dopo la tempesta

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Come diceva mia nonna, la tempesta è arrivata da occidente. Dal lago di Garda. L’acqua e il vento si sono divertiti a sradicare alberi, far straripare fossati, allagare scantinati e garage, scoppiare fognature. Poi, com’era venuta, la tempesta s’è quietata. Ed è emerso un silenzio livido di luci gialle, tra una moltitudine di rami spezzati, calcinacci caduti, spazzature sparse tra mucchi di foglie ed aghi di pino. Il cielo, limpido nella notte, era indifferente, solo noi, sconcertati, avevamo di che pensare. E tutto si è ridimensionato in noi, per poco, come a contemplare le nostre reali dimensioni.

Si è fatto l’inventario dei danni, tutto sommato poco, rispetto al vento e l’acqua orizzontale. Un vetro rotto, piante ridimensionate, giornali e carte bagnate. In terrazza la bandiera si è sbrindellata, però resistendo abbarbicata al suo palo, è abituata alle battaglie. La tenda invece, è a pezzi e qualcosa d’altro la dovrà sostituire. Guardando attorno, stanotte mi veniva da scrivere una lettera alle stelle e al silenzio notturno per parlar loro delle mie piccole cose, del fatto che dopo una tempesta ci si sente più vicini. Trovar compagnia nelle cose alte, sopra di me, come fossimo tutti assieme per davvero. Pensandoci è arrivato il sonno, tardo e agitato. 

Al risveglio, stamattina c’era un silenzio innaturale. I carpentieri e i muratori che lavorano nel cantiere vicino, non battevano, ma facevano ordine con rumori soffocati. Ed era strano, che gli uccelli non volassero nel cielo bianco di nubi senza forma. Anche la strada aveva ancora quiete notturna, eppure era giorno pieno. Sono sceso, e mi sembrava parlassero a voce più bassa. Sui giornali, la tempesta aveva abbattuto alberi, fatto danni alle cose, qualche ferito. Tutto era durato meno di un’ora. Nessuno parlava dello sconcerto dopo la paura, fatto di difficoltà piccole, medie, grandi.

Guardo nel giardinetto di casa, il cipresso dovrà essere tagliato, adesso si appoggia alla cancellata, sembra esausto e vecchio. Penso a noi, c’è stanchezza nel constatare la propria inanità a fronte della natura, lo sento dai commenti delle persone al bar, all’ edicola. Passerà, come al solito, tra due giorni non ce ne ricorderemo più. Tutto dura il tempo degli articoli di giornale con i loro titoli banali e stupidi: bomba d’acqua, ciclone, tornado. Analizzare le cose e gli effetti sarebbe troppo intelligente, anche perché il cambiarle impegnerebbe a lungo. E’ vero, cambia il clima, ma qui siamo in pianura e le trombe d’aria non sono così eccezionali. Una scoperchiò il Salone nel 1756, ogni estate sul litorale o sui colli, il turbine macina campi e sabbia, tegole e ombrelloni. Queste presenze sono state una normalità per i miei ricordi, solo che ora accade più spesso, in poco tempo e con molta forza. Questa è la piccola novità.

Mi guardo ancora attorno, le tracce della notte sono evidenti, e ci ricordano la nostra debolezza, ma le faranno sparire in breve tempo e l’arroganza del non mutare stili di vita ricomincerà. La prossima volta speriamo tocchi ad altri, è questo che si pensa, come se tutto fosse solo questione di caso e fortuna. Lo è in buona parte, ma quella farfalla che chissà dove ha dato inizio alla catena delle tempeste di ieri, non aveva ali variopinte, ma mani umane. Passerà, toccherà altrove, non pensiamoci troppo, per cambiare dovremmo essere in tanti e determinati, non accade e allora congratuliamoci della nostra fortuna. Non è accaduto nulla di grave, poteva accadere ma non è successo. 

ho messo Vivaldi perché le tempeste di casa lui le conosceva bene, ed è bello pensare che poi ci fosse lo stesso cielo. Quello del Tiepolo, a sancire la quiete.

