La palla volò altissima. Le teste dei piccoletti sollevarono il naso e la videro ben oltre le cime degli alberi. Ventidue piedi confusi, furono disattivati dagli occhi. E che occhi! Prevalentemente neri, grandi, intenti a parlare con i pensieri bambini e con qualche preoccupazione saettante. Logica della palla e previsioni senza scotto d’errore. Cadrà? E dove?
Devo tornare a casa, ha pensato qualcuno, improvvisamente sommerso dai divieti infranti.
Che bel sole ed è quasi sera, ha pensato un altro, innamorato del tempo per giocare, per stare assieme.
Entrambi e chissà quanti altri, volevano vivere come sanno fare i bambini quando il tempo non conta e gli occhi vedono tutto.
Verde e gialla, la collina retrostante, era velluto d’erba ed alberi pieni d’ombra.
La videro anche i due vecchi, e si allungarono sulla panchina al bordo del campo, scambiandosi un silenzio. Tra chi aveva già detto molto, succedeva, ed era solo la noia del sentirsi dire.
La palla infine cadde (solo il tempo era sospeso), con uno sbuffo di polvere, due rimbalzi stanchi e si fermò in attesa. Allora tutto si rimise in moto: piedi, voci, sudore nuovo di zecca e tra pedate e speranze il pallone s’ avvicinò all’unica chiazza d’erba, vicino al corner di sinistra.
Lì, per qualche oscuro disegno del creato, la vita e l’acqua avevano trovato un accordo e il campo da gioco assomigliava a se stesso con l’erba fresca e rasata.
Pensieri di un perditempo ai bordi di uno sperduto campo da calcio mentre mira l’anestesia del particolare, e dilaga ricordi la sera.
Figlio caro, questi anni sono scuri, pozze immani di disumanità che sembrano non finire. Non ci sono certezze, mentre vorrei per te una stagione di grandi speranze dove la tua vita, quella dei nipoti e poi avanti nelle generazioni, fossero un crescere di umanità che si riconosce, collabora, convive. Può essere questa, la migliore delle età, la prima di altri tempi e stagioni buone perché mai come adesso abbiamo conoscenza e tecnologia che possono essere portate al benessere comune.
Come quando eri bambino, la sera, vorrei raccontarti le storie in cui entrambi credevamo, usare le parole squillanti della speranza che ritrovavamo al mattino e invece ho capito che la speranza è una conquista quotidiana, che ha bisogno di riflessione per farsi trovare. Non è che non ci sia, ma ora c’è una fatica maggiore della speranza che la mia generazione non ha conosciuto. La mia età giovanile ha avuto negli anni ’60 una speranza che non solo alimentava il fare, ma faceva trovare occasioni vere, lavori solidi che permettevano di costruire futuro e progetto personale, ed era lì, ogni mattina che ti attendeva. Per questo forse potevamo criticare così profondamente il sistema, le convenzioni dei nostri padri, il potere, le parole vuote che ci circondavano. Potevamo ribellarci perché il futuro era a portata di mano, lo si poteva toccare e cercare di cambiare, mantenendone la possibilità che ci riguardava. Quella che è stata sottratta a te e ai nipoti è stata anche questa capacità di critica profonda, il credere che cambiando la politica, il potere, cambiassero i rapporti tra le persone, e che insieme si stesse più bene. Non riesco a capacitarmi come noi, padri, madri, non siamo stati in grado di vigilare mentre il Paese andava a rotoli. Per egoismo, forse, ma ancor più per incapacità di capire, isolati come eravamo, nel pensare alle rivoluzioni tradite, persi nei nostri libri, nella musica che parlava di noi, nel pensare la nostra meglio gioventù, mentre ci sfuggiva la vostra giovinezza, la vostra capacità di creare il nuovo. Noi quel nuovo che cercavate di mostrarci, fatto delle prime difficoltà della nuova stagione della politica, non lo capivamo, eppure avevamo e abbiamo bisogno di voi, ora come allora, ben oltre l’amore. Abbiamo bisogno della vostra freschezza, della vostra visione del reale. Siamo diventati ciechi e la realtà ci sfugge e così ci sfugge la percezione di ciò che è necessario fare. Non può essere altrimenti visto che abbiamo lasciato precipitare la situazione al livello attuale. Un Paese, il nostro, nelle