il narciso invisibile

In stati di grazia, L.A. Kennedy, parla di un amore conclamato e asimmetrico. Lei è in difficoltà con i suoi principi, con il ruolo, però vive se stessa, non enuncia e ama. Lui dice l’amore, ma è schermato dall’ego nella capacità di cogliere il bisogno di lei, apparentemente la lascia libera di scegliere.  Coglie la bellezza, ma non la persona, e se la fa crescere nel desiderio e nella comprensione di se stessa, questo avviene indirettamente. Si liberano forze e identità oltre le parole. Si capisce che le cose avvengono su piani differenti, che non basta dire ti amo, bisogna vedere assieme l’essenza e il desiderio dell’altro e metterlo dietro al proprio, per congiungerli. L’amore sembra agire per proprio conto creando situazioni e offerta di decisioni, alla fine decide molto più lei di lui. L’uomo di genio che ama la protagonista, in realtà vede solo se stesso riflesso e dichiara il suo amore per quell’immagine. Narciso. 

La bellezza di questo racconto, oltre la scrittura eccellente, sta nel fatto che lei non si lamenta, si specchia dentro di sé non nell’altro. Gestisce la propria vita, e non si adatta, anche se l’apparenza sembra diversa, perché provoca l’evolvere delle cose attraverso il dialogo con se stessa. Cerca dentro le risposte anche quando queste non vengono. Apparentemente è immersa in un immane condizionamento che piega vita e sentimenti, ma la sua ribellione pacifica sta nel chiedere conto alla situazione, nell’accettare i vincoli per far esplodere la contraddizione. Non si lamenta mai con l’altro, è autosufficiente nella propria insufficienza. Non le serve quella altrui. Non chiede conto.

La vicenda è semplice e intricata, perché attinge all’animo umano. Suscita riflessioni fuori tema. Di cosa ci si lamenta quando si dice che non basta, che non viene fatto abbastanza in un rapporto?

Seguendo il filo di un pensiero che non c’entra nulla col racconto, visto che in esso il lamento non esiste ed è constatazione della propria insufficienza, direi che nel lamento di non avere abbastanza attenzione c’è un insufficiente incontro profondo, un bisogno non confrontabile. È l’insoddisfazione per una mancanza che non evolve in azione, che chiede cura subordinata: se sono importante per te, il tempo lo trovi. Questo è un altro modo per esprimere un narcisismo: se sono per te importante devo esistere io solo/a per te. Il tuo tempo mi deve vedere, deve prendersi cura di me. Ancora una volta è un riconoscersi in un riflesso che impedisce di vedere e di vedersi.

Il narciso è apparentemente autosufficiente, perché ha bisogno dell’altro come conferma, per questo tende ad usarlo, a sottoporlo a ricatto. In una specie alta d’amore esiste la libertà del lasciar crescere, dell’attendere sicuro di essere cercati perché esiste una meccanica spietata nelle cose che accadono: l’incontro per scelta non ha necessità esteriori, non ha tempi predefiniti, avviene per bisogno e il tempo del bisogno anche quando non coincide nell’attesa, non ne toglie la natura. È un intrecciare i fili ascoltando e leggendo la crescita propria che avviene senza dire finché sfocia nella necessità. Se si dipende dall’altro si è in una condizione che genera paura di non esserci nella sua vita. La prova dei fatti è asincrona, spesso dolorosa e sempre insufficiente, tranne nei momenti felici. Non è la normalità del vivere, ma non c’è nulla di normale in un amore, a partire dalla sua definizione impossibile, dalla sua non ripetibilità. Però c’è qualcosa di comune in ogni specie d’amore: il bisogno di leggere ciò che accade, di mettere insieme due diversità, di cogliersi in un rapporto profondo. Se consideriamo questo desiderio di cogliersi nell’altro come il segnale di una mancanza di certezza di sé, come il bisogno di una conferma, allora  si scopre il proprio limite e l’autosufficienza del narciso viene meno per l’assenza dello specchio: subentra la paura dell’invisibilità. Non essere considerati come persona, non essere importanti all’altro significa essere invisibili e questa è una sensazione che ci accompagna inesorabilmente verso la dipendenza. L’infelicità dell’amore.

