Se hanno fatto una scala degli uragani, se esiste un luogo mitico vicino a Parigi dove c’è una barra di platino iridio che a temperatura controllata misura esattamente un metro, se in un qualche laboratorio di Heidelberg qualcosa misura la risonanza tra due atomi per trarne un intervallo di tempo oppure una unità derivata, non può non esserci una scala degli amori, del sentire, dell’esserci e del mancare. Solo che questa scala è soggettiva e a nessuno è permesso mettere in dubbio come ci sente. Che si risponda bene o male, o il più esaustivo così così, è sempre un comunicare qualcosa di affine ma non confrontabile.
Amore è piangere le tue lacrime, accendere lo stesso sorriso, guardare le stesse cose e vederle.
Qui ci si può fermare perché non si è detto nulla che non dovrà essere dimostrato attraverso mille piccole cose e non sarà mai finita né sufficiente se da qualche parte esiste un foro. Un piccolo buco che non si riempie e che si è originato quando forze incaute e bambine si sono scontrate con precetti e modi d’essere. Qualcuno, spesso in parecchi, hanno stabilito dove fosse il nostro ufficio pesi e misure e quanto dovevamo assomigliare alle unità di misura in esso depositate.
Dovremmo dire che assomigliare a un metro piega la volontà che voleva essere più lunga o corta e neppure essere un segmento ma un continuum in cui non essere altro che sé. Questo scontro di forze genera piccole pozze di buio che ciascuno riempie come meglio crede, solo che non si riempiono e l’unico modo per capirne la profondità è immergersi in esse. Cosa paurosa perché se si sa che li dentro ci siamo noi, non è chiaro a quale profondità ci si trovi: annegheremo prima? Allora si cerca di riempire dall’esterno, senza arrischiare e quelle piccole pozze apparentemente si colmano ma poi ritornano intatte a specchiare il volto che le guarda. L’amore aiuta, distrae portandoci fuori di noi stessi, cambiando i vincoli. È l’amore che rovescia le cose, che altera il tempo e la sua misura e impone di assomigliarsi, di essere differenti e insieme uguali. Dovremmo essere sempre innamorati e corrisposti e gli analisti di qualsiasi razza e fede avrebbero ben poco da fare.
Mi sono spesso chiesto dov’era la rottura che aveva generato quel mutare. Necessario per il sociale, rassicurante per ricevere amore, ottimo curriculum per fare strada nella vita a patto di trovare il giusto mescolarsi di conformismo e originalità. La rottura è distante, posso anche collocarla per tempo sapendo che non è avvenuto in un giorno e che dopo è stato tutto un aggiustare che ben poco aveva a che fare con il kintsugi. Il puzzle attinge alla fantasia di Mary Shelley più che alle perfezioni apollinee o alla stessa bellezza. Ne esce un qualcosa di imperfetto che è l’equilibrio delle forze possibili, che è noi come si può.
Per questo non si dovrebbe dar troppo credito agli assoluti, accontentarsi evolvendo come predicava Darwin. A volte ciò che ne esce vola, a volte corre, a volte si mimetizza e scompare. Tutto ciò che vive in equilibrio con sé ha già fatto un grandissimo lavoro per essere uguale e insieme differente. Ma cosa saremmo stati senza quelle piccole pozze di buio?
Voglio raccontarti una storia vera che apparentemente non ha relazione con il ragionare un po’ ozioso che ho portato innanzi sinora. Il corbezzolo non si è ripreso ed è morto. La sua lotta con la palma che aveva invaso la sua vasca è stata il motivo per cui con cura l’ho travasato cercando di conservare le radici e la loro terra. Ma non è bastato. Se non l’avessi toccato certamente vivrebbe ancora, con le sue fatiche a crescere in competizione, ma ci sarebbero stati i suoi frutti rossi, dolcissimi a rallegrarmi e forse alla fine un compromesso l’avrebbe trovato con chi aveva invaso il suo terreno. Per tentare da dargli vita alla fine gliel’ho tolta e ora le sue foglie secche penzolano dai rami, l’acqua e il concime non hanno fatto miracoli. Neppure l’affezione che gli porto gli è servita. Mi spiace. Molto. E se ora capisco che bisogna lasciar fare, che gli scontri e gli equilibri si trovano nel fondo delle pozze, nelle radici, tra la terra e il suo comunicare, ciò non toglie il dispiacere di non aver lasciato fare alla vita. Quel corbezzolo aveva viaggiato con me in auto e in aereo e poi nuovamente in auto. Era venuto dalla costa sarda in un fine di maggio e dopo notti passate in stanze aperte da poco alla stagione. Le coperte avevano quel lieve sentore di muffa che si accumula nei posti di mare e così anche una di loro aveva fatto l’esperienza del sole e della spiaggia. Nelle calette non c’era nessuno, per il poco tempo che potevo dedicare allo svago, lasciavo che il sole scaldasse la pelle e che il mare la riempisse di brividi. La magia è trovare se stessi in un tempo che non era previsto, in una solitudine perfetta d’aria e luce, in un incontro spostato, in una trattativa non conclusa. Ricordo molto di quei giorni, potrei descrivere la granulosità della sabbia bianchissima, in certi tratti quasi polvere. Da tenere in mano e lasciare che scivolasse dal pugno chiuso, come fosse la mano una clessidra che dettava il tempo e invece portava distante i pensieri. Li racchiudeva in piccole bolle di desiderio, li osservava con tenerezza mentre ancora non subentrava il dovere. E li vedeva volare. Attorno all’albergo c’erano corbezzoli e altre piante da terra e sasso. Li vedevo come la rappresentazione di quel momento del vivere. Ci fu tempo, ore diurne e notturne, prima di rifare una valigia, prendere un’auto, e così ci fu il voler portare con sé una traccia di quel tempo privo d’una costrizione. C’era il mercato, acquistai una piccola pianta di corbezzolo e due di mirto che vennero con me, anche loro viaggiatori e apolidi di una casa. Perché la casa è il luogo del presente che s’imbeve di segni noti a chi li ha generati. E piantando quelle piante ho sperato si fossero affezionate al luogo dove vivevo perché erano segni vivi d’un vissuto interiore ma soprattutto era vita che voleva crescere.
Per essere troppo premurosi, per dare un ordine alle cose, si forzano i destini e questo non si dovrebbe fare. Questo mi racconta il corbezzolo che avrebbe voluto lottare con la palma e seppure in sofferenza avrebbe cercato di prevalere. Lui aveva scrutato nella sua pozza di buio e lì attingeva le forze, forse avrebbe stretto un patto, forse le radici si sarebbero rispettate, ma di sicuro avrebbe cercato di essere se stesso senza aiuto.
Spero ancora mi contraddica, spero in un pollone che mi ricordi che devo stare attento a mettere limiti a ciò che ha un suo vivere. Ma ciò che capisco è che in quelle piccole pozze di buio non c’era e non c’è solo il timore di ciò che si è, ma il vivere che ha i suoi lati ilari e spesso allegri. C’è la forza che deve trovare equilibri, c’è il crescere e l’andare secondo la propria pazzia. Quella che dovrei rispettare di più e concederle la possibilità di essere, di vivere, di assomigliare e assomigliarmi.