2 agosto 1980

File:PicassoGuernica.jpg

Il due agosto 1980, prima di mezzogiorno, ero da poco fuori Adria. In macchina con me, mia moglie e mio figlio. Avevo una 128 blu che correva nella campagna d’agosto verso Rovigo. Lì, tra il verde ed il giallo dei campi, in quella campagna così bella di sole e d’acqua, sentii dell’attentato alla stazione di Bologna. L’istinto fu quello di dire: andiamo. Non per vedere, ma per dare una mano. I militanti, ci chiamavamo così allora, c’erano, non avevano paura. Poi pensai all’inutilità, quanto stava accadendo a Bologna, poteva essere l’inizio di qualcos’altro. In quegli anni il timore di un colpo di stato era forte. E non era accaduto in un posto qualsiasi. Bologna. Un simbolo, un baluardo.

Non avevamo capito nulla, abbiamo vissuto in quegli anni, ma eravamo altrove pur essendoci, pur restando nell’occhio del ciclone. Sembrava fosse nell’ordine delle cose, vivere nell’insicurezza, Pensare che il treno non era poi il mezzo così sicuro che ci consigliavano i genitori.

Parlavano di alcuni morti e di feriti, al Gr2, ma col passare del tempo, il racconto, la cronaca rendeva l’atto per quello che era: un gesto di guerra. Credo che il fascismo, così come lo intesero gli estremisti di destra estrema, i golpisti, avesse lo stesso segno delle stragi che si sono consumate poi in Europa. Ultima questa di Oslo, che il dato fosse il gesto eclatante, la risonanza, lo scuotere l’albero dalla radice per troncarla e sradicarlo. Non successe perché nel conto, non entra mai la reazione positiva, la disperazione che supera la paura, non il dolore.

Ciò che venne da Bologna fu l’orrore che le stragi sui treni non erano riuscite a portare così in alto, Fu la consapevolezza che eravamo paese, comunità e il resto, qualunque fosse il motivo, era barbarie.

Non ci sono state verità, come in quasi tutte le stragi, e in molti attentati. I processi si sono conclusi con condanne, ma resta l’impressione che non tutto si sia detto. Ogni volta che passo in stazione a Bologna guardo quella breccia, mi interrogo su quanto sia stato fatto e quanto si poteva fare per sapere, eradicare, impedire dopo la strage. Mi chiedo cosa valga la memoria civile, Quanto la misericordia si debba esercitare dopo la giustizia. Però prima la giustizia, poi, forse, il perdono. E quel prima non è ancora concluso, quella breccia è ancora aperta, Ogni commemorazione la tiene intatta. Spero che un presidente della Repubblica, un capo del Governo, un vice presidente del Csm, vada prima o poi in quella piazza ed assicuri che si chiuderà quella breccia.

E che non si riaprirà mai più.

Per tutte le Guernica che mettono uomini e città in una rete del dolore senza ragione.

un giorno sull’altopiano

 

 

 

Strafen expedition, cercate nei vostri ricordi scolastici, emergerà qualcosa che non ha la dimensione del vero. Doveva durare pochi giorni, spezzare in due un esercito, quello italiano, dilagare nella pianura: prima Thiene, poi Vicenza, poi Padova e Venezia. Si sarebbero ripresi il Veneto, poi il Friuli e forse gli sarebbe bastato per chiudere la guerra. Invece, infornate immense di contadini gettate al fronte, tamponarono la falla. Oltre gli errori e l’impreparazione degli ufficiali, oltre il morale maltrattato dei combattenti, oltre lo sprezzo delle vite, tennero. Per chi e per cosa, forse non era chiaro, ma tennero. Solo l’Ortigara, 19.600 morti in 10 giorni. Asiago bombardata per anni, ogni giorno e ogni notte. In continuazione. Quello che piacerebbe alla lega, non riuscì all’Austria. Chissà perché? Se non si conosce l’altipiano, è difficile immaginarlo come un luogo di guerra. Adesso gli alberi, il turismo, la speculazione edilizia, hanno modificato profondamente i luoghi. Lussu vedeva un paesaggio molto diverso da quello che vediamo oggi. Però anche lui, vedeva la pianura, vedeva le città appena sotto la foschia. Chissà quanto agiva nella volontà, questo legame tra civili e combattenti, come si muoveva l’idea che, poco distanti, c’erano case, campi, lavoro, donne, bambini, vecchi. Nell’epoca classica, si sospendeva la guerra per mietere, forse ancora una traccia dell’umanità del lavoro di pace restava anche nel 1916, nella testa dei combattenti contadini. Oltre gli affetti, la vita. Forse.