http://https://www.youtube.com/watch?v=clC6cgoh1sU

la lingua di casa

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Senza che nessuno se ne accorgesse s’era formata una lingua di casa dove le parole avevano un significato particolare. E come per le ricette e i sapori, l’odore fresco delle stanze, il suono della strada, anche l’accento del dialetto, i termini privati e inusuali erano famiglia e casa. Non c’era un esercizio critico, i significati venivano appresi e considerati inequivocabili, inglobati in un lessico che comprendeva espressioni e gesti. Era la nostra lingua, con i nomignoli di ciascuno, le carinerie, i giri di parole per non dire. Un mondo particolare fatto di parole, credenze, assiomi, che si era creato in modo dinamico accostando il vecchio ricevuto e le esperienze nuove. Ed erano entrati i luoghi della vita, qualche termine straniero, mescolati nella ricchezza del dialetto, nei modi dire mutati, nella solarità banale delle forme proverbiali. Era una lingua di rara e impervia scrittura perché tra noi non ci si scriveva se non nella lontananza e anche questo, con frasi brevi, in italiano. Quasi un codice che doveva dire l’essenziale: che si stava bene, che si pensava a chi era lontano, oppure che serviva qualcosa. Bastava questo. La grafia del dialetto era difficile, più onomatopeica che codificata ed era impossibile tradurre in essa la lingua di casa. Meglio lasciar scivolare qualche termine che si sapeva avrebbe fatto sorridere e si sarebbe interpretato come una vicinanza maggiore. Un tra noi.

Un bambino è una tabula rasa, ma anche chi entrava nella famiglia sposando qualcuno, lo era, e pur portando con sé la sua lingua di casa, veniva a contatto con nuovi significati e importanze che modificavano il lessico e la lettura del quotidiano. Ed erano abitudini diverse, priorità, scherzi, modalità del ridere, lettura del reale, etica, banalità, sciocchezze che contaminavano una conoscenza ed erano esse stesse contaminate con qualche significato nuovo. Tutto avveniva in un feed back vitale di scambio, anche se ineguale, perché era vero che il nuovo veniva inglobato, ma vi era anche una gerarchia e per entrare ci si puliva le scarpe, si ascoltava e poi si veniva ascoltato.

Accade dappertutto questo processo di familiarizzazione della lingua, quindi niente di particolare, anche se era più forte un tempo quando le famiglie dovevano fare argine all’esterno, e lasciar filtrare ciò che era compatibile. La religione, i principi su cui articolare il vivere: l’onestà, la laboriosità, il decoro, il lecito. Erano filtri, assieme ad altro, per conformarsi a un buon nome acquisito. Cosa contenesse questo buon nome non ci si chiedeva più di tanto. Era la considerazione degli altri, la stima, il valore insomma, per questo non veniva mai messo in discussione che le faccende personali dovessero restare tra le mura di casa. Ma quello che ho capito poi, impiegando molti anni per farlo, era la vulnerabilità delle cose date per incontrovertibili. Allora erano e basta, come a saltare il dubbio, ad avere qualcosa a cui attaccarsi in un mondo incerto e spesso patrigno. Certezze come le parole tra noi, il fraseggio, gli accenti, i termini per indicare le cose. Alla fine si tornava sempre alla lingua antica, alla solidità del dialetto, perché questo già conteneva ciò che poteva essere detto con tranquillità: tutto il dicibile vicino al reale, scurrilità comprese. Non soccorreva però sui sentimenti, perché in questi era ritroso e pudico, ed allora emergevano i nomignoli che già contenevano il bene senza dirlo, e anche quando prendevano in giro lo facevano per ridere. Per questo erano custoditi con cura perché non era bello mostrare troppa tenerezza in pubblico. Erano cose tra noi, per l’appunto.  