la sintesi

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Entrando nell’edificio, mi colpì l’odore dell’ombra e del legno. Poi la luce soffusa. Veniva dall’alto, ma sembrava ovunque, spalmata sulle pareti, sul pavimento, sulle persone. Fuori un afroamericano, in divisa blu oltremare, puliva meticolosamente pomi d’ottone. Oggetti inutili e belli che nessuno usava: tutti spingevano il battente e il legno di quercia s’era fatto più biondo nei punti di contatto. Prima d’entrare, m’ero goduto mezz’ora di solitudine da Starbucks. Non capire nulla dell’americano smozzicato degli avventori e dei camerieri, lo aveva fatto diventare una nenia di fondo, e così bevevo caffè intingendo muffin al cioccolato, scrivevo, guardavo attorno. I visi avevano storie. Sentivo che imprigionavano case alveare, luoghi, abitudini, mestieri che volevano essere raccontati, ma non uscivano dalla coscienza perché mancava un ascoltatore che non li conoscesse. Così sentivo gli sguardi che si posavano, un pensiero fugace e poi lo scivolare via. E allora immaginavo. Per l’aria sottile di prima mattina, mi sembrava una storia perfetta. Ma cos’era una storia perfetta?  Una sensazione descritta in parole che si facevano più precise. Confezionata per essere aperta, e poi ripresa in mano. Depilata, mutata in un erotico emergere di forma essenziale, guardata e riguardata, ascoltata e capita. Un necessario continuo togliere, scoprire dopo aver ricoperto, sino all’osso limite quando il banale scompariva e restava il corpo, la sostanza, il perfetto in sé.

Senza poter parlare il processo era su di me: potevo essere una storia perfetta, come chiunque attorno. Si partiva dal banale, da una decisione che scartava: prima avevo seminato i compagni, la sera ero stato reticente, avevo infine rifiutata la bella compagnia che s’era proposta. Solo. E tutto questo perché c’era una determinazione, un canovaccio già scritto di cui, però, non sapevo cosa sarebbe avvenuto, pur avendone la sensazione positiva. Quell’attendere da Starbucks era un assaporare ciò che ancora non sapevo e ritardavo, e questo lo pensavo rafforzando il futuro immediato con scelte precise: cosa avrei fatto, il tempo che avrei impiegato, dove sarei stato per tenere la magia dell’emozione, il ritorno. E cercavo di scriverlo, scegliendo le parole che descrivessero qualcosa che ancora non c’era. Cioè cercavo di descrivere il nulla che è pieno di presagio, l’attesa non il fatto.

Attraversando la strada, notavo particolari, come dovessi poi ricostruire qualcosa. Di fatto preparavo un racconto per la memoria. Qualcosa che sarebbe rimasto, artificioso e determinato come ogni prodotto della volontà, ma al tempo stesso inerme e fiducioso dello svolgersi. Come in una partita di scacchi avevo i pezzi, cominciavo le mosse, volevo condurre il gioco con geometrica essenzialità, non importava vincere o perdere, l’importante era ciò che ne sarebbe rimasto. Per questo scelsi subito che non avrei visto tutto. Furono tralasciate molte sale, perduti tesori che potevano attendere una improbabile altra visita, le ridussi a quattro o cinque. Il numero fissava un tetto alla sopportazione della bellezza, cercava di esaltarla e così passai non poco tempo davanti a un Monet, seduto su una panca e spesso oscurato dalla schiena e dal sedere di occhi frettolosi. Chiudevo gli occhi e lo vedevo ancora, li riaprivo ed era là. Un atto estetico, inutile e per me sommo: la rinuncia. Mi beai del fatto che la sazietà era venuta prima del previsto e che in quel colore, guardato ripetutamente, potevo vedere la pastosità del farlo, la punta di bianco di un riflesso, cercare di intuire un pensiero che mescolava e semplificava. Come per le parole il pennello si soffermava nella densità per estrarre l’analogia con una forma, l’impressione tradotta in emozione, per poi sostare e vedersi riflesso. Ecco, questo mi sembrava la sintesi, il coincidere tra emozione e rappresentazione.

Tornando al racconto di me, di tutto questo vedere, immaginare, sentire, tenevo il controllo pur lasciandomi andare e travolgere. Pensai, lo ricordo bene, che tenevo il bandolo del filo del mio tempo. E non c’era altro che il sentire senza mediazione e senza qualcuno che avesse spiegato prima, il contesto e cosa notare,vedere, cogliere. Come per un incontro voluto ero inerme e disposto alla meraviglia. E per questo forte. Come una storia, per l’appunto che determina il futuro. Ed è un raccontare senza scopo che trova senso nella gratuità del dire, non nello spiegare o nel far comprendere. Il dire nella sua evidenza, a sé, anche davanti a nessuno.

Ho un appunto di quella mattina, scritto su una panca d’acero prima d’uscire:

L’ombra dopo la luce sul palazzo di fronte, Picasso, Caillebotte e altri, confusi già ora, Monet, la colazione luminosa di Renoir e la camera di Van Gogh ad Arles, una panca perfetta d’acero biondo, la pace di una scelta, poi nuovamente la luce e il silenzio. In mezzo al rumore. 

Per arrivare alla sintesi servono moltissime parole, e sensazioni, ma quando si capisce cosa si sente tutto prende il volo e resterà una sola parola.