Tutto questo dire, parlare di sé nella prima o nella terza persona singolare, fatto di parole cercate, accumulate in pile ordinate come fossero moneta sonante. Usate per acquisire, scambiare, cedere. Oh sì cedere, nella consapevolezza che il cedere è sempre un avere l’inatteso altro che parte dal muovere all’ascolto e confluisce nel contrattare silente. E che dire delle sparizioni, che poi sono silenzi certamente pieni di contenuti sciorinati altrove, di piccoli tradimenti delle attese, di consequenzialità interrotte, scomposte, riformulate in novità: tutto serve a nascondere le evidenze e ciò che non si vuol dire. Deve sembrare quel confessare virtuale che non è mai tale, irto com’è di reticenze e deviante; non è la confessione orale degli antichi che azzerava lo spirito su una linea d’innocenza e poi poteva iniziare una nuova narrazione, ma una sorta di glorificazione di sé al negativo che si auto limita e riduce a grigio il nero profondo del non dire.
E chi avrebbe mai questa pretesa del vero, del nascosto, del mai rivelato ad altri? Nessuno, non foss’altro che per la reciprocità che poi verrebbe pretesa, ma tutto si muove e alzando virtualmente la mano al cuore qualcuno dice: in verità. Mentre tutto è in attesa di un riscontro; che chi è davvero interrogato parli. Insomma diventa un parlare di sguincio, evitando di vedersi allo specchio e scoprirsi davvero.
Lo specchio non mente e accoglie, rimette ordine tra le rughe dell’anima, le enumera e dà loro un senso, indaga le espressioni, il tirar su il sopracciglio, scandaglia il sorriso e lo porta ad essere ciò che è, ovvero l’ironia nascosta delle cose che abbiamo fatto e che sono rimaste impigliate dentro. Lo specchio accetta il giudizio e lo migliora, ma solo se si vuole e si guarda disarmati. Cosa ben diversa dall’apparire, lo specchiarsi è vedersi rovesciato eppure essere lo stesso. Rivela perché guarda dentro e racconta, ma non esiste un luogo virtuale delle verità, forse perché sarebbe un insieme di atolli e di naufraghi felici.
Ancora parlo, mangio aria, attivo sinapsi, cerco ciò che non so dove sia eppure ha una traccia in me, quindi esiste. Vana immagine d’un suono, riproduzione che non rispetta l’acutezza di ciò che vorrebbe avere rappresentazione. Così si dice: basta piccole verità nascoste tra le righe, nessuno interpreta, è ora, domani smetto. E sono minuscole bulimiche vanità.