La lingua di casa trasformava il dialetto in qualcosa di molto vivo, e anche quando adoperava la lingua di Ruzante evoluta, ed emergevano i pezzi d’arcaico che non era più tale, le tracce di conquiste veneziane, i residui di invasori passati, questa veniva trasformata da ciascun nucleo familiare in un lessico proprio. Cosicché dicevamo transete per dire che si andava avanti facendosene una ragione, ed era il latino di transeat, oppure si diceva muci zaba per intimare un silenzio senza repliche ed era il croato di muci, e se nelle feste arrostiva in forno il dindio, il tacchino, nessuno pensava che quel nome fosse francese. Si usava ancora dire palanche o svanzeghe per parlare di denaro spicciolo, perché dell’altro denaro, quello importante, i bessi, i schei, era da villani parlarne. Insomma era una lingua viva e ricca di significati comuni e particolari, che pescava dove c’era pesce. E se si fosse interrotto quel processo di trasmissione e incorporazione, destrutturata quella lingua madre per riportarla alla razionalità dell’italiano, le si sarebbe tolto l’intero significato, privando il nucleo, il nostro piccolo clan, della differenza e dell’identità. Essere uguali e differenti al tempo stesso, perché una lingua intima e segreta ci differenziava. Non lo sapevamo, ma in fondo questa è la lingua dell’amore che ha ogni coppia e poi ogni famiglia. Era una lingua naturale, ricca, aderente al giorno e alla sua interpretazione, e in più conteneva una storia di udito e di significati. Aveva l’attualità e quello che era accaduto. E non era poco, davvero non era poco.

il profumo della vigilia

Le finestre al secondo piano sono aperte. Si sente rumore di martelli battuti con ritmata forza e musica orientaleggiante. In quella camera sono nato. Da lì ho sentito la strada, i richiami dei mestieri ambulanti, ho cominciato a conoscere il danzare dell’impalpabile nella lama di luce. Abbiamo abitato a lungo quella casa. Ho visto come l’hanno trasformata, resa attraente e nuova. La scala non ha più i consumati gradini di pietra di Nanto, c’è un ascensore scintillante di cristalli e trasparenza. La soffitta, che per me era il luogo del mistero e del fascino, ora è un sottotetto con due camere e un bagno pieno di luce dall’alto. La camera dove sono nato, è un soggiorno che sfoggia i travi a vista. Sono spariti i giochi di mattoni incastrati del cornicione, il pavimento è una distesa di legno africano. Un tempo c’era tavolato d’abete che odorava di resina e lacca, quando mia madre lo riverniciava. È mutata la destinazione, il contorno e le persone che hanno popolato quella via così centrale e popolare. Oggi questo è un quartiere di negozi, abitazioni di lusso e pochi bambini. Qui mi verrebbe il confronto, ma sono romanticherie dell’età ed è meglio pensare a com’era quella casa nella festa imminente.

Dal mattino della vigilia, le tovaglie buone prendevano il sole, e si mostravano ai vicini per il lustro della casa. Tra le stanze c’era un parlare a voce piana, del giorno dopo, del pranzo da preparare. Si faceva circolare aria per scacciare l’inverno e far entrare il profumo nuovo. Nel cortiletto, ora lastricato di piccole mattonelle di sasso del Piave, tra le pietre di trachite c’era già l’erba e l’albero di pesco era fiorito sfacciatamente, ribadendo la sua indipendenza dall’inverno e da ogni nostra offesa. C’erano i rumori simmetrici dei vicini, le voci che chiamavano in dialetto. Mia madre stirava le camicie bianche per il giorno dopo e nell’aria si spandeva un profumo di amido, vapore e stoffa scaldata. Era la vigilia. I bambini giocavano con meno ardore, stavano più attenti a non rigare di sangue le ginocchia, correvano più piano. Per giorni, nella stanza che ora risuona di martello, avevo dormito con il profumo delle torte margherite cucinate e messe nel fresco vicino alla finestre. Era lo zucchero e la vaniglia, il profumo di farina cotta e spumosa, il rosso d’uovo impastato con lo zucchero che avevo pulito scrupolosamente e laccato dal dito. Era il profumo di quella torta che faceva Pasqua, più delle parole misteriose del prete, ed era qualcosa di tangibile, che riempiva la bocca di sapore denso e dolce, qualcosa di rustico e antico. Era il profumo della primavera imminente, dell’attesa del buono che diveniva presente. Era la casa e insieme il fuori di essa, come se dalle finestre da cui entrava un’aria fresca e pulita uscisse contemporaneamente il profumo di noi, di ciò che era essere assieme. E tutto si incontrasse in un abbraccio.