Da 15 maggio al 27 giugno 1916, sull’Altipiano ci furono, più o meno equamente divisi, 27.000 morti e 160.000 feriti. Le posizioni a luglio erano di poco diverse rispetto all’attacco, ma era successo il finimondo nella testa delle persone. I suicidi da licenza, le condanne sommarie, la pazzia furono l’altro aspetto della guerra passato sotto silenzio; prima per non intaccare il morale, poi per non guastare il trionfo. Sarebbe importante calarsi nella percezione di questi vinti-vincitori che subirono la guerra e non godettero della vittoria, e in un effetto domino trasmisero gli effetti sulle famiglie, ai luoghi, modificando destini collettivi, villaggi, cultura. Nulla fu uguale dopo e quella diversità non era stata voluta, solo subita.

C’è una lettera al museo di Asiago, scritta da un giovane ufficiale che, il giorno successivo, sarebbe morto nell’assalto. C’erano anche più assalti al giorno, solo il tempo di rimpiazzare i morti. Questa lettera fu fortunosamente ritrovata leggibile, oltre 50 anni dopo la fine della guerra, in un portafogli che era vicino ai resti di un caduto. Di questi ritrovamenti d’ossa, nei boschi ne avvengono ancora adesso, ma senza nulla di intatto. Questa è la fortuna assieme alle parole conservate. La lettera parla alla famiglia, ai genitori e ai fratelli, parla con precisione, in un italiano molto bello, di cosa sarebbe accaduto di lì a poche ore. C’è amor di patria (cosa difficile da definire oggi), si sente un ambiente borghese alle spalle, un pensare che ci siano destini alti, dovere, fedeltà. Cose di complicata comprensione, adesso, soprattutto se paragonate all’ esperienza quotidiana. Non c’è giudizio nelle parole, anzi molta serenità ed immenso amore. Questo giovane a 20 anni, ha capito molto, chiude le aspettative con la necessità di essere quello che dice di essere: un italiano. Fa testamento delle poche cose che ha, dà le ultime raccomandazioni e saluta come partisse. Finché sentivo leggerla, ieri, pensavo a com’è differente il vivere nel momento, disgiunto dal sentire di essere parte di qualcosa di ben più grande. Non un consumare la vita, ma collocarla in qualcosa di collettivo. Dare un senso ed un significato al vivere e al morire oltre  sé. La lettera non arrivò a destinazione. Prima di un attacco, le ultime parole venivano consegnate a chi restava in trincea, se la persona non veniva uccisa, la lettera tornava nelle mani di chi l’aveva scritta. Questa lettera fu data ad una persona che morì a sua volta, e fu seppellita sommariamente. Non c’era tempo, in quei giorni, neppure di cercare una piastrina di riconoscimento. La lettera ritrovata, per un caso fortuito, piega nuovamente l’ improbabilità e ritrova, storia nella storia, l’ultima delle persone a cui era stata indirizzata. Una signora che era bambinetta, quando quel fratello morì. La vita è circolare, aveva aperto sull’altipiano la catena, la rinchiude a Torino, proprio da dove era partita. E la signora adesso riposa nel cimitero vicino al fratello che aveva appena conosciuto. 

