Ne dicevano tante, talmente tante che poi non le ricordavano tutte, ma le principali sì, ed erano quelle che si ripetevano nei pranzi delle feste comandate che facevano tutt’uno con le cene. Pranzi padani, intrisi di nebbia e di freddo, nella cucina dei nonni surriscaldata dalla stufa e dalle presenze. Pranzi fatti di lessi infiniti, oca in onto, arrosti, polente, radicchi di campo in padella, pollastri in umido, fondi di carciofo, patate al forno, sughi, salami cotti alla brace, risotti fumanti e capelli d’angelo in brodo per preparare lo stomaco e altro, tanto d’altro, in una gara di gusti, quantità, ricette antiche tramandate più per abitudine che per scelta. Un’ordalia destinata agli stomaci d’acciaio, reduci da fami antiche e recenti di guerra. E ciò che dicevano “i grandi”, seguiva il cibo, dal più leggero al più greve, in un galleggiare dentro e sopra i profumi, conformando e accompagnando le parole, più che i pensieri, nei racconti fatti a voce un po’ più alta del normale e punteggiati da omeriche risate.
Ne dicevano tante che noi piccoli, nella tavola bassa, stavamo zitti ad ascoltare. Sia i racconti di cui conoscevamo la parola successiva, sia quelli che spuntavano freschi da qualche recesso di ricordo. Invariabilmente infiorettati di varianti, con l’eroe raccontante, il motto di spirito, il particolare al limite dell’ascolto per la pruderie connessa, la fine gloriosa oppure così cupa da aspirare le voci in un silenzio che necessitava di una svolta ilare, erano il dire atteso delle feste. E c’era sempre un gotico emergere tra le risate, tra i viaggi compiuti e i progetti in corso, ed era quello dei racconti dell’orrore. C’era sempre qualche fantasma senza pace sentito distintamente in case lontane, qualche presenza o spirito inquieto, ma soprattutto c’era la paura della morte apparente e così i giramondo parlavano di usi stranieri, americani, di punture letali da iniettare nel cuore, dopo morti per morire definitivamente. E quando qualcuno dei piccoli, che ascoltavano in silenzio col boccone sospeso, osservava che se uno era morto l’iniezione non serviva e se invece era vivo lo ammazzava, c’era un attimo di sospensione ma poi chi raccontava si riscuoteva dicendo che tanto non c’era speranza ed era meglio essere sicuri piuttosto che avere dubbi. E i particolari macabri si rincorrevano, parlavano di esperienze, di racconti sentiti da altri, ma assolutamente veri, in un’orgia di terrore che ammutoliva e toglieva ogni dubbio: sì era meglio un’iniezione e finire davvero.
Sulle nostre teste, pettinate con cura dalle madri, la paura attirava le dita a scavare il timore tra i capelli, ad allontanarlo, a trovare altri argomenti del parlare e alla fine eravamo confusi e scarruffati, contenti d’essere ripresi, portati in una dimensione in cui uno scappellotto faceva davvero meno paura dei racconti appena uditi.
Ne dicevano tante e ne arrivavano di nuove, finché i racconti s’annodavano nelle voci, e l’uno riprendeva l’altro, lo proseguiva, e si sovrapponevano le versioni e i finali, spesso differenti. E allora le voci si alzavano perché ciascuno voleva avere ragione e l’altro era svanito, o già avanti col vino. Quel vino rosso che inondava le tovaglie nella foga delle mani, dove intingevano l’indice e lo portavano al lobo o al retro dell’orecchio per evitare la sfortuna dello spandere, quel vino che era quasi precluso alla tavola bassa, ma che colorava l’acqua e faceva dire: un giosseto cossa vuto ch’el ghe fassa: bon sangue. ( un goccio cosa vuoi che gli faccia: buon sangue) E a noi, che adesso ridevamo, pareva una trasgressione da riservare al disinibito raccontare, al cibo sconfinato, alle risate accumulate sino al mal di pancia. Ma non perché davvero tutti capissimo tutto della sfrenata allegria che scoppiava, ma perché se gli altri ridevano era intelligente aver compreso e ridere con loro. Come andava bene stare zitti, aspettando la fine dei racconti e l’inizio dell’immaginazione e dei sogni paurosi, per ottemperare un facile obbligo di deferenza agli adulti, poi presto violato nei cicalecci e negli scherzi tra cugini.
Ne dicevano tante e continuavano finché le bottiglie e i piatti erano vuoti. Fino alle focacce, al caffè corretto, e al resentin con la grappa. Finché le donne liberavano la tavola, accumulando pile impossibili di piatti nel secchiaio per il mattino successivo. La conversazione con le digestioni immani in atto, era più quieta, i racconti leggeri, quasi informazioni, insomma ne dicevano di meno, perché tutti sapevano che nel torpore cominciava il rito comune: la tombola. L’altro divertimento.
È qui che trova pieno significato la condivisione 😊
Che bella parola condividere, Marta 😊
Che belli quei Natali in cui, bambini, era ancora tutto da vivere, avevamo ancora tutta la vita davanti e ci sembrava tutto possibile…
Sei stato molto bravo a dare parola ai tuoi ricordi bambini, che mi hanno riportata un po’ anche alle feste di me bambina.
Ho trovato davvero molto bello questo tuo scritto Will: m’è sembrato percorso da una vena nostalgica, un po’ malinconica ma anche molto tenero e dolce.
Buona notte e buon inizio settimana
con un sorriso,
ciao
Ondina 🙂
Non tutto filava liscio Ondina, ma hai ragione, c’era un mondo davanti che si faceva nelle teste prima che nei fatti. E c’erano un sacco di opzioni nate nel l’ignoranza, l’ignoranza ha pochi dubbi poi si cambia. È bello avere ricordi ed è bello guardare avanti per crearne di nuovi. Buona notte Ondina 🙂
Certo, non tutto filava liscio, non tutto andava bene o come volevamo, ma nemmeno ora tutto fila liscio, tutto va bene, spesso qualcosa non ingrana o non va come vogliamo.
Ma noi ci proviamo e tentiamo…. (anche se spesso non ci riusciamo o non dipende solo da noi) per fare andare un pochino meglio le cose.
Un sorriso e buona giornata Will,
Ciao
Ondina 🙂
Partiamo dal sorriso e dalla buona giornata Ondina, poi già l’impegno di far andare bene le cose è più che sufficiente. 🙂