limiti interiori ed esteriori

Ci sono persone che non ne possono più e vogliono la vita di prima. Altri si limitano ad essere stanchi e pensano che la vita di prima non era esattamente il sogno che avevano ma era pur sempre qualcosa. Poi c’è l’apatia che cresce. L’indifferenza che divora le sensibilità. Le notizie non aiutano, scavano nelle paure, inducono non la ricerca di una verità impossibile ai più da determinare, ma un’attenzione perenne verso qualcosa che si aggiunge al giorno prima. Così l’insofferenza si trasferisce nei comportamenti, tra le mura obbligate della casa, oscilla tra piccole libertà e il pensiero che esse non sono collettive. Che senso ha andare a pranzo fuori quando il timore si mescola al sapore del cibo e la voglia non è quella di restare a tavola ma di andarsene. Così anche un gesto che è anzitutto comunicazione come prendere un caffè in compagnia viene fatto all’esterno di un bar. Guardandosi attorno.

È il tempo dei solitari, verrebbe da dire, ma non è così perché il solitario sceglie la solitudine e percepisce chi gli sta attorno. Ha necessità del silenzio e del brusio, vuole scegliere e non essere costretto. La solitudine è una libertà non una prigionia. Così si formano nuovi limiti. Quelli esteriori li conosciamo, sono determinati da leggi, regole, talmente labili che diventano più auto costrizione che limite vero. In realtà viene chiesta responsabilità di agire e d’incontrare, di capire che star male è facile e che il nemico è subdolo, destinato a restare tra noi in varie forme. Bisogna ridurne l’aggressività, confinarlo e confinandoci. Questo ripetere il pericolo, lo rende relativo sinché non acquista la consistenza che colpisce qualcuno che si conosce. Poi tutto dipende dall’età, più portati all’invulnerabilità i giovani, meno certi della propria onnipotenza quelli più anziani. E dipende dalla necessità di lavorare, cosa che accomuna quasi metà della popolazione. In un modo o nell’altro il lavoro diviene elemento concreto della propria salute. Forse per questo, molti preferiscono non pensarci, provare, adottare le precauzioni possibili e sperare. Anche in quelli che lavorano da casa questa condizione muta il rapporto con il lavoro, la sua socialità e rende tutto più precario. È una infinita indeterminatezza in cui ci si muove a vista e nella nebbia. Mi torna a mente una scena di un film di Kurosawa, quando attorno al castello dove s’annida la paura, nella nebbia gli alberi sembrano muoversi. Può accadere qualsiasi cosa ma qualsiasi cosa è sospesa, non è ancora realtà.

Per questo penso al limite interiore, quello che unico, può aiutarci a costruire un futuro: un disporre ordinato delle proprie energie per un fine perseguibile. Qualunque esso sia.

Oppure un disporre confuso e dispersivo delle proprie energie perché qualsiasi possibilità resti reale, perché ci sia un cambiamento che ci sorprenderà in quanto non previsto ma comunque in grado di mutare e di mutarci.

Alla prima categoria del limite interiore appartengono quelli che in fondo hanno un metodo che il passato gli ha fornito e che pensano che ancora funzioni, anche perché non saprebbero fare altrimenti. E il passato aiuta attraverso il ricordo, l’onnipotenza più che il dubbio. Sanno che otterranno risultati comunque indipendentemente dal futuro che coagulerà dalla nebbia.

Gli altri sentono il vento che agita le ombre indeterminate, capiscono che qualcosa arriva e che potrà essere positivo o negativo, ma comunque diverso da ciò che conoscono. E questa percezione misurerà la loro capacità di conformarsi o meno al futuro, di trarne una nuova vita. Anche il lavoro muterà e così le modalità di farlo, in modo così veloce da entrare in una società che si forma, qualcosa di nuovo in cui è importante capire e governare la propria presenza. Cambieranno molte cose, troppe per averne il controllo, allora meglio esercitare intelligenza e intuito contando sul fatto che ogni errore sarà rimediabile in una situazione di cambiamento sconosciuto.

Intanto alcune parole sono scomparse, inflazione, crescita, produttività, disoccupazione giovanile, anche il debito sembra riprodurre una condizione di realtà ovvero che al denaro non corrisponde nulla se non una onorabilità che si poggia sugli uomini, sulle loro capacità, sugli stati, ma in sé non è altro che carta. Resta la mafia, il malaffare, la corruzione, l’ingiustizia crescente, la diseguaglianza, ma il loro risuonare è attenuato. E questo accade mentre altre parole sembrano trovare una concretezza nuova. Scienza e ricerca, ad esempio, infrastrutture, big data su tutto come dominatore dell’economia e degli uomini con il suo controllo sociale pervasivo. Viene quasi da ridere pensare alle piccole libertà costrette di questi mesi quando tutto viene immagazzinato di ognuno e usato per orientarne i gusti, le necessità, il ruolo sociale, le aspirazioni, la stessa nozione di democrazia. E senza una consapevolezza profonda che inizi a mettere dei limiti e togliere l’onnipotenza di pochi uomini, saranno le grandi banche dati a governare il mondo non i governi, con una pervasività sinora sconosciuta e un controllo del lavoro e dell’intimità mai sperimentato perché persuasivo e apparentemente non costringente. Per questo i limiti interiori che sono fuzzly, pazzerelli, diventano un argine, un camminare in direzione opposta e contraria, sapendo che sarà difficile ma che ogni realtà può essere vissuta in modo da portarla verso l’indole, che la libertà si trasferirà nella parte profonda di noi e nel rifiuto e questo può mutare il mondo.

Tutto questo sommuovere tra apatia e rifiuto renderà ancora più veloce e precario il cambiamento e mai come ora una domanda ci riguarda in senso di specie: chi governerà il mondo e come ciò accadrà?

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