Un giorno sull’altipiano, mi imbevo di verde, di pietre, di ricordi che arrivavano dalle storie di casa. C’è una umanità che non se ne va da questi posti, che non è stata scalzata dalle seconde case, dalle piste da sci e dagli alberghi. Ci sono i piccoli cimiteri di guerra che ricordano cos’ è avvenuto. Quello della foto, è piccolino, non ha croci, ma alberi mozzati a 20 anni. Se ne sente il significato, soprattutto guardando gli altri abeti, enormi, lasciati crescere attorno. Sotto quegli alberi mozzati, oltre 3000 giovani, tutti ignoti. Con la mia generazione si spegnerà lentamente il ricordo, ma ieri c’erano giovani che si fermavano, che si chiedevano perché, in certi posti, i caduti erano dell’una e dell’altra parte, mescolati. Ed erano ungheresi, scozzesi, tedeschi, austriaci, francesi, americani, italiani. Ragazzi che avevano la loro età, ma erano già pieni di passato e privi di futuro. Con una voglia di vivere infinita che nessuno avrebbe spento. Questa sensazione di qualcosa di interrotto che non muore, di sofferenza e di vita assieme è quello che mi commuove ogni volta che percorro questi luoghi. E’ quello che prende gli occhi e la gola e fa rabbia, una immensa rabbia che quelle morti vengano rimosse, che tutta quella vita venga cancellata.

 

 

è compatibile

Stasera ripulisco occhi e testa dalla ricerca del positivo e neppure voglio trovare la poesia.

E’ bello questo posto, indipendentemente da ciò che penso.  Due poveracci hanno appena fatto passare la bottiglietta di succo di frutta da un cestino di bici ad un altro, è piena di dosi. Intorno ho studenti, aperitivi, loro chiaccherano, io scrivo, mi interrompo, parlo, fotografo. Ma non i pusher. Non è solo una questione di rischio, a Tirana, a Kerem, ho rischiato di più, è che inquadrerei situazioni, invece mi interessano i volti, gli occhi e le pieghe del viso. Cosa sta dietro a quel continuo muoversi e guardarsi attorno. E qui non potrei farlo.

Si vedono le tecniche di passaggio delle dosi, l’acquisto. Tutto in scivolata, tutto sulla fiducia, oppure sulla capacità di contare e di valutare in un’occhiata. Tanto se mi freghi, ti trovo.

Guardo, sposto gli occhi. E’ come vivessimo due realtà contigue e incomunicabili. Sulle scalinate dell’antico porto fluviale, i ragazzi si sbaciucchiano, io bevo e scrivo, il mondo si muove assieme al tempo. Dall’acqua bassa emergono le bici rubate e gettate. Chissà perché: per spregio? per indifferenza? Bastava appoggiarle alla spalletta del ponte. Eppure…

Ho storie di questo posto che non interesserebbero quelli che mi stanno attorno. Neppure a quelli con cui parlo. Cose vecchie, ubbie, fantasie: la realtà è altro, è successo, non interessa più.

I fischi si susseguono nell’aria. Avvisi. Polizia ed esercito fanno la ronda e i pusher parlano la lingua degli uccelli, sembra d’essere in una foresta dove gli occhi non si vedono, ma le presenze si sentono. Uccelli che non volano, senza piume e senza cielo.

Non c’è poesia. Sono poveracci, che fanno un male enorme, senza sentirne colpa. Come diceva l’evoluzionista? Dio ama i coleotteri: forse sette-ottocentomila specie, di uomini solo una. Una variabile impazzita e sfuggita al controllo attraverso biforcazioni che dovevano portare a vicoli chiusi ed invece sono emerse vie d’uscita. Un culo pazzesco e imprevedibile. Ecco chi siamo. I pusher si riuniscono e sciamano con una mobilità nervosa da amebe, chissà cosa pensano oltre l’odore della paura. La specie non è così recessiva da includerli, non è così forte da espellerli. Compatibili!

Non c’è poesia. Nessuna. Non oggi che è l’anniversario della morte di Falcone. Forse mai.

Ragazzi fanno jogging lungo il fiume. Magari ogni tanto sniffano anche loro. E’ compatibile. Un tempo si pensava che lo sport salvasse, poi il dooping amatoriale ha spazzato via le illusioni. Certo c’è un mondo pulito. Noi siamo puliti. Guardiamo, stiamo attenti, capiamo, è un mondo compatibile. Solo che non c’è poesia, neppure un poca. Non qui.

I ragazzi parlano attorno, si sta bene seduti a bere, c’è aria che trascina l’afa, il fiume, i pensieri.

