Quando hai tutta sabbia attorno, sotto i tuoi piedi c’è una miriade di vita che calpesterai, è allora che puoi imparare a camminare soffice.
E vale per qualsiasi sabbia tu scelga per camminare, e per qualsiasi vita vorrai per te importante.
A scuola avevo buoni voti in Italiano. A mio modo, dicevano, scrivevo bene. E poi non mi mancavano i vocaboli. Sembravano cosa preziosa i vocaboli, ci costruivano persino i test d’intelligenza, però nessuno scavava i significati. Mi sarebbe piaciuto si scrivesse un tema su una parola, su qualcosa che alla fine si rivelasse a chi scriveva e a chi leggeva, sino al succo del significato. Per capire chi c’era dietro e dentro le parole, per capire davvero di più.
Ma non era questo lo scopo della scuola e sapevo la verità: non ero io a scrivere bene, erano gli altri che scrivevano male. Anche i professori scrivevano male, erano solo corretti, ma insipidi. Cosa si poteva trarre da tutto ciò, se non la percezione di chi scrive davvero bene e l’amore per le parole e la scrittura? Vizi che non valgono nulla se non il piacere che provocano. Ecco ho ricevuto un piacere che mi porto dietro per un errore di giudizio, di questo sono grato.
La parola narrazione mi suscita moti di stizza, ripulsa.
Capisce la parola?
Tutti narriamo, l’abbiamo sempre fatto, ma non abbiamo inventato un genere; a volte spieghiamo, a volte ricordiamo, a volte raccontiamo quello che sembra verosimile, che suona bene. Ecco, credo che la narrazione quando diventa genere, si alimenti soprattutto del terzo genere, intrisa com’è di sentimento e fatti. Più sentimento che fatti e quest’ultimi, piegano il reale.
Non mi piace la narrazione pubblica, mi piace l’invettiva, il j’accuse. Se si parla di camorra, di mafia o della banda della magliana, bisogna evitare il genere letterario, oppure considerarlo tale, far capire che la realtà fa male, perché il pericolo di normalizzazione diventa enorme, come pure quello dell’emulazione. Ci sono t-shirt, felpe, cappellini generati dalla narrazione, idee conformi che non toccano la radice dei fatti, ovvero che l’illegalità è un male profondo, personale e sociale, che l’illegalità genera illegalità e sofferenza, ma soprattutto che l’illegalità è intollerabile.
C’è un limite al racconto ed è quello oltre il quale subentrano i fatti, i nuovi fatti. Si usa molto un’altra parola, che m’infastidisce, spesso legata a narrazione: civile. Coscienza, cerimonia, orazione, società, narrazione, ecc. come se il resto fosse un mondo a parte, non civile. Io credo che le grandi storie, le persone che l’hanno vissute non siano santi civili, sono le urne dei forti del Foscolo, ciò che illumina la notte, ma qui sotto ci siamo tutti con la necessità di vedere chiaro, di distinguere, di schierarci.
Adesso infuria la narrazione civile, credo facciano un po’ i furbi, il discrimine è lieve, la tentazione della nicchia calda, forte; bisogna stare al di qua, comportarsi.
Capisce la parola? Comportarsi di conseguenza.
Non abbiamo bisogno di santi civili, abbiamo bisogno di comportamenti generalizzati che sorreggano i soldati in prima linea. Chi racconta le retrovie, le storie di ordinaria umanità di Napoli o Casal di Principe, chi sostiene oggi i successori di Peppino Impastato, o di Ambrosoli? Prendo Loro ad esempio, ma, in testa, tutti abbiamo i nomi dei caduti in prima linea, molti ce li siamo dimenticati perché sono stati troppi e perché nessuno li ha santificati, fossero giudici, parlamentari, poliziotti, giornalisti, persone per bene. Anche per le medaglie d’oro c’è una narrazione che piega i fatti ai sentimenti.
In questi giorni c’è il programma di Saviano e Fazio, l’ho visto a tratti, è un programma televisivo, non diamogli un significato eccessivo, se fosse due volte alla settimana per 6 mesi, dopo il primo mese lo guarderebbero in pochi. I soliti, quelli che pensano in un certo modo, e perdonano le ripetizioni, cercano ragioni.
C’è un bisogno forte di segni, di unghiate, cose che la narrazione racconta con dita di velluto. Se Grillo fosse in tv, e non sulle piazze dove anche i pidiellini lo vanno a sentire, sarebbe meno della Gabanelli.
Vi siete mai chiesti perché la narrazione rappresenta il limite dell’impotenza? Perché il potere è più forte oppure perché la narrazione, indigna quietamente, attiva quel senso di sdegno che spinge più ad astenersi che a fare ? La mia risposta è sulla seconda opzione.
