Un immenso, infinito toboga. Un bovolo, un vortice, in cui siamo scivolati, ridendo e vivendo mentre tutto roteava sempre più veloce. Gli anni delle città ancora da bere, i ruggenti ’70 pieni di musica, pelle al sole, di gioia di scoprire e del distrarsi infinito mentre i cortei si formavano. La testa in piazza della Repubblica pronta con gli striscioni, le ragazze, le parole sorridenti e gli slogan mentre piazza dei ‘500 si ingrossava di arrivi, di tamburi di latta, di bandiere, di megafoni Geloso. Garrule al sole romano, grida e bandiere miste assieme. Cosa garrulassero non è ben chiaro, ma era un grido di speranza contro il grigio del quotidiano senza alternative. Muoveva sinuoso nel vento delle vite che s’avvitavano come gli amori, della politica che ancora cantava e sostava per attendere gli altri, presidiava i luoghi del bene comune: una scuola, una fabbrica, un ospedale. Era il tempo in cui c’erano agguati e compagni (?) che sbagliavano. Eccome se sbagliavano. E neppure erano compagni. Era il tempo in cui la destra diventava tenebra circondata da scoppi di bombe, quando un viaggio in treno era uno scendere e un salire sperando che non fosse quello l’obbiettivo. Era il tempo dei rapimenti, quelli sardi e al nord, per denaro e del rapimento per eccellenza: quello di Aldo Moro che avrebbe generato una disgrazia di cui ancora non c’è fine.
Noi intanto precipitavamo verso un blu che sapeva di mare, di arditezze, di nudità nuove, di racconti intimi mai così sfacciati. Eravamo in un giro che risucchiava e mostrava quelli che restavano indietro, le paure di chi non si schiodava dal passato che non esisteva già più ed era assieme agli strafatti, ai persi per strada, agli insoddisfatti che riottosi non si muovevano dalle speranze già offuscate. Mentre la nostra testa girava e tutto era possibile, e nessuna notte era meno lunga del giorno, c’era chi correva in avanti e chi a ritroso, e si leggeva, il giornale da stritolare tra mani, il libro appena uscito, le frasi ripetute per rafforzare una convinzione, i dubbi da lanciare verso il sole o da sussurrare piano ai capelli che si baciavano con devozione desiderosa di tutto. Di tutto quel confluire, quel giudicare e correre verso qualcosa che non era chiaro, non profumava di ginestra e di olivo selvatico, non aveva solo l’odore della pietra dei ghiaioni al sole, il fresco del tuffo nell’acqua d’una baia senza persone, senza vento e senza barche. Non era il sentiero che si gettava verso la costa dei barbari e neppure la dolina in cui sostare in attesa che il sudore ghiacciasse. Non era che un gorgo infinito, caldo di promesse e di vita che inghiottiva senza chiedere da che parte tu venissi, ma noi eravamo noi, ipertrofici con piccoli ego e tanto noi, noi che scambiavamo pensieri, e abitudini, e modi di dire ripetuti per includere ciò che non era chiaro ma nel contesto doveva pur dire qualcosa.
Noi che leggevamo libri, che correvamo imbambolati al lavoro, che vedevamo nascere i nostri figli e non sapevamo ben che fare con loro perché tutto doveva essere nuovo. Noi che diventavamo pian piano borghesi comprando divani e tavole su cui mangiare assieme. Noi che ci perdevamo in quel correre attorno, nell’ascoltarci, nel guardarci, mentre il mondo esplodeva verso la caduta dei sogni, dei muri, delle certezze. In quel gorgo c’era un buco blu che ci avrebbe gettato in un altro universo, non il nostro, non quello da cui eravamo venuti gioiosamente distaccandoci, ma un universo speculare dove il sapere, il progresso, si chiamava tecnologia. Un bovolo che si originava da un bovolo, una clessidra piena di inesorabile passaggio verso un nuovo vortice colorato e rovescio dove noi che eravamo stretti gli uni agli altri saremmo stati pian piano distaccati. Dispersi, in tante piccole monadi che giravano e si allontanavano.
Prima si parlava, si discuteva, si viveva ammucchiati e distanti, poi saremmo stati sgranati, distaccati definitivamente. Una palata di grano e pula lanciata verso il sole che ricadeva con un suono secco di pensieri ormai solitari. Oro e paglia, ecco quello che eravamo e per questo degli anni sgranati non è rimasto nulla se non l’accumulare. Siamo pietre e intonaci, stanchezze infinite di vedere ciò che allora ancora non capivamo. Siamo usciti dal vortice per sederci su panchine che attendono la luce mutare e la luce muta, mentre sembra distaccare i particolari dal tutto e non ricompone più. Non più.
Ma che lo dico a fare, sai già tutto, lo senti e lo vedi, ed è per questo che mi racconti più stanchezze che corse felici.