mani della destra e di donne e uomini che non colgono i problemi veri, ecco quello che siamo stati in grado di produrre con il nostro non vedere. Eravamo già ciechi prima. Quando cadde quel muro la polvere invase tutto. Non solo la politica, ma la vita, quella di tutti i giorni. E tu, voi, eravate piccoli, mentre noi pensavamo, non eravamo, pensavamo che sarebbe finito presto, che si sarebbe riaperto tutto dopo gli anni craxiani della Milano da bere e dei rampanti. E che quell’ondata di pulizia, così diversa dalla nostra, fosse rigeneratrice proprio per quel suo provenire dall’interno, dai giudici per bene, non quelli fascisti che avevano per decenni insabbiato tutto. Un Paese nuovo senza corruzione né raccomandazioni, e questa cosa riguardava anche te, voi, che eravate adolescenti, ma sareste cresciuti in un futuro pulito. Vostro e nostro, assieme. Ci sbagliavamo. Noi, i padri e le madri usi ai cortei, alle manifestazioni, ci sbagliavamo. Quel muro crollato lontano, in realtà travolse noi, non il malaffare e i ladri di futuro, mascherati da giustizialisti uscirono allo scoperto. Chi si era già intruppato ne approfittò per emergere, gli altri, noi, cercavamo di capire. E non capimmo. Le nostre vite si sono riempite di bugie, fuori bugie grandi per occultare, dentro bugie piccole, omissioni, per vedere ciò che ci sarebbe piaciuto. E le bugie oscuravano la realtà. Mi sono chiesto come questo Paese abbia potuto diventare tanto indebitato e ineguale. Sono giunto alla conclusione che l’ineguaglianza è l’indice della perdita della misura del giusto. Mi chiedo dove eravamo mentre la giustizia veniva vilipesa da un uomo che si faceva beffe dei giudici e dei tribunali. Dove eravamo quando le grandi aziende, il sapere del fare cose complicate, venivano vendute. E quando la chiesa riprendeva a dettare le agende di governo, scopertamente, senza ritegno, dove eravamo. E quando cadevano i nostri governi per mano amica, quando non si facevano le leggi sui conflitti d’interesse, quando si taceva sulle quotidiane bugie sull’economia, dove eravamo. Eravamo confusi, sembrava che bastasse attendere e tutto sarebbe passato, che quanto accadeva fosse esterno alle nostre case, che dentro non succedesse nulla. Non era così, Figlio caro, e mentre la muffa fuori ricopriva le cose e le idee, quella stessa muffa penetrava nel nostro modo di vivere. Abbiamo via via accettato l’idea di non essere molti e determinati, ma singoli dentro al nostro naufragio ideologico. Sì, ci siamo lasciati convincere che noi eravamo i naufraghi, il nostro mondo, i nostri valori. Gli stessi che vi avevamo trasmesso e allora abbiamo cercato di proteggervi di più. Ci siamo illusi di potervi bastare, di essere sufficienti perché la muffa non entrasse nelle vostre vite, finché qualcosa, noi o il tempo, avrebbe rimesso in ordine le cose, pulito il mondo comune. Per questo eravamo impegnati a difendervi e difenderci. Ci siamo sbagliati, quel mondo che per noi era sbagliato, stava diventando il vostro. Abbiamo vissuto in un’altra realtà, in altre speranze, ma il mondo vero, in cui agire, era il vostro, quello che diventava sempre più grigio, sempre più chiuso. Ciò che era stata una conquista, la scuola per tutti, diventava un’ulteriore diseguaglianza tra chi, dopo, avrebbe avuto un “padrino” e chi, invece, sarebbe stato affidato a se stesso. La stessa sanità per tutti, si avviava a non essere tale e diventare fonte di un potere inscalfibile. Questo ci faceva abbarbicare alle cose, al già stato più che immaginare il nuovo. Quello che era il nostro mondo migliorato da tante lotte sembrava non bastare. Eppure noi volevamo per voi vite normali e felici, esistenze che passassero attraverso la realizzazione di sé in una società amica. E invece quel mondo e quella possibilità cambiavano e noi non l’abbiamo capito, forse persi nell’illusione di bastare, di riuscire a conservare il buono raggiunto e cambiare le cose con la volontà. Ci siamo lasciati separare, scindere le vite e la comunicazione, mentre avevamo e abbiamo bisogno di capire e camminare assieme a voi, di condividere