Ci si convince, ma non è vero.
Ossia, lo è per noi e per quietare l’inutile che sale alla gola.
C’è chi è bravo in questo, chi in quest’altro e sembra basti.
È per poco, ma sembra basti.
Usciamo col dubbio,
con parapioggia colorati e insufficienti quando servono davvero.
Ci si bagna e la verità appare:
era nell’indifferenza,
nel sapere che ogni cosa ha un limite adeguato
e si è scelto di mettere l’asticella troppo in alto. Mentre l’indifferente non se ne cura.
E neppure salta.
Mi dicono, ma l’ho visto per davvero, che camminava,
pioveva forte, l’acqua correva lungo le ali del cappello,
gli colava dentro la camicia, e lui cantava,
sommessamente cantava come fanno i sovrapensiero
e non accelerava il passo.
Mi è sembrato sorridesse
ed io che non invidio, l’ho amato
in quella sua vita resa capolavoro.
Tra le tante solitudini ve n’è una che non si supera ed è la sensazione di non essere ascoltati. Parlare, scrivere, dipingere, far uscire ciò che urge dentro, è comunque un bisogno ma se esso non riceve attenzione sembra perdersi in noi, tornare indietro. Questa è la solitudine afona che si genera e che è un grido nella notte, un incubo in cui al richiamo nessuno risponde. Ed è una paura che accompagna chiunque metta a disposizione un poco di sé, lo liberi dalla prigione del tenere tutto dentro.
Cosa c’entrasse questo con lo scrivere o con altre forme di comunicazione non lo capivo bene. Di alcuni particolari della casa, dei suoni che avvertivo tra veglia e sonno e venivano dalla strada capivo che facevano parte di un racconto ritmato sulle dita mentre i pensieri vagavano. E la sentivo la mano che scandiva il ricordo di un vissuto che si era poi trasfuso in altro:una tenerezza infinita verso di me e il desiderio di abbracciare chi non c’era. Un’emozione che si ripeteva e che aveva tanti testimoni silenti dentro a farmi compagnia.
Così si torna a quando i calzoni erano corti e le ginocchia sbucciate e alle meraviglia d’allora. Al cinese che aveva una valigia di fibra e vendeva cravatte vicino alla biglietteria nella grande piazza, nella confusione delle persone stanche che attendevano di prendere una corriera che le avrebbe portati a casa. C’era un addensarsi continuo di questi uomini e donne di tutte le età che avevano sguardi imbambolati dalla fatica e diventavano mucchio per poi sparire dentro una corriera che arrivava davanti a loro. In disparte si mettevano assieme le ragazze, che a gruppetti, parlavano e ridevano spesso. Qualcuna ascoltava e basta ma assentiva col capo e le piaceva la compagnia. Erano operaie, sarte, le commesse arrivavano dopo ed erano più attente al vestire, con il rossetto e quei profumi che venivano per poco ma lasciavano una presenza e si facevano notare. Tutte, prima o poi, parlavano di ciò che avrebbero fatto la domenica, di vestiti visti, di feste che erano in attesa d’ezsere organizzate. E si invitavano, si chiudevano a crocchio, arrossivano, dandosi di gomito ai complimenti dei ragazzi che poi si sarebbero seduti al loro fianco in corriera e non pensavano alla cena. Erano ragazze che come le altre persone venivano dai paesi attorno. Abitavano in case diverse da quelle di città. C’era un accenno di parsimonia nel vestire, un bisogno che si traduceva nella realtà dei maglioni fatti in casa, nei cappotti e nei vestiti costruiti da sarte volenterose. L’idea di un ritorno ai profumi forti delle cene, alle cucine scure con luci fioche per risparmiare, le rendeva magre, anche perché non c’era mai troppo da dividere con gli uomini che facevano lavori sempre pesanti ed erano di bocca buona. Nessuna di loro aveva idea di cosa accadesse vicino a loro, nel Paese e tantomeno nel mondo, aspetravano che la vita mantenesse le promesse. Se arrivavano prima e non di corsa per non perdere la corriera, si avvicinavano al cinese quando dovevano fare un regalo al moroso. E allora lo vedevano, si accorgevano con sorpresa che era piccolo, giallo e vestito di tutto punto, elegante e sempre allo stesso modo. Tutto in piccolo fuorché il nodo della cravatta, grosso, spesso sgargiante, all’americana, oppure con righine sottili, all’inglese. Come non ci fosse un modo italiano di mettere insieme i disegni di quella striscia colorata. Si accorgevano che la cravatta era un po’ rialzata dal fermacravatte e spariva in un panciotto della stessa stoffa del vestito, che sostituiva le erre con la elle e che sembrava sorridesse sempre. E che la valigia era grandissima per lui e che poggiava su una di quelle seggioline di legno con la tela a righe che si usano al mare e dentro la valigia c’era un tripudio di colori arrotolati che aumentavano a dismisura le possibilità di scelta. Quasi nessuno comprava e verso le otto e mezza, con l’ultima infornata di commesse inghiottita dalle corriere, la piazza si svuotava. Noi ancora finivamo i giochi d’estate, a lato della piazza c’era il sagrato della chiesa, così mentre tornavo verso casa a volte lo vedevo rimettere in ordine le cravatte, le spille sciorinate e fatte brillare come fossero oggetti di gioielleria e mi fermavo per vedere come avrebbe chiuso quell’enorme valigia. Il cinese, disponeva senza fretta, guardava il risultato e poi abbassava il coperchio, faceva scattare le serrature e come per magia, compariva un piano con ruote. Vi metteva sopra la valigia, la fissava con lo spago e ripiegato il seggiolino, lo infilava sottobraccio. Così si avviava per la salita verso il canale e spariva.
Domani, il cinese, ci sarebbe stato di nuovo, era una certezza, come le corriere e le ragazze.