La droga fa, da tempo, vittime silenti. Sembra che, a differenza dei miei anni giovanili in cui prevaleva il cupio dissolvi, il bruciare speranze e vita nell’abisso, adesso ci sia scissione e coesistenza. E’ compatibile. Qualche volta, non sempre, basta non prendere il vizio, solo la scimmia. Non al posto d’altro, come fosse parte della normalità. Penso al mondo che ci sta dietro, alla sequenza di disperazioni che porta su, su, fino ai tappeti persiani, gli attici, le mazzette di contanti che confluiranno in edilizia, azioni, attività lecite. Al capo finale della corda che si srotola verso il basso, due morali disperate, due bisogni che si incontrano per sopravvivere, ma ciò che genera tutta questa normalità disperante dovrebbe essere tagliato. La testa dell’idra dovrebbe essere recisa senza pietà. Né scusa.

Non c’è poesia, né positività stasera. Non è necessario che ci sia sempre.

Attorno, cani, genitori giovani, bambini, colombi, studenti, professori. La storia dentro, e davanti, una porta della città. Il leone è una riproduzione, l’originale è a Piazza Venezia a Roma, simbolo delle Generali. Prima, orgoglio e baluardo della Serenissima contro la lega di Cambray, contro l’imperatore. Adesso una copia: il passato è stato venduto. L’iscrizione sulla porta è omnium sanctorum, ma non basteranno tutti i santi a togliere questo posto dall’orlo dell’inferno. L’orlo, solo l’orlo. Chi sta indietro guarda con curiosità l’abisso, bene attento a non fissarlo, ricorda Nietsche, ed allora parla, beve, pensa ad altro. Non è un suo problema. Tollera la diversità finché non diviene minacciosa o da fastidio. Non chiedetemi un giudizio morale. Non è il mio mondo, eppure è lo stesso mondo. La testa è una casa, a volte sicura. Basta chiudere una porta e quello che sta fuori, mi riguarda, ma non così tanto. Basta lasciare che due tempi e due realtà scorrano, l’una dentro e l’altra fuori. Come in Sicilia, ai tempi di Falcone e dopo. Come adesso in Africa, come sempre nel quartiere a fianco. Per favore non chiedetemi di trovare poesia in tutto questo. Possiamo salvarci, dobbiamo salvarci, vedere il bello e l’indifferenza che ci sta attorno. Assieme. Il resto cascherà dal percepito come polvere dalle scarpe. Lo sapete cosa significava scuotere la polvere dai calzari? Considerare morto ciò che s’era attaccato, persone comprese. Si cammina e si chiude la vista, per vivere, per sopravvivere. E allora guardiamo i cani, le ragazze che fanno jogging, i bambini, gli studenti che parlano d’esami e ridono. Ridono perché la vita è bella. A volte è bella. Spesso è bella.

Il pensiero torna a Falcone, a quello che ci stava – e che ci sta dietro- e lì, il pensiero si ferma.

Mi fermo su quei 1000 chili di tritolo e non mi muovo.

saturazione

Il silenzio interiore non è pratica facile, ma è : 

Terapia, per sanare le ferite ricevute o provocate.

Meditazione per lasciar entrare qualche consapevolezza.

Riposo dopo i si e i nò che costano fatica.

Coesione per rabberciare quello che tende a disperdersi.

Espiazione per lasciare che i rimproveri interiori emergano.

Allegria per ri trovare le ragioni del sorriso.

Attesa per lasciare che decanti il rumore ed emerga il suono.

Bene per non dire ciò che non si pensa.

 

Il silenzio interiore è il vuoto scelto consapevolmente.

 

 

 

25 aprile

Ieri c’era il sole, la maratona del santo, lunghe file di auto che andavano verso il mare e davanti all’università, unica in Italia, decorata di medaglia d’oro, la celebrazione del 25 aprile. Era difficile arrivare, il percorso dei maratoneti ha transennato l’intero centro, ma alcuni determinati sono arrivati a sentire i discorsi, la banda dei vecchi bersaglieri, il cerimoniale imcomprensibile delle bandiere.

La liberazione non è la festa del Paese, non di questo paese, almeno: è una festa di parte. Ed è giusto che assuma questa dimensione. E’ giusto che non si mischi tutto, che il sindaco leghista che vuole festeggiare con la canzone del Piave, festeggi con questa se ci riesce. E cosa festeggerà, la liberazione dall’Austria Ungheria già avvenuta all’entrata in guerrà, i morti cafoni, mandati a tappare le falle dei generali sabaudi, oppure i contadini sardi, abruzzesi, siciliani, macellati sulle doline del Carso? Cosa festeggerà col sangue di chi vuol mettere distante da questa terra ?