La sinistra soffre di un complesso di castrazione culturale e informativa che ai tempi del PCI non aveva. Strano vero? Se si narrasse di meno ed accusasse di più, il suo popolo si sentirebbe meno solo, con il suo bisogno di allegria, di obbiettivi e politica, di entusiasmi, di commozione. Per questo la narrazione non serve al cambiamento se non quando diventa carne e sangue del fare, dell’esserci, del partecipare.
Con la narrazione Dreifus sarebbe ancora in galera e Zola avrebbe una rubrica su le Figarò.
Capisce il concetto?
Di molti libri mi piacciono poche frasi, folgoranti come un pensiero che si dimentica. Più rarmente mi colpisce il titolo, sarà per questo che non li ricordo. Ho un conto corrente aperto in una libreria amica che mi permette molte libertà, anche il ripensamento. Il momento che amo è l’approccio don giovannesco, dove non si capisce bene chi conduca il gioco dell’affascinarsi e prendersi. In piedi, prendo in mano il libro, lo apro con la delicatezza che merita un lavoro, leggo, salto, chiudo, riapro, spesso compro. Un pensiero mi rincorre in questo piacere del piluccare: vorrei costruirne un libro sconclusionato fatto di frasi estrapolate, ricucite con la mia storia, con le storie che ho conosciuto, con il mio tempo. Sarebbe un libro palloso, molto personale, da stampare in tre copie, la prima, mia, da mettere in scaffale, la seconda, mia, per correggerla in continuazione, la terza da lasciare al bar sottocasa. Lasciano spesso libri nel bar da Anna, qualcuno li prende, a volte ne porta altri, è un commercio sotterraneo di idee, senza intenzione, che consuma e ripulisce, come il mare. I libri hanno un senso se li rimastichi a pezzi, se ti riconosci. I pezzi di sola bravura mi piacciono, ma lasciano una traccia labile, diventano intoccabili e servono a stabilire distanze incolmabili. Posso parlare con Dostoevskij, con Borges o con Gadda, non con un marziano. E se un autore mi cambia è perché l’ho divorato, fatto mio in quella piccola, grande parte in cui mi ha scoperto, riconosciuto, stanato. Mi dicevano al giornale, quando mandavo qualche articolo: scrivi per essere capito, non per sintonizzarti con quei quattro balordi che ti assomigliano. Magari lo facevo, ma mi mancava qualcosa, non ero adatto, semplicemente, l’ho capito prima io di loro.
Ho visto in Senegal qualcosa che assomiglia a quello che penso, tavole di legno con sure del Corano. I bambini imparano a compitare l’arabo, poi a leggere la sura, la fanno propria e questa man mano diventa l’interpretazione della loro vita che continua. Senza scomodare similitudini importanti, mi piacerebbe che il patchwork di frasi della mia vita fosse nella disponibilità di parole sentite che si modificano, nel ragionare dell’essenziale che rende sempre più smilzo il libro, più semplice. Tabula rasa, non è l’inizio, è il fine della scrittura, la sua cancellazione fino alla scrittura della nuova storia. Basta aver tempo, basta arrivarci a tempo. Intanto raccolgo frasi, mie e non mie. Quando si espunge una frase dal contesto la si può citare, oppure sottacere, modificare, portarla al senso personale, l’autore difficilmente potrebbe riconoscerla, è stato un catalizzatore, e la frase non è più sua, ha prodotto altro, diventando un tratto di chi l’ha ripensata. Anche il senso, il sentimento che sottende la frase non è più lo stesso, è del lettore che non guarda più, ma beve, si nutre e a sua volta scrive (e m’affascina questo perenne riscrivere). E’ un processo intenso, che esige rispetto, devozione, pudore, attesa, emergerà, infatti, quando sarà totalmente opera di chi ha fatto proprio il senso. Come per la biblioteca di Babele di Borges, o la macchina tipografica infinita di Gamow, un oggetto programmato sulla base delle permutazioni delle lettere e delle parole, potrebbe scrivere tutto ciò che è scrivibile e tutto ciò che si scriverà, ma il tempo di leggerlo sarebbe infinito e quindi sarebbe una macchina inutile: solo ciò che è nostro è significativo. L’invito alla chiarezza allora si rovescia, se guardo il mondo come Escher, vedo infinite forme brulicanti ed immaterie che s’agitano dentro di me, di queste pesco una combinazione, un carattere che va al cuore: la chiarezza è pescare dallo stagno il significativo, metterlo assieme, costruire il significato. Ne nasce un libro virtuale e reale, che si aggiorna di continuo nei dettagli, che perde più pezzi di quanti ne acquisti: tolgo tre frasi perché una la riassume. Così vorrei arrivare vicino alla tabula rasa con uno smilzo libretto da gettare, per poi prendere lo stilo e tracciare una lettera, che sia la prima o l’ultima non importa, è l’inizio della nuova storia.
