
Stasera ripulisco occhi e testa dalla ricerca del positivo e neppure voglio trovare la poesia.
E’ bello questo posto, indipendentemente da ciò che penso. Due poveracci hanno appena fatto passare la bottiglietta di succo di frutta da un cestino di bici ad un altro, è piena di dosi. Intorno ho studenti, aperitivi, loro chiaccherano, io scrivo, mi interrompo, parlo, fotografo. Ma non i pusher. Non è solo una questione di rischio, a Tirana, a Kerem, ho rischiato di più, è che inquadrerei situazioni, invece mi interessano i volti, gli occhi e le pieghe del viso. Cosa sta dietro a quel continuo muoversi e guardarsi attorno. E qui non potrei farlo.
Si vedono le tecniche di passaggio delle dosi, l’acquisto. Tutto in scivolata, tutto sulla fiducia, oppure sulla capacità di contare e di valutare in un’occhiata. Tanto se mi freghi, ti trovo.
Guardo, sposto gli occhi. E’ come vivessimo due realtà contigue e incomunicabili. Sulle scalinate dell’antico porto fluviale, i ragazzi si sbaciucchiano, io bevo e scrivo, il mondo si muove assieme al tempo. Dall’acqua bassa emergono le bici rubate e gettate. Chissà perché: per spregio? per indifferenza? Bastava appoggiarle alla spalletta del ponte. Eppure…
Ho storie di questo posto che non interesserebbero quelli che mi stanno attorno. Neppure a quelli con cui parlo. Cose vecchie, ubbie, fantasie: la realtà è altro, è successo, non interessa più.
I fischi si susseguono nell’aria. Avvisi. Polizia ed esercito fanno la ronda e i pusher parlano la lingua degli uccelli, sembra d’essere in una foresta dove gli occhi non si vedono, ma le presenze si sentono. Uccelli che non volano, senza piume e senza cielo.
Non c’è poesia. Sono poveracci, che fanno un male enorme, senza sentirne colpa. Come diceva l’evoluzionista? Dio ama i coleotteri: forse sette-ottocentomila specie, di uomini solo una. Una variabile impazzita e sfuggita al controllo attraverso biforcazioni che dovevano portare a vicoli chiusi ed invece sono emerse vie d’uscita. Un culo pazzesco e imprevedibile. Ecco chi siamo. I pusher si riuniscono e sciamano con una mobilità nervosa da amebe, chissà cosa pensano oltre l’odore della paura. La specie non è così recessiva da includerli, non è così forte da espellerli. Compatibili!
Non c’è poesia. Nessuna. Non oggi che è l’anniversario della morte di Falcone. Forse mai.
Ragazzi fanno jogging lungo il fiume. Magari ogni tanto sniffano anche loro. E’ compatibile. Un tempo si pensava che lo sport salvasse, poi il dooping amatoriale ha spazzato via le illusioni. Certo c’è un mondo pulito. Noi siamo puliti. Guardiamo, stiamo attenti, capiamo, è un mondo compatibile. Solo che non c’è poesia, neppure un poca. Non qui.
I ragazzi parlano attorno, si sta bene seduti a bere, c’è aria che trascina l’afa, il fiume, i pensieri.
La droga fa, da tempo, vittime silenti. Sembra che, a differenza dei miei anni giovanili in cui prevaleva il cupio dissolvi, il bruciare speranze e vita nell’abisso, adesso ci sia scissione e coesistenza. E’ compatibile. Qualche volta, non sempre, basta non prendere il vizio, solo la scimmia. Non al posto d’altro, come fosse parte della normalità. Penso al mondo che ci sta dietro, alla sequenza di disperazioni che porta su, su, fino ai tappeti persiani, gli attici, le mazzette di contanti che confluiranno in edilizia, azioni, attività lecite. Al capo finale della corda che si srotola verso il basso, due morali disperate, due bisogni che si incontrano per sopravvivere, ma ciò che genera tutta questa normalità disperante dovrebbe essere tagliato. La testa dell’idra dovrebbe essere recisa senza pietà. Né scusa.
Non c’è poesia, né positività stasera. Non è necessario che ci sia sempre.
Attorno, cani, genitori giovani, bambini, colombi, studenti, professori. La storia dentro, e davanti, una porta della città. Il leone è una riproduzione, l’originale è a Piazza Venezia a Roma, simbolo delle Generali. Prima, orgoglio e baluardo della Serenissima contro la lega di Cambray, contro l’imperatore. Adesso una copia: il passato è stato venduto. L’iscrizione sulla porta è omnium sanctorum, ma non basteranno tutti i santi a togliere questo posto dall’orlo dell’inferno. L’orlo, solo l’orlo. Chi sta indietro guarda con curiosità l’abisso, bene attento a non fissarlo, ricorda Nietsche, ed allora parla, beve, pensa ad altro. Non è un suo problema. Tollera la diversità finché non diviene minacciosa o da fastidio. Non chiedetemi un giudizio morale. Non è il mio mondo, eppure è lo stesso mondo. La testa è una casa, a volte sicura. Basta chiudere una porta e quello che sta fuori, mi riguarda, ma non così tanto. Basta lasciare che due tempi e due realtà scorrano, l’una dentro e l’altra fuori. Come in Sicilia, ai tempi di Falcone e dopo. Come adesso in Africa, come sempre nel quartiere a fianco. Per favore non chiedetemi di trovare poesia in tutto questo. Possiamo salvarci, dobbiamo salvarci, vedere il bello e l’indifferenza che ci sta attorno. Assieme. Il resto cascherà dal percepito come polvere dalle scarpe. Lo sapete cosa significava scuotere la polvere dai calzari? Considerare morto ciò che s’era attaccato, persone comprese. Si cammina e si chiude la vista, per vivere, per sopravvivere. E allora guardiamo i cani, le ragazze che fanno jogging, i bambini, gli studenti che parlano d’esami e ridono. Ridono perché la vita è bella. A volte è bella. Spesso è bella.
Il pensiero torna a Falcone, a quello che ci stava – e che ci sta dietro- e lì, il pensiero si ferma.
Mi fermo su quei 1000 chili di tritolo e non mi muovo.
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