il sangue e la terra

La casa del Galiazzo era all’angolo di quattro strade, appena fuori della strada che portava al mare. Era una casa di campagna, grande, con una mura alta di mattoni e un largo portone di legno robusto che immetteva in un’aia di terra battuta. Su due lati c’erano le stalle e magazzini, i Galiazzo allevavano e commerciavano cavalli da carne, quelli pronti per il macello o utili ai lavori pesanti, li tenevano vicini a casa. Sul lato verso strada, c’era l’abitazione. Facevano anche i macellai e vicino al portone, c’era un bugigattolo di stanza, con le pareti imbiancate a calce, i ganci appesi al soffitto e un bancone di marmo, che serviva da negozio. Lì vendevano la carne al minuto, spesso ceduta a credito, che serviva per fare domenica alle famiglie della strada.

Dopo la casa dei Galiazzo, c’era un villino di mattoni faccia vista, abitato dal medico di condotta, con un bel giardino davanti e due siepi di bosso che dal cancello di ferro battuto portavano all’ingresso. Il villino era la più bella casa dell’intera strada che si dipanava tra i campi per curve e rettilinei, a tratti affiancata da un fosso e da una sequela di costruzioni basse con l’orto in bella vista, spesso a un piano o al massimo due. Le chiamavano le case di poenta e tocio, perché venivano costruite al sabato pomeriggio e la domenica, con mattoni e materiali recuperati altrove, portati di notte con carretti a mano e ammucchiati in attesa del sabato successivo. Crescevano lentamente, quando c’erano soldi per pagare la calce e le travi. La mano d’opera era costituita da parenti e vicini che ricevevano in cambio del lavoro, un pranzo abbondante di polenta e carne (poca) e molto sugo da intingere. La fatica e il cibo venivano dissetati con un vino duro, pieno di tannino che colorava labbra e bicchieri come inchiostro, era il grinton, fatto in casa, certamente genuino e senza pari per confronto di asprezza, ma in mancanza d’altro, aveva i suoi estimatori. Quelle case si aggiungevano le une alle altre, lungo la strada, occultando i campi retrostanti, dai quali era stato acquistato il lotto minimo necessario. Erano costruzioni con i pavimenti di mattoni o di graniglia pepe sale, molto abitate di uomini stanchi e donne sfatte dalle gravidanze, ricche di bambini che correvano a gruppi e bande lungo la strada e avevano sempre fame dopo pomeriggi passati a impolverarsi nei campi oppure portavano a casa mal di pancia e febbre, per la frutta acerba mangiata dai vicini che erano al lavoro in città e non potevano difendere la frutta sugli alberi.

La casa dei Galiazzo era un’ anomalia per dimensioni, ma anche loro, molti fratelli con un padre socialista come i figli, erano un’anomalia. La gente della strada, aveva imparato a non dire, a non essere, a rinunciare alla poca libertà posseduta prima e bisbigliava nelle case, ricordi di guerra e speranze di un futuro migliore, ma quasi tutti andavano ai raduni, più per curiosità che per adesione e quelli che non chiedevano l’iscrizione al partito fascista, erano come gli altri, silenti in osteria e decisi in casa a insegnare a non farsi coinvolgere.

I Galiazzi, erano tanti e li chiamavano al plurale, loro non avevano taciuto: erano socialisti da prima e tali erano rimasti. Così quando i fascisti avevano voglia di picchiare, quando volevano insegnare ai silenti dov’era finita l’Italia, andavano da loro, entravano con il camion, scendevano, inseguivano con i manganelli di legno duro. Le madri si nascondevano con i bambini. mentre i maschi, quelli che non riuscivano a scappare per le finestre in strada o per i campi, cercavano di difendersi, ma erano sempre pochi e gli altri troppi. Il sangue di quelli che restavano a terra, in mezzo alla polvere, scendeva fuori dal portone, fino alla strada, fino al fosso. Bastonavano forte i fascisti, anche se i ragazzi si difendevano e avevano muscoli e poca paura, non c’era storia, erano uno contro cinque, sei, sette, e a picchiare troppo non conveniva perché i manganelli spaccavano le teste ma le rivoltelle uccidevano.

Passare così la giovinezza era duro anche per chi aveva idee forti e ci furono emigrazioni, restarono i necessari per sopravvivere, i più forti che speravano che tutto quel nero finisse e che il sangue non inzuppasse più la terra di casa. Hanno resistito più del fascismo, alcuni dall’estero, erano tornati per la resistenza, tutti hanno festeggiato, ovunque fossero, per la libertà ritrovata. E la grande casa si era ripopolata perché dei tornati erano rimasti, il mestiere era rimasto il solito e attorno le case erano cresciute e fatte più belle. Qualcuno della strada era emigrato e poi tornato abbastanza ricco da iniziare un lavoro nuovo, anche il comune se n’era accorto e la strada era stata asfaltata, inglobando tutto quel sangue antico versato per le idee di fratellanza e di giustizia. La scuola era piena di bambini come una volta e i giochi per un po’ di tempo, furono gli stessi. Nella grande casa, come ovunque, i giovani d’un tempo, s’erano fatti anziani e le nuove famiglie dei figli non restavano con i genitori, chi era distante tornava una volta all’anno per vedere i vecchi. Anche il commercio era cambiato come i consumi, così alla fine la casa era rimasta quasi vuota e, sistemati i vecchi, fu venduta facilmente per l’ottima posizione. Adesso al suo posto c’è un condominio molto grande che sembra già superato ed è sempre stato anonimo, anche se gli appartamenti hanno i bagni e l’acqua corrente. All’inizio della strada è rimasto il capitello con l’immagine del Cristo che c’era allora, Il condominio è stato arretrato di qualche metro perché nessuno ha avuto il coraggio di togliere anche quell’identità alla strada.

Le vecchie storie sono finite come il grande fosso: tombate e trasformate in strada asfaltata, nessuno sentiva il bisogno di raccontarle e ritrovata la parola al bar e in osteria, ciò che si sussurrava un tempo in casa, ora era motivo per alzare la voce, ma senza la paura di un tempo. Molti pensavano che la libertà ritrovata fosse stata anche merito loro, per quelli che votavano adesso, ma non era così, avrebbero dovuto riconoscere chi si era fatto spaccare la testa per le proprie idee come un benefattore di tutti e invece, per loro, erano restati macellai e commercianti di cui raccontare le botte subite come un aneddoto, ma senza una relazione con la democrazia conquistata.

Sono tornato più volte in quei luoghi, la casa del dottore c’è ancora e anche le altre case sono rimaste, la speculazione ha eretto condomini che nulla avevano a che fare con gli orti e le casette, ma non ha infierito per carenza di domanda, così è come non fosse avvenuto nulla, che tutto quanto accadde allora fosse stato nelle teste di chi se n’è andato. Anche il ricordo si sfrange in un relativo che non è storia, non è terra, non è niente; e non è bene.

3 pensieri su “il sangue e la terra

  1. Hai ragione, in fondo siamo uomini e questo ci accumuna e ci fa ripetere. Non riconosciamo perché i ricordi sono stati scelta, anche indifferenza e così ci si autoassolve. Poi i luoghi si assomigliano perché sono gli uomini a renderli tali. La memoria è una condanna e una grande risorsa, chi la possiede, e tu la possiedi, deve essere felice della sua compagnia.

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