Le cose si sono ricomposte seguendo percorsi che stanno sotto la ragione. Fanno sempre così le cose, hanno una loro intelligenza che non insegna. E invece dovrebbero insegnare, diventare coscienza e prevedibilità possibile, non lasciarci spettatori di quello che pare il mare del caso e poi ficcandoci dentro ad esso.
Non sai nuotare, impara…Come servisse saper nuotare se non hai una direzione. Si resta a galla, ci si salva, ma il posto dove costruire non è il mare del caso, è la terra dove poggi i piedi, dove senti, vedi e prevedi.
Le cose si ricompongono, diventano leggibili, ma passa un sacco di tempo e si accumula dell’altro, che a volte c’entra e a volte è solo conseguenza, finché subentra un po’ di calma.
Si penserà, poi, con malinconica meraviglia, a come eravamo, ma avremmo preferito saperlo allora. Insomma nell’adesso, non ci si vede bene. Forse perché ciò che pare realtà non lo è mai davvero, salvo in momenti particolari e c’è bisogno di quiete che non hai, di distanza per vedere bene e non c’è.
Presbiopia. Era comunque diversa la realtà percepita da quella degli altri. Ciascuno ci aggiungeva di suo, ti mostrava qualcosa che sembrava attraente e si mescolava con te, e così le cose avevano punti di vista. Hai mai provato a farti raccontare una cosa che ricordi bene, che hai vissuto, da un altro che c’era? Ne viene fuori qualcosa di così differente che alla fine non cerchi i fatti ma le cose comuni. Ti sforzi per avere uno straccio di ricordo uguale e non è detto che tu ci riesca. Eppure le cose erano quelle e se le abbiamo vissute diversamente, certamente non si poteva dire allora. Ti avrebbero preso in giro: ma non vedi, ti avrebbero detto, è evidente… Dimostra tu che l’evidenza non è proprio così evidente e comune.
Forse era l’eccessiva fedeltà a sé che travisava. Le convinzioni costruite con fatica, i desideri spasmodici dell’età che mascheravano i bisogni, le notti insonni, i giorni attoniti, le parole eccessive come i silenzi e le offese. Le rabbie, l’incapacità di capire, la presunzione di sapere, la negazione o l’esasperazione dell’intuito, tutto gonfiato in una lente che avvicinava, selezionava, scartava, teneva da conto fatti, cose e sciocchezze marginali. E ora come si è ricombinato tutto questo nei ricordi?
Mah, se si vuole uscire da quella sensazione d’aver sbagliato troppo spesso un particolare che ha rovinato l’evolvere, bisogna leggere o sentirsi raccontare storie di passioni sconcluse da altri. Ascoltare. Lì c’è un confronto con qualcosa che pare d’aver vissuto anche se non è la stessa cosa. E non è la passione per i fallimenti che ridisegna i terreno dei fatti, delle cose accadute, ma la consapevolezza che altrove è accaduto qualcosa di analogo, un ricordo quasi comune che fa compagnia, che toglie l’onnipotenza, la preveggenza, la forza invincibile della volontà e ci consegna a un limite.
Noi siamo un limite, e quando lo capisci, è una cosa che improvvisamente sembra bella, perché non ti sei adagiato, hai continuato a sbagliare, di poco, di un nonnulla e le cose che già erano incastrate nel reale, non le hai perse. Estrai da un sacco il buono che si è composto per capire quello che si ricompone ora. Nel limite, hai fatto, hai portato avanti senza la vista a fuoco e se resta un dirsi nostalgico per l’età perduta, non è per i momenti mancati, perché capisci che ne verranno altri. E sbaglierai, di poco, ancora, perché è la possibilità che interessa non il percorso che non si è fatto e tantomeno quello che non si farà.
È faticoso vivere il momento attuale sapendo che poi, inevitabilmente, apparirà diverso. Risulta sempre un gioco di sfumature, i contorni netti non sono mai possibili.
Vivo e capisco che manca sempre la comprensione vera di ciò che accade attorno, poi il ricordo è altra cosa