la realtà e la speranza. Quella nuova, quella da costruire. E’ tardi, ma non ancora troppo tardi, siamo vecchi e non domi, tu sei sano, molti di voi sono sani e non ancora rassegnati. Non basta più attendere che passi, abbiamo bisogno di voi. E voi, forse, di noi, perché ci sia qualcosa di nuovo, perché tutto non sia già visto e scontato. E’ con amore che lo penso, l’amore fuori discussione che non impedisce di vedere la realtà. Il mio può sembrarti un discorso da reduci, ma non siamo tali perché la guerra non è finita e non abbiamo vinta una sola battaglia. E poi sono così noiosi i reduci, raccontano il passato e non sanno vedere il futuro. Spero che tu capisca che abbiamo bisogno di voi e non siete soli, ma che dovremo fare uno sforzo per immaginare qualcosa di nuovo, qualcosa che spinga avanti, che ci porti fuori dalle case, che faccia cambiare l’umore del Paese. Ne abbiamo bisogno tutti, voi per immaginare un future che vi appartenga, noi per non aver sbagliato troppo. Per questo ti chiedo di camminare assieme, di riprendere ciò che si è lasciato cadere e che sono i nostri ideali, di unirli ai vostri, in una visione del mondo che sia più grande di noi e che meriti i nostri sforzi, il nostro impegno. Con amore e con speranza al lavoro e alla lotta.
Ci sono quei giorni in cui ti prende il ghiribizzo, che è come un salto di gatto che poco lo scompone e appena un attimo dopo cammina indifferente. Ma dopo. Ed è la voglia di andare. Di andare senza tregua e senza troppa meta per un po’. Arrivare e ancora non sapere. Straniante e nuovo com’è quando entri nella stanza d’albergo di una città che non conosci. E’ notte, non hai visto nulla, solo le luci in cui affogano le strade e nascondono le case, viali sconosciuti, muri affiancati, gente che cammina e guarda. Non te, guarda e basta. E’ proprio gente, e almeno per un poco lo sarà, poi ti sembrerà d’averne un pezzetto d’anima, e sarà quello che porterai con te. Ma dopo, non adesso con la mano che cerca l’interruttore, mentre lo zaino pesa e la valigia preme sulle gambe. Finché scopri che per avere luce bisogna infilare quella stupida chiave elettronica in una fessura per il giusto verso ed ecco allora che il tuo piccolo regno s’ appalesa, impudico alla luce, con le cose ben ordinate, i colori della “casa”, il tocco che lo differenzia. E già ti chiedi quale cifra oscura contenga quell’ordine che ha rassicurato una cameriera al piano, dato tono a una direzione, identità miserrima ad una impresa, ed è stata pensata in qualche creativa riunione. Tutto questo anche per te. Ma in fondo le stanze d’albergo sono tutte uguali, al più suscitano qualche sentimento iniziale di scoperta e meraviglia per una piccola differenza, ricordi quella strana doccia in camera, ma proprio in camera appena oltre il bastone degli attaccapanni, che ti ha colpito così tanto da tornarci ogni volta che potevi. Ti sembrava allegro questo circolare senza schermi e senza muri. Però sai che non sono quelle la vere differenze, non lo è mai da nessuna parte per quanto particolari possano essere le stanze. E’ quello che vedi oltre la finestra l’interesse che ti ha portato qui. L’acquario è fuori e adesso è notte, il vedere polisemico che si svuota e rimanda a te, al perché sei fuggito e attendi il giorno. E mentre guardi la luce degli stop delle auto, spegni quella stupida luce che ti preme alle spalle, così lasci che l’oscurità colorata si ricongiunga a quella che ti porti dentro. E ti pare che tutto questo fondere e risucchiare, con tutte le similitudini ch’evocano il sesso in una notte stanca e vogliosa d’altro, è scendere caldo nella paura che ha bisogno d’amore, trattenere tepore e sentire che dopo un brivido, a cui altri sono seguiti, infiniti, sino a non poterne più, ti sei ritrovato squassato e inerme. Squassato nell’amore, qualunque esso sia, e ti senti inerme, per questo quando la coscienza ti prende, e ti vien voglia di fuggire dove l’inermità non si vede, dove amore è attendere che una luce fughi il buio e mostri la novità delle cose. E allora via via fino al senso. Se c’è un senso c’è speranza.