p.s. della Torta Margherita ho scritto in passato, qui trovate la ricetta:

https://willyco.wordpress.com/2007/11/23/torta-margherita/

ma il profumo sarà il Vostro.

Con i miei auguri e un sorriso.

http://https://www.youtube.com/watch?v=Z5lRbOy7D3s

dance me

Cercare di guardare, vedere l’altro lato, soffermarsi, trarre qualche possibilità interpretativa. Richiamo l’attenzione: qualche possibilità interpretativa. Tre parole ipotetiche che limitano l’assoluto. Questo è il regno del dubbio. Ha bisogno di gambe forte, di piedi ben piantati, di alcuni principi, molta auto ironia. Alt. Basta.

Dicono che raramente si arrivi a sfruttare il 20% del potenziale del cervello, non so cosa contenga l’80%, ma di sicuro già in quel 20 c’è una differenza importante sull’uso, ovvero cosa si collega e come.

Esemplifico mettendo i piedi sulla tavola: se cosifico i sentimenti quel 20% razionalizza e relativizza, riporta a schemi conosciuti, evita l’errore successivo reiterando la conclusione negativa del precedente. E allora? Ho usato il mio 20%, per creare il nuovo oppure per ossificare il vecchio?

Che sia per questo che non mi affeziono agli assoluti e al per sempre, ma li considero un lavoro lieto e faticoso e non di rado pure pesantuccio? Il collegare dinamico è per me fondamentale, di fatto una continua rielaborazione del passato nel laboratorio del presente, ma con una sua relativizzazione. E qui il sentiero è davvero stretto, l’orlo è quello del vulcano: si sente il calore infernale dell’abisso, ma anche la vertigine, eppure non è data altra strada che il procedere. Guardare innanzi, vedendo il presente e l’altro lato delle cose, esercizio di realtà, ventipercento da connettere secondo nuove sinapsi, e accettare che il pensiero ci metta in crisi.

Esemplifico ulteriormente: un principio mi fornisce sicurezza interpretativa, so dov’è il giusto e ciò che non lo è.

Bene, accettata l’etica, riesco a togliere il giudizio e vedere dove ciò che non è giusto m’assomiglia?  Perché se in questo esercizio metto l’autoironia, riesco a cogliere ciò che è nuovo nell’ingiusto e che mi riguarda. Basti pensare ai luoghi comuni oppure al non sono razzista, ma… Queste zone grigie sono me e rappresentano il limite di ciò che davvero penso di essere. Ovvero penso di essere migliore di ciò che sono in realtà e per risolvere le mie contraddizioni ho un bivio: o le accetto oppure le affronto. Il diavolo è seduto dove si divaricano le strade e aspetta sorridente. Io sono il diavolo e la cosa mi può rendere pure allegro, ma basta saperlo che l’indecisione occultata di scelta è il mio modo di vedermi migliore.

Connettere il 20% in modo nuovo, sembrerà strano ma lo si può fare ad ogni età, in ogni condizione. Si può affrontare il titanico sforzo di mettere assieme ragione, sentimento, realtà, sogno, passione, incoerenza, limite con l’allegra presunzione di voler vivere diversamente. Di essere differenti, non per partito preso o insicurezza, ma per consapevolezza. E soprattutto evitando di cosare le persone e noi stessi: non siamo cosa. Non accettiamo di essere ridotti a oggetto, numero, entità marginale, ma 20% in divenire. E anche se quel 20 in realtà è 5, non importa, chi può misurare la nostra capacità di essere davvero altro.