Accade che si sfiori l’irreparabile, che ti passi accanto a talmente poca distanza da sentirne l’alito. E che neppure dipenda da te o da quello che stai facendo. Sei semplicemente nel posto sbagliato.
Ieri mi è stata regalata un pezzo di vita. La prossima. Non è accaduto nulla, ma bastava una frazione di un secondo di differenza, un urlo in meno, un freno poco efficiente. Questo mi porta visivamente a considerare la vita come un film liquido, che si può increspare. Quell’increspatura è ciò che accade e che non vorrei.
Credo che questo modo di ragionare non interessi, non m’importa. Di solito si chiede: come stai? Oppure si batte una mano sulla spalla dicendo: non era ora. La prima risposta è, bene e la seconda è, vero. Si archivia anche la paura, il pensiero di ciò che sarebbe stato senza di noi il mondo degli affetti cari. Qui dicono: ma’e par chi che more ( male per chi muore ), vero, ma far finta di nulla, non ripensare un poco a sé, sarebbe un’occasione perduta per vedere avanti. Non è tutto come prima, è questione di vista di ciò che sta attorno che invoglia a tenere il buono, a lisciare il film liquido.
Sarà il caso, ma questo converge con altre azioni di questi mesi, un segno che star bene significa volersi bene.
Fu attimo impercettibile e la tela dello spazio-tempo s’ increspò,
appena, ma tanto bastava perché una speranza sgusciasse bambina.
Tutt’attorno l’universo continuava la sua corsa, trascinando spirali,
e case, pulviscoli di comete, orli di striscie pedonali, in attese di futuro,
ma nessuno, avvertì quel singulto di possibilità.
Due passioni sincrone, un momento avevano coinciso,
orologi fermi, due volte precisi nello stesso giorno s’erano messi in moto,
ma non avvenne nello stesso posto perché una lama pura d’energia, ne sarebbe scaturita illuminando l’universo.
Nessuno vide nulla ed un altrove generato dallo stesso pasticciare d’atomi e probabilità,
passò, era solo un’increspatura, non l’anticipo di ciò che tutti avrebbero voluto,
desiderato, vissuto senza follia d’impossibile pensiero.
Fu oscuramente chiaro mentre qualcuno portava una necessità a spasso con il cane,
altri guidando nella notte,
non pochi, perduti nei colori distratti dei televisori,
e quando tutti scivolarono nel sonno, il pensiero rimase lì, sul comodino, ad aspettar il giorno,
traccia d’increspatura del telo d’universo già rinchiusa.
Per questo, quando dopo, nel bar, improvviso s’accese un cerino,
e nel vuoto furono due boccate e mezzo sigaro di pensiero,
tutto senza pietà di simmetrie, fu rovesciato nel freddo di gennaio.
Ecco, quello fu il momento in cui il tempo aveva ripreso il suo passato.
Per te, che sfiletti le parole, vorrei una nebula notizia,
un magro insieme, privo d’aggettivi, verbi tra bianchi spazi,
e un dire, come uvetta senza senno e luogo.
Questa macelleria celebra la furia di tagliare, scarnificare,
affilando bisturi e coltelli tra dolciastre scie di dubbio,
ma qualche parola scapestrata dev’essere rimasta, se ora s’erge impudica a significare.
Cosa e dove ?
Lì tra spazi e silenzi, qualche rumore, un lampo,
poi il buio tra ruscellare di pioggia che confluisce,
e depura.
Oh sì che depura, questo maneggiare oggetti senza nomi, poveri segni, significati da spazio bianco,
dove emerge la paura di sporcare:
il silenzio,
la carta,
il sentire acuto.
E se risuona un eco sfregiata
di suono inerpicato oltre sé,
è segno cancellato,
una nenia di stupore d’essere vivo.
Sembrerà ingenuo, ma vorrei andare e tornare senza pena. E il viaggiare è solo una metafora.
Lungo la strada tra Lipova e Arad, case enormi e finti castelli pieni di torri. Sogni di zingari, mai conclusi: chi vive in un carro non può finire una casa. Sarebbe la morte per la sua essenza, per quella dei suoi figli e ancora per tutti quelli a venire. Così danno forma all’idea di casa, per gli altri che vedono, per trasformare l’incubo in sogno, ma poi si svegliano e se ne vanno.
Stanotte
spruzzi di parole e pioggia:
mi bagno
e vorrei pulire un vetro
appannato dal mio respiro