dall’altra parte della barricata 1.

Non sapevo bene cosa significasse, ma quel primo pomeriggio di luglio ero diventato situazionista. Così nel sole, senza preavviso, su una panchina davanti al fiume, con la digestione che chiudeva gli occhi e le righe di “Quindici” che mi ballavano davanti. Capivo che quell’Europa, così grande e diversa di popoli e abitudini, così difficile per i confini da valicare, così complicata per i visti, le lingue e i passaporti, era il mondo perché il resto diventava atlante e una macchia confusa e barbara. Eppure da qualche parte, nel suo cuore, quell’Europa fremeva impaziente, mentre ragazzi poco più grandi di me, si agitavano ancora di più. Alla Freie Universitad di Berlino, leggevo che protestavano, si battevano, discutevano. Ma dov’era la Freie Universität? E Berlino non era una città isola dentro la Germania Democratica, come mai lì la libertà diventava contestazione e non solo necessità? Capivo quello che leggevo e vedevo la distanza dal mio mondo, da quel pomeriggio sospeso di sole, con i pesci che saltavano a pelo d’acqua. Mi sembrava che ciò che leggevo fosse grande, che questo accorciasse le distanze e se avevo caldo, sonno, voglia di andare in piscina o al mare, restava la necessità di capire perché altrove si coagulasse il futuro.

E mentre facevo fatica a tenere alta l’attenzione mi rendevo conto che un piccolo salto in avanti era stato fatto nella mia piccola vita. Nella testa anzitutto, perché per capire, per esserci, bisognava si accendesse l’attenzione, ma soprattutto attorno capivo che c’erano cose che altri discutevano e capivano ed erano totalmente diverse da quelli che fino a quel momento erano stati i miei interessi.

Nella sonnolenta Padova, così simile al torpore post prandiale, non accadeva nulla, ma altrove scomposte e ritmiche code di sauri di scontravano e diventavano altro. Situazionismo, cosa voleva davvero dire? Forse, ma non solo, essere nel presente e mescolare anarchismo e marxismo, vedere la realtà e la sua miseria là dove si viveva, smontare l’attuazione dei sogni attraverso l’analisi di ciò che quei sogni avevano prodotto, vedere i limiti del socialismo attuato e rifiutare il capitalismo. Per me significava discutere con mio padre, con i miei pochi amici che pensavano altro, significava non farsi capire perché non c’era nulla da capire, bastava guardare la realtà e per renderla evidente ancor più, creare situazioni.

Non c’entravo con quanto accaduto ma alla messa in duomo per la commemorazione di Mussolini, un paio di artisti avevano versato 5 litri di ammoniaca pura nella pila dell’acqua santa. La chiesa era stata evacuata, tutti piangevano, tutti erano indignati e la realtà si era mostrata. Così pensavo. I simboli erano urticanti, scomodi e conflittuali. I simboli non erano acqua fresca e come tali si dovevano leggere nel loro produrre cambiamento, nel contrasto con il sonno, il lassismo del non impicciarsi. Era scoccato il mio ’68, anche se mancavano ancora un paio d’anni e non lo sapevo. Neppure dopo l’avrei saputo bene, però capivo che se c’era coincidenza tra desideri, soddisfazione e libertà, si andava verso una situazione di collettiva euforia, di cambiamento, con momenti di felicità.

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