abitudini conosciute.

Ma anche le altre vite, ch’erano apparse nuove, diventarono un po’ usate. 

Forse l’ urgenza ormai non era più tale.

Tutto sembrò acquietarsi perché ciò che sembrava forte, lo fu un po’ meno e quello che brillava, perse un poco la sua luce.

Così avvenne che pensieri, più o meno uguali, si formarono in teste che s’erano profondamente conosciute: nei grovigli di destini, un capo sempre fugge e disegna nuovi eventi.

E ricominciò l’attesa che il nuovo accadesse e la storia facesse finta di ripetersi.

Perché anche nell’abitudine allo star bene, la speranza ha sempre porte da cui uscire.

If, si disse, e cominciò a sognare.