In molta della critica sociale e politica avverto la disillusione e la non partecipazione. Nel critico sociale appare l’immagine di chi osserva i lavori pubblici oppure di chi guarda giocare a carte, cioè di persone che hanno un’idea precisa di come fare o di come vincere, ma non lavorano e non giocano più. ” Sporcarsi” con il fare toglie la calma olimpica di chi guarda dall’esterno, espone all’errore, anzi include l’errore come parte di un processo che ha lo scopo di compiere e realizzare il meglio.
L’errore gioca a rimpiattino con noi, è un animaletto che fugge e che si vuole acciuffare, e quando lo si acchiappa allora l’opera, la partita, è perfetta e dà una soddisfazione piena. Ma questo è il processo di chi fa, che è una relazione con se stessi. Chi si rifugia nel non fare e usa la sola critica senza conclusioni, non può capire nella sua importanza il fare e sbagliare e poi rifare, anzi neppure ammette questa perdita di tempo, perché egli si ferma all’opera, alla sua esecuzione, alla tecnica usata e non dice o esegue la propria. Così non può comprendere che la ricerca di chi compie non è la sua, che l’opera stessa si genera nel fare, il suo compito è quello di condurre altri verso un lavoro non proprio, far vedere ciò che non noterebbero, collocare, relativizzare, mettere a confronto cose inconfrontabili perché appartengono ad altri lavori, altri tempi, modi, cervelli, mani. E questo gli dà una funzione che se spinge altri a fare è positiva, ma se unicamente toglie energie è perifrasi dell’abisso.
Anche nel mio poco, preferisco ascoltare, vedere, leggere, gustare il fare per me possibile e poi, se c’è tempo e voglia, sentire la critica.
p.s. pare che al minuto 6.24 ci sia un errore interpretativo, se non me l’avessero detto non me ne sarei mai accorto e mi sarei goduto la bellezza sublime della musica e di chi la suona, senza quel minimo di retro pensiero.
Nel nome c’era il filo delle voci state, le stesse che avevano portato rose in altri giardini, e poi un risuonar di passi, di memorie, lo scricchiolare dei mobili amati, nelle nuove mura. Occhi aperti nelle notti srotolavano racconti, pergamene del senso d’una storia ricca di cancellature, d’omissioni comunque dolorose. Cosa univa il taciuto se non l’ombra dei fatti, il rimasto dei sogni impastato nel futuro e poi legato dalle cose semplici, presidi nell’affetto… Belle come foto sciupate dalle dita, stavano le storie, e il sudore senza traccia al giorno portava fuori d’ogni finestra, era lo sguardo al cielo e nella sera grida di rondini che mutavano lo struggere In malinconie.