La liberazione non è la festa di tutti, non può essere la festa di chi considerava la libertà un’optional, di chi impediva l’espessione delle idee, la democrazia una jattura. Non può essere la festa degli omofobi, degli antisemiti, degli anti tutto ciò chenonpensacome me fino alla soppressione del fastidio.

La liberazione non è la festa di tutti, si deve celebrare in pochi, tra chi crede che alcuni ideali non siano carta straccia, deve riguardare i giovani e gli anziani che sono di parte, partigiani, per l’appunto. Sono stanco della retorica, dell’unanimismo, la maggioranza di questo paese non crede che le ragioni per cui ragazzi neppure ventenni si immolarono sia importante, bisogna prenderne atto, capire che occultare questo fatto è irresponsabile. Non sentite il sottile senso di fastidio, quando vengono nominati i luoghi delle stragi: Marzabotto, Sant’Anna, Ardeatine e basta , non se può più. Sono cose passate!

Questo è un paese diviso, che persegue e perseguirà la divisione, la solidarietà non esiste più nei posti di lavoro e tra le persone, si è cancellata la povertà perché il suo pensiero infastidisce, le libertà individuali coincidono con le capacità di consumo. La liberazione parlava di coesione, di libertà inalienabili, di accoglienza e tolleranza, di democrazia rigorosa, di servizio disinteressato al paese. Questi sono problemi, angustie di una minoranza e quella minoranza deve riflettere e commemorare. Riflettere su cosa intende fare, commemorare chi ha creduto e sacrificato. Ma non è un patrimonio comune, forse lo è stato, oggi è stato seppellito nella retorica e tolto dalla prassi. Sparirà dalla memoria e dall’insegnamento, restando in una minoranza che ancora ci crede. Che questa festa resti solo di questi, che cessi d’essere festa nazionale, che ridiventi un giorno di lavoro. Chi ci crede si prenderà un giorno di ferie, porterà i figli in piazza, gli parlerà dei ragazzi che lasciarono il liceo e l’università per farsi impiccare a Bassano o fucilare davanti un muro di caserma e gli spiegherà perchè. Allora la riunione del paese diviso si rimetterà in moto, così è solo una giornata di sole.

n.b. Due anni fa non avevo idee diverse, solo speravo un po’ di più.

l’aereo di carta

 

Il mio piccolo aereo di carta non vola,

s’ appoggia svogliato sul vento,

e neppure si sforza:

uccello senza senno, è immeritato custode di folate.

Così si finisce ovunque, non c’è destino allegro, forse

è stanchezza d’aver udito troppi canti viandanti,

o l’ebbrezza del nuovo che guarda e non si posa.

Mentre mio è il sogno dei vecchi piloti,

divenuti elica che scava nel cielo

 e sfida per la sorte nell’ebbrezza d’una nube:

avrà ancora una carta in più, la vita?

Perdono i vecchi piloti,

mentre ruotano col passo dell’elica,

il loro bicchiere resta nei bar degli aeroporti

assieme all’odore di tabacco forte;

perdono solo le sfide impossibili non vinte,

ma lottano con forza di vecchi,

stanca e sapiente, quanto basta per beffare la morte, solo un po’.

E intanto il mio aereo di carta non impara a volare,

s’ appoggia al vento,

godendo una primavera che non merita.

 

 

 

dizionario interiore: la vergogna

La vergogna inizia in Sudan, prosegue nel deserto libico fino alla costa, continua in mare fino all’incriminazione del reato di immigrazione clandestina. Queste persone si fidano di noi, vengono da paesi in cui parlano bene degli italiani, ne parlano in casa e ricordano i loro nonni Ascari, morti senza paga nei campi di battaglia dell’Italia.  Non hanno alzato la voce sui danni di guerra come ha fatto la Libia, non pretendono risarcimenti sulle leggi razziali del fascismo. Ma da quelle parti, Berlusconi non va in visita, perchè non hanno petrolio e neppure denaro da investire nelle aziende italiane in difficoltà o forse perchè sono meno arroganti e vicini. Tre anni fa ero in Eritrea, non c’era l’assalto dei mendicanti, la dignità era nei volti e nelle schiene diritte. Sarà per questo che la vergogna mi prende, anche per quel 71% di italiani, che pensa sia giusto processare i sopravvissuti. Non sarò mai in quel 71%, che mi pesa addosso, ma non capisco più chi mi sta a fianco, lo guardo come un nemico. Penso che prima o poi toccherà a me. E la vergogna sale dallo stomaco e prende il cervello. Ed io che non credo, vorrei un padre Cristoforo che alzasse il braccio e dicesse: verrà un giorno… 

Leggete la cronaca di Ezio Mauro, leggetela come si leggeva Pellico. Leggetela Voi, perchè chi dovrebbe leggere Pellico non sa neppure chi sia stato.

http://www.repubblica.it/2009/08/sezioni/cronaca/immigrati-10/viaggio-morte-italia-mauro/viaggio-morte-italia-mauro.html

linciaggi pasquali

Ieri sera pagando al distributore, almeno tre persone a voce molto alta commentavano le immagini televisive dei badanti/sciacalli rumeni che in Abruzzo, avevano sottratto gioielli agli anziani assistiti. Quattro pallottole in testa, che processi, dobbiamo spendere i nostri soldi per questi assassini? Se Storace si presenta e propone la pena di morte, lo voto. Bisogna ammazzarli e basta. La concitazione cresceva con le immagini fino a diventare un coro che si autoeccitava. Solo la cassiera era imbarazzata con me.

Due ore dopo, all’Aquila, nel tribunale allestito per il processo per direttissima, i rumeni venivano assolti: erano entrati nella casa in cui abitavano per prendere le loro poche cose preziose, non avevano rubato nulla, anzi avevano tutelato le persone assistite.

Per chi urlava non cambierà nulla: bisogna ammazzarli, sono tutti delinquenti o lo diventeranno.

Non so cosa significa dire buona pasqua, ma sono sicuro che questo augurio domani circolerà tra quelle voci.

Chi ha cambiato così le persone?

Adesso è ora di avere paura e coraggio: paura per quanto succede e coraggio di dire ciò che si pensa.

piccoli delitti

dei nostri piccoli delitti portiamo sproporzionata pena: un codice interiore ci condanna. Forse tra tutte le similitudini, l’arrovellarsi sul giogo di Gordio è lo specchio di ciò che ci differenzia: Alessandro aveva una spada affilata e risolse il problema, gli altri, noi compresi, erano lì a sciogliere e lisciar canapi, pensando di mantenere integra la gomena e il carro. Nè consola che lo spirito d’Alessandro risolse presto anche la vita propria, era il suo destino, altro è il nostro. E in entrambi non c’era minor sproporzionata pena.

Ma questo vale per chi non lascia scorrere via la vita ed accetta vi sia il posto per la tristezza e il riso e che il giorno porti in sè smemoratezza e coscienzaNulla è dato davvero per l’ultima volta: questo è il motivo del sublime errore che si ripete e dei nuovi sbagli a cui faremo posto.

A volte vien da pensare che non i volonterosi, non i sensibili, ma i furbi mediocri gestori dell’insensibilità, siano il prodotto dell’evoluzione e che agli altri spetti inventare e fabbricar i carri su cui far loro posto.

responsabilità e colpa

Userò queste due parole sulla mia pelle, magari con un poco di sale, per parlarmi della giornata della memoria. Dovrei aggiungere altre parole: rigore, consapevolezza e poi unirle a leggerezza, perdono, memoria.