In questa notte ora annego, la mente enumera, annaspa e cuce, cerca il buono e il bello che nascosti non emergono: e gli errori sono poca cosa per noi fortunati di tempo e luogo. Oggi nel macello tutto gronda e non accende la pietà, soverchia l’umano che sembrava guida. Non nobis Domine. Mani si protendono, prendono la forma muta delle inascoltate voci, e tutto si ripete ancora, in tragedie di suono e amore, nei volti che non vedono, in passioni e miserie che riemergono, sono lacerti di ricordi e di paure, mai eguali, sempre irti di dolore e di speranze nuove. Nei ricordi non c’è l’acuto, le geometrie d’angoli e dI punte, tutto si smussa per sopportar l’offesa, e tra l’altre, quella data e ricevuta, per questa povera contabilità di colpe la memoria è fuga dal presente, dal dolore, e si racconta che ogni cosa troverà il suo posto, in fine, ma non per questo il male diverrà più lieve.
Penso che un’alta dose di con-passione sia possibile solo a chi è ben difeso o molto innocente. So che può apparire come un paradosso, ma patire l’altro implica dello stoicismo e del cinismo in dosi proporzionali alla sofferenza conseguente alle cauterizzazioni delle proprie ferite. La nobiltà d’animo ha poco a che vedere con le parole di solidarietà, molto spesso frutto di reazioni meccaniche, e così anche la magnanimità. Ciò non significa scegliere l’indifferenza o peggio il cinismo, ma capire quale è il limite che varcheremo e dove arriveremo, sapendo chi siamo.
Spesso ci si accorge di essere abbandonati dalle aspettative che abbiamo verso coloro a cui tendiamo la mano. Aspettative del tutto estranee al ricevente che riempiamo del nostro autoinganno e del frutto degli alambicchi della nostra fantasia. Tutto ego che vorremmo incisivo e fulgido in questo mondo ingrato. Non arriveremo mai alla quadratura del cerchio: non siamo capaci di investire affetto in qualcosa/qualcuno senza riporvi aspettative.
Confezionare autoinganni è un esercizio tipicamente umano.
Il vento spinge folate di pollini, generoso lontano li cosparge, le dita stropicciano, e s’arrossano gli occhi. Della passata stagione, ancora c’è il fresco ma i fiori che piovono dagli alberi, son nuovi,e han fatto tappeto per insegnarci a non pesare sulla bellezza e sul tempo. Nel muro il glicine col gelsomino abbracciato resiste, e attorno l’aria si profuma di vertigine e di vita che vive.
Tutto quello che si fa, quindi, lo si fa per paura della solitudine? E’ per questo che rinunciamo a tutte le cose di cui ci rammaricheremo alla fine della vita? E’ questo il motivo per cui diciamo raramente ciò che pensiamo? Per quale altra ragione ci abbarbichiamo a tutti questi matrimoni in frantumi, alle false amicizie, ai noiosi pranzi di compleanno? Che cosa avverrebbe se rompessimo con tutto questo, se ponessimo fine al ricatto strisciante e prendessimo partito per noi stessi?…
Pascal Mercier Treno di notte per Lisbona
Ed esiste un’ ulteriore solitudine che brucia le navi, che si spinge sempre innanzi cercando quel pezzo di sè che manca e che non c’è mai stato. Alle risposte bisogna pure trovare una domanda convincente. Anche la scrittura è una risposta, anche il lavoro è una risposta. Funziona fino alla deprivazione di sè e allo scavare nel posto sbagliato, ma scavare è comunque una attività che occupa tempo e genera speranza. La stagione continua tiepida, favorevole ai percorsi tra case che scelgono l’equilibrio tra il dentro e il fuori. Raccoglie parole, la casa, dai libri, dalla radio che sussurra senza obbligo di verifica. E poi accende le luci, mette musica su giradischi e lettori cd, lancia richiami : a dopo, sì,… ci si vede.
Allora una paletta da croupier allontana la solitudine oltre il tavolo verde. Ma tornerà in gioco ed ogni volta la posta sarà più alta: rien ne va plus, si vince, si perde, fate il vostro gioco.