L’uomo non è mai uscito dalla condizione animale e non è una scusante, anzi è il motivo per cui esistono leggi, regole, etica, morale, religioni. Pali, recinti in cui arginare istinti, pulsioni, falle dell’intelligenza, solidarietà inesistenti, cinismo ma soprattutto quello che Annah Arendt definì la banalità del male. Che accade quando, seguendo la legge regolarmente promulgata, si viola una legge più universale, più profonda e cioè quella della specie? Il genocidio, l’uccisione di massa è questa violazione, anche compiuta secondo legge: lo sterminio di un pezzo della propria specie non più riconosciuta come tale. Se ciò accade è perchè viene sospesa l’umanità ed attivato thanatos e il male, senza correttivi. In questi giorni mi sono chiesto perchè Gaza, perchè chi ha patito così tanto, chi è stato oggetto di una violazione così grande dell’umanità, abbia sospeso la propria memoria. Credo che la memoria se ne sia andata, anche per gli ebrei, e man mano muoiono i testimoni, del resto muti di fronte a tanta violenza subita e veduta, anche l’olocausto diventa storia e non è sovrapponibile agli olocausti odierni.

La rimozione della colpa in occidente ha una specularità nella rimozione della responsabilità. Come posso essere responsabile di qualcosa che non ho commesso? Ma come posso essere irresponsabile se non mi schiero dalla parte di ciò che sento giusto? Anche chi è stato vittima non può sottrarsi alla testimonianza, deve perseguire la strada del giusto, acquisisce un obbligo in più: quello del ricordo e della sua attualizzazione. Per chi ha miei anni e vide le foto nei libri di Abe Steiner, di Pietro Caleffi, lesse dell’orrore quando ancora l’orrore non aveva intera la dimensione, è facile essere dalla parte degli ebrei, di quegli ebrei. Perchè non c’è scelta a metà tra giustizia e infamia, tra orrore e carnefice. Ma ad un certo punto la logica della colpa ha rimosso la responsabilità individuale diluendola in quella collettiva e sanando poi l’una e l’altra attraverso la sospensione del diritto. Quasi subito si sono trovate scorciatoie, come bastasse dare uno stato a ciò che restava del popolo ebreo per cancellare l’infamia sul genere umano, come fosse possibile rimuovere la condizione dicriminatoria dalle teste delle persone, ovunque ci fosse un interesse a definire la diversità come una colpa da estirpare.  La responsabilità non dà tregua ed è più facile trattare la colpa, trovare qualcuno che ci consoli, che ci assolva. In quei campi non morirono solo gli ebrei, ma i diversi, gli originali, i non consenzienti, i polacchi, i russi, i comunisti, gli zingari, gli omosessuali, gli europei. Basta dare un confine, un esercito, il quarto al mondo, basta pagare per cancellare il ricordo, la colpa collettiva di allora? E quelle di oggi? Sì, se si vuole rimuovere la responsabilità di essere uomini. I negazionisti di oggi non sono solo quelli che negano le camere a gas, ma quelli che negano la barbarie, che non pongono argine alla discriminazione, che non sentono le morti come assolute e come un crimine contro la specie. Le stragi sono quotidiane, disseminate ovunque, ma sono morti che non pesano, che non esistono e ciò che fa male è l’indifferenza in cui la notizia relega la pietà. Pietà e responsabilità, per tutti, non solo per i cristiani che videro, approvarono, fecero, nutrendosi di chissà quali radici, responsabilità e memoria, da perseguire con rigore nella leggerezza del vivere, dell’essere, dell’osare, che a noi è data e ad altri è tolta. Grossman assieme a tanti altri, dell’una e dell’altra parte, ripete l’ineluttabilità del dialogo, del mettere assieme. L’invito è a non pensare che il diritto e la pace siano scollegati dall’accettazione della diversità, e che questa discrimina l’essere o meno uomini. Si può essere simulacri d’uomini e belve, ascoltare Beethoven o gli U2 e usare il fuoco per sterminare. Per questo la giornata della memoria è ogni giorno, perchè ogni giorno siamo in questo mondo in cui anche i morti portano la responsabilità di essere stati vivi. Non scordare significa vivere oggi, dare onore a chi è morto, ripristinare il confine tra giusto ed ingiusto, ovunque sia ed accada. Le colpe e il perdono accompagnano la responsabilità, qui, ora, adesso, subito. Contro il cervello unico e il pastrocchio che giustifica, non si giustifica nulla, ci si assolve solo guardando con rigore ciò che accade ed è accaduto. Vorrei essere provocatorio, ma sono sicuro che tra i 36 giusti che testimoniando la giustizia, impediscono a dio di distruggere il mondo,   di certo uno è palestinese ed